Perù, rivolta indigena per la terra

di Alessandro Grandi
da www.peacereporter.net

Non si placano le anime in Perù dopo le violenze dei giorni scorsi. Gli incidenti scoppiati fra popolazioni indigene e polizia hanno causato la morte di trentasei persone: 24 agenti e 9 civili. Più di cento le persone rimaste ferite. Lo scontro adesso si sposta sull’asse politico fra sostenitori dei nativi e quelli della repressione. Il presidente Alan Garcia a questo punto sembra avere le spalle al muro. Dodici poliziotti presi in ostaggio sarebbero stati uccisi a colpi di machete. Paura che il conflitto sociale degeneri e getti il Paese nelle braccia di una guerra civile.

Le popolazioni native dell’area amazzonica, circa 5.000 persone appartenenti a una sessantina di tribù, manifestano da tempo per impedire che le risorse naturali peruviane, petrolio e gas naturale in primis, prendano la via del libero mercato e si svendano agli Usa. Da aprile gli indios sono sul piede di guerra: troppe minacce all’area amazzonica in cui vivono, troppa paura che le ricchezze naturali peruviane possano finire nelle mani delle multinazionali straniere che, soprattutto in Perù, detengono la leadership in quasi tutti i campi dell’economia di mercato. Troppi, ancora, i timori che le terre che dagli anni Settanta il governo ha restituito ai nativi possano nuovamente tornare nelle mani dello Stato (che se le riprenderebbe con la forza) e da lì prendere il via verso altre nazioni.

Oggi il presidente Alan Garcia si vede attaccato dai più fronti che in parte lo ritengono responsabile delle morti degli ultimi giorni. “Questa è la nostra terra, la nostra cultura, la nostra identità. Per noi questi territori hanno un valore spirituale. Per il ‘mercato’ queste terre, invece, hanno un’importanza commerciale negoziabile” dicono i rappresentanti indigeni che spiegano come, con la legge voluta dall’amministrazione di Garcia circa il 60 percento delle terre amazzoniche del Perù possa essere venduto alle multinazionali che ne estrarrebbero idrocarburi.

Gli indios dunque, dicono basta. Da aprile le manifestazioni indigene sono state quotidiane e assolutamente pacifiche. Come da sempre avviene nella cultura della gente che vive da quelle parti. Il timore che il nuovo Trattato di Libero Commercio con gli Usa potesse in qualche modo spopolare la zona amazzonica e regalare le risorse ai potenti della terra ha fatto in modo che le popolazioni di etnia awajun e baguinos iniziassero a protestare.

Ma c’è un problema: protestare in Perù significa anche esporsi in prima persona alla repressione delle forze di sicurezza, proprio come avvenuto la scorsa settimana. Gli agenti, infatti, non si sono risparmiati e hanno aperto il fuoco sulla folla dapprima utilizzando gas lacrimogeni con l’intento di disperdere la folla e in un secondo momento sparando proiettili veri e propri ad altezza uomo. Non contenti hanno anche chiesto l’intervento di elicotteri che hanno lanciato dall’alto lacrimogeni e aiutando gli oltre 700 poliziotti intervenuti nell’area.

Dall’8 giugno, dopo giorni di incidenti, la situazione sembra essere leggermente migliorata. I manifestanti stanno pian piano abbandonando le loro posizioni, soprattutto dopo la dichiarazione del coprifuoco e dello stato d’emergenza da parte dell’amministrazione peruviana. Ma la mobilitazione dei nativi, fedeli alla loro cultura ancestrale legata in mo do viscerale alla terra, non si fermerà di sicuro.

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Mobilitazione indigena contro la privatizzazione dell’Amazzonia
Sotto accusa il Decreto Legislativo 1090, che ha aperto la strada alla svendita delle terre comunitarie indigene

di David Lifodi
Fonte: www.cnr.org.pe, www.aidesep.org.pe

Con una serie impressionante di bugie diffuse di fronte al mondo il presidente peruviano Alan García ha liquidato la strage compiuta e voluta da lui stesso e dal governo nei confronti delle comunità indigene da mesi in lotta contro la svendita delle terre comunitarie alle multinazionali straniere. Inizialmente García ha sostenuto che la mobilitazione indigena andava contro gli interessi del paese, poi ha dichiarato di esser stato sempre disponibile al dialogo con i rappresentanti delle comunità indigene, infine ha associato la protesta al terrorismo.

Per fortuna l’ottimo lavoro di controinformazione condotto da Aidesep (l’Asociación Interétnica del Desarrollo de la Selva Peruana, una delle principali organizzazioni in lotta) e Cnr (Coordinadora Nacional de Radio) ha portato alla luce un’altra realtà, seppur drammatica, che definisce Bagua (la località dove più violenti sono stati gli scontri tra indigeni e l’esercito inviato da Lima, situata nel dipartimento di Amazonas, a centinaia di chilometri dalla capitale) “una zona di guerra dove il rispetto per i diritti umani è del tutto assente”.

