Islam, prima apertura sull’aborto

di Claudio Gallo
in “La Stampa” del 6 maggio 2009

«Una donna stuprata può abortire entro i primi tre mesi della gravidanza». Parola dello sheikh Mohammed Said Tantawi, imam dell’università cairota di Al Azhar, la massima autorità sunnita, una specie di Vaticano musulmano se l’Islam avesse un solo ombelico. Quando la parola di Tantawi prende forma di fatwa, come in questo caso, diventa legge religiosa. Nel complicato e rissoso mondo giuridico islamico, la fatwa ha indignato molte venerabili barbe: in genere gli ulema sono contrari all’aborto nonostante le varie scuole siano pronte a citare interminabili varianti.

Che fosse favorevole all’aborto nei casi di violenza sessuale, Tantawi lo aveva già stabilito nel 2004, ma ieri ha rettificato la sua fatwa, ammorbidendola, per imprimerla con più veemenza nelle orecchie dei fedeli: dall’Umma (la comunità di tutti i musulmani) ai telegiornali. L’occasione è stato il discorso per la chiusura della stagione culturale del Consiglio per gli affari islamici, nella centrale moschea di Al Nur.

Ha tuonato: «La sharia, la legge islamica, tratta ogni caso a seconda delle circostanze. Se per esempio una ragazza pura e immacolata rimane incinta in seguito a uno stupro, subìto in strada o mentre sta andando a scuola, non vi è alcun impedimento se va da un medico per rimuovere le tracce dell’aggressione che ha subìto e per proteggere il suo onore e la sua dignità». Insomma Tantawi è tornato sul vecchio parere ma ha aggiunto che la ragazza di cui parla deve «godere di una buona reputazione». Poi ha spostato la possibilità di intervenire dai primi quattro ai primi tre mesi, una limitazione, come vedremo, cruciale per i dottori della legge.

Il pronunciamento non è filato liscio neppure tra le austere mura di Al Azhar. Mohamed Crema, membro della commissione per le fatwa, ha attaccato l’imam. «Così si apre la porta agli abusi – ha detto alla tv Al Hayat -. Donne immorali e giovani peccatrici potrebbero approfittarne per sbarazzarsi di una gravidanza frutto di una relazione sessuale illecita». La discussione non è un semplice esercizio scolastico: in Egitto le donne stuprate sono 20 mila l’anno, e più volte si è cercato di portare in parlamento una legge che consenta l’aborto alle vittime.

Negli Anni 90 si era detto che gli imam bosniaci avessero emesso fatwa simili per le donne violentate dai militari serbi. Lo stesso avrebbero fatto i religiosi algerini nelle recenti stagioni del terrore. Al di là della frammentazione di scuole e sette, l’Islam concorda su alcuni punti fermi riguardo alla vita che nasce. I passi coranici da cui parte tutta la giurisprudenza sono due (XXIII, 12, 14 e XXII,5). «Lo sviluppo embrionale – spiega Ida Ziglio-Grandi, arabista-islamologa dell’Università di Venezia – è diviso in sette fasi.

L’ultima coincide con l’infusione dell’anima da parte di Dio. Per la Sunna questo avviene al quarto mese, prima il feto non può considerarsi una persona». Di qui la generale condanna dell’aborto dopo i 120 giorni. Su quel che si può fare prima, le scuole si dividono. In genere, l’aborto per indigenza economica è vietato, perché, lo dice il Corano, sarebbe un tradimento della fede in Dio. La scuola legale Hambalita (quella seguita dai Wahabiti dell’Arabia Saudita) proibisce l’aborto sempre, ma consente l’uso di farmaci entro i primi 40 giorni per eliminare «il problema».

Dunque, aborto no, pillola del giorno dopo sì. Il diritto islamico privilegia la vita della madre su quella del figlio, per cui è ammesso l’aborto terapeutico, per salvare la vita della madre. Sempre però prima dei 120 giorni. Talvolta si permette l’aborto in caso di malattia o malformazione del feto.

Nel mondo sciita iranico, l’Ayatollah Ali Khamenei, la guida suprema dell’Iran, stilò una fatwa che consentiva l’aborto se, nelle prime dieci settimane, si fosse scoperto che il feto era ammalato di Talassemia. Nelle questioni etiche l’Islam non assomiglia a quel monolite di regole bronzee in cui l’estremismo terrorista ci ha abituato a credere.