La cronaca. Dallo scorso 9 Aprile la mobilitazione indigena contro lo sfruttamento e la messa in vendita delle risorse naturali che si trovano nelle terre delle comunità è cresciuta quotidianamente. I popoli indigeni awajún, achuar e shawi da tempo chiedevano un incontro al governo e alla presidenza della Repubblica per il ritiro di un pacchetto di decreti raggruppati sotto il nome di “Decreto Legislativo 1090”, che secondo loro avrebbe finito per inficiare i diritti degli abitanti dell’Amazzonia peruviana sulle loro terre.

Memori della concessione di García di due campi gassiferi a Pluspetrol (compagnia argentina) e Petroperù la scorsa estate, a cui era seguita la proclamazione dello stato d’emergenza e la sospensione dei diritti civili nei dipartimenti di Amazonas, Ucayali, Loreto, Cusco e San Martín, gli indigeni chiedevano una previa consultazione (mai accordata dal governo) secondo quanto previsto dal Convenio 169 dell’Oit (Organización Internacional del Trabajo), l’organizzazione che si occupa della tutela degli indios a livello internazionale. In particolare è stata la Ley Forestal, contenuta all’interno del “Decreto Legislativo 1090”, la più contestata e alla base della quale sono state poste le condizioni per la privatizzazione dell’Amazzonia peruviana nell’ambito del Trattato di Libero Commercio che García aveva firmato con l’allora presidente Bush nel 2008, un vero e proprio accordo capestro nella migliore tradizione dei rapporti coloniali che l’amministrazione repubblicana statunitense ha cercato di instaurare con i (pochi) presidenti di sua fiducia rimasti in America Latina, tra cui quello peruviano.

Il blocco di una strada (la carretera Fernando Belaunde Terry) nei pressi di Bagua organizzato dalle comunità indigene componenti Aidesep e Caoi (la Coordinadora Andina de Organizaciones Indígenas) è servito come pretesto al governo per scatenare l’attacco contro gli indios, nonostante fonti vicine al presidente García sostengano che è stato l’esercito ad esser vittima di un attacco premeditato. Al contrario, i media indipendenti vicini ai movimenti indigeni parlano di un fitto lancio di lacrimogeni e di un vero e proprio tiro al bersaglio nei confronti dei manifestanti con almeno 25 indios uccisi, mentre alcuni feriti sarebbero stati arrestati dalla polizia negli ospedali. Inoltre, sono stati uccisi durante gli scontri venti poliziotti, alcuni nel tentativo di liberare i loro colleghi fatti prigionieri dagli stessi indios.

La situazione sembra essere del tutto sfuggita di mano ad Alan García, che già aveva guidato il paese tra il 1985 e il 1990 come il più giovane presidente nella storia del Perù: in quei cinque anni contribuì ad accelerare un’inflazione già galoppante, fu ripetutamente accusato di corruzione e portò lo stato ad un disastro economico senza precedenti, tanto da andare in esilio prima a Colombia e poi in Francia proprio mentre stava compiendo i suoi primi passi la dittatura di Fujimori.

Nonostante una nuova proclamazione dello stato di emergenza, un m
andato di cattura nei confronti dei rappresentati più in vista del movimento indigeno e l’esercito nelle strade, il Comité de Lucha por la Vida y Soberanía Nacional (capeggiato da Aidesep), ha indetto uno sciopero generale per l’11 Giugno con il preciso scopo di cacciare García e far cadere il governo e al quale ha già aderito la Fntmmsp, la centrale sindacale che raggruppa il lavoratori del settore metallurgico, siderurgico e minerario. Quello che il presidente peruviano sembra non capire (o non voler capire) riguarda l’assoluta mancanza di rispetto per quella popolazione indigena e andina che costituisce parte integrante del paese.

Basta scorrere poche righe della dichiarazione dei popoli indigeni awajún, achuar e shawi per capire che si tratta di un vero e proprio manifesto politico che difende la loro dignità, la loro vita e il loro futuro: chiedono il rispetto e il riconoscimento dei diritti dei popoli indigeni, esigono di non essere scavalcati dalle politiche economiche del governo, rivendicano il diritto alla proprietà collettiva delle terre mettendo al centro la purezza delle loro acque e la difesa delle foreste e ammonendo contro un qualsiasi atto che potrebbe condurre all’inquinamento o alla deforestazione, invitano il governo a farsi promotore di uno stato realmente pluriculturale, plurietnico e plurilingue. E’ evidente una diversa visione del mondo e di sviluppo degli indigeni rispetto ai palazzi del potere che si trovano a Lima, spiega la direttrice del Caap (Centro Amazónico de Antropología y Aplicación Práctica) Ada Chuecas a fronte delle continue discriminazioni a cui sono sottoposte le comunità della foresta amazzonica peruviana in un’intervista rilasciata alla Coordinadora Nacional de Radio.

Mentre le fonti governative continuano a rilanciare le parole vuote di García, che in realtà considera la protesta degli indios come un fattore di rallentamento alle politiche di investimento e sviluppo del paese, lo stesso Caap, in collaborazione con Aprodeh (Asociación Pro Derechos Humanos) si è mosso per monitorare la situazione in maniera indipendente, mentre da più parti è stato invocato l’intervento della Croce Rossa e la costituzione di una commissione d’inchiesta internazionale che faccia luce sulle responsabilità di quanto accaduto e su una delle pagine più nere della storia del Perù.