La favola dell’Europa e dei 27 nani

di Felice Mill Colorni
da www.confronti.net

Gli europei saranno destinati a contare sempre di meno nel mondo globale, finché gli stati dell’Ue non sceglieranno finalmente di darsi un vero e proprio governo federale, come indicava Altiero Spinelli. Ma i 27 paesi membri preferiscono avere alla presidenza della Commissione europea personaggi come Barroso, che non interpretano mai il proprio ruolo come rappresentanti degli interessi comuni dell’Unione o delle ragioni dell’integrazione, ma come portavoce – se non scendiletto – dei governi statali.

È abbastanza naturale essere tentati di analizzare i risultati delle elezioni europee con gli stessi criteri con cui si analizzano di solito i risultati di elezioni politiche interne. Non che l’operazione sia del tutto improponibile. Effettivamente vi sono alcune tendenze che sembrano avere una portata politica, e perfino politico-culturale o antropologica, di carattere generale, e che sembrano perfino delineare una tendenza storica.

È evidente l’incapacità di socialdemocratici e socialisti europei di trovare modi nuovi e convincenti di aggiornare e far valere in un contesto profondamente mutato gli interessi, i principi e i valori etico-politici così efficacemente difesi nel secolo scorso con la realizzazione del Welfare state e di un «modello sociale europeo». Non è soltanto in Italia che le varie famiglie e correnti politiche di matrice, appartenenza o origine socialista e socialdemocratica si interrogano, senza mai sembrare finora capaci di trovare sintesi politiche nuove e convincenti, sulla via da intraprendere per il rinnovamento: divise fra la tentazione di ripercorrere o riproporre semplicemente le ricette del passato, nate in società industriali nazionali che non esistono più, e quella di sperimentare loro varianti più che altro caratterizzate per il rispettivo posizionamento topografico sull’asse di un continuum destra/sinistra che sembra anch’esso irrimediabilmente legato al passato. Così, gli uni predicano più «moderazione», gli altri più «radicalità»; gli uni ritengono che la priorità debba essere costituita dalla «conquista del centro», che richiederebbe l’uso di più «moderazione» e di venire parzialmente a patti anche con le nuove diseguaglianze, gli altri pensano che solo la ricostituzione di un «blocco storico» di una sinistra intransigente sarebbe poi in grado di esercitare una persuasiva attrazione anche su altri ambienti, ceti e strati sociali.

Una buona indicazione può forse venire piuttosto dal successo dei verdi tedeschi e francesi, entrambi largamente identificabili con la leadership di Daniel Cohn-Bendit, uno dei pochi membri del Parlamento europeo ad avere davvero preso sul serio la dimensione continentale e non nazionale del proprio mandato europeo e ad averne fatto lo strumento per parlare a entrambi i contesti nazionali nei quali si muove da insider da più di quarant’anni. Non si tratta però solo di una leadership più fortemente ed evidentemente transnazionale di altre. Si tratta anche del faticoso farsi strada di nuove sintesi capaci di emanciparsi dai modelli del passato e, probabilmente, di fare i conti con le nuove realtà imposte dalla globalizzazione. Una capacità che è invece sempre mancata ai verdi italiani, fin dall’inizio largamente riassorbiti sotto l’egida di un ceto politico di formazione sessantottina che da noi non aveva mai saputo davvero trovare forme originali e autonome di espressione, facendosi quasi subito inghiottire nella dialettica moderazione/estremismo che era stata propria della tradizione politica della sinistra italiana, e in particolare delle sue litigiose famiglie comuniste e neocomuniste degli anni Settanta.

Il relativo successo dell’agglomerato di partiti statali riuniti sotto l’etichetta del Partito popolare europeo, invece, non è un fenomeno riconducibile ad un’unica matrice. Il Ppe è un insieme molto più eterogeneo del Pse, sia per quel che riguarda le origini storiche che le politiche e le ispirazioni ideali. Si va dallo sperimentato e solido moderatismo riformatore, di tradizione fortemente europeista, radicalmente antipopulista e perfino moderatamente laico della Cdu tedesca (alleata ma distinta dalla stessa Csu bavarese) o, ancor più, della Dc olandese (Cda), fino ai popolari spagnoli fra i quali siedono ancora alcuni reduci riciclati del franchismo, per giungere a Berlusconi e agli ex «post-fascisti» provenienti da An e confluiti nel Pdl italiano. Troppo facile voler ridurre questo guazzabuglio a una tendenza continentale coerente. L’unica matrice comune del successo dei popolari è da ricercare proprio nella debolezza e nella credibilità sempre più scarsa della famiglia socialista.

Come era già stato sottolineato sul numero di maggio di Confronti, in queste elezioni si eleggeva un Parlamento, ma, prima e a prescindere dai risultati elettorali, il «governo» dell’Unione era da mesi materia di trattativa fra i governi statali, i soli a detenere ancora il potere che davvero conta dell’Unione. Sarà inevitabilmente così, e gli europei saranno destinati a contare sempre di meno nel mondo globale, finché i 27 nanerottoli, o almeno i più consapevoli del declino, non si decideranno a darsi un vero e proprio governo federale, come auspicavano i confinati di Ventotene e Altiero Spinelli fino alla sua morte: la sola possibilità per gli europei di fare ancora valere il proprio punto di vista in un mondo in cui, come dopo tutto è anche giusto che sia, non sono più destinati a pesare sproporzionatamente come era accaduto negli ultimi quattro secoli almeno.

E a quello che dovrebbe essere – e non è – il «governo» dell’Unione, cioè alla presidenza della Commissione, i governi statali avevano già deciso da mesi di ridesignare l’uscente, il popolare portoghese José Manuel Barroso: non solo i governi di destra o di centrodestra, ma anche quelli di «grande coalizione» o di centrosinistra (britannico, spagnolo e portoghese). La ragione è molto semplice: Barroso, a differenza di predecessori come Delors o Prodi, ha sempre interpretato il proprio ruolo come quello di portavoce – se non di scendiletto – dei governi statali, e mai come quello di rappresentante degli interessi comuni dell’Unione o delle ragioni dell’integrazione.

In queste condizioni erano ancor più inevitabili sia la disaffezione che si è manifestata negli alti tassi di astensione, sia il voto di protesta, purtroppo spesso indirizzatosi verso movimenti populisti, xenofobi, antieuropei e razzisti. Magari, nelle intenzioni di molti, solo un modo per «dare una lezione» all’inettitudine dei governi; ma anche un modo per attribuire ai nuovi barbari difensori delle «radici» nazionali o europee risorse pubbliche che non tarderanno ad essere riversate nelle future competizioni interne.

In realtà l’inettitudine dei governi statali è inevitabile, semplicemente perché nel mondo globale paesi anche delle dimensioni dei maggiori fra i vecchi Stati-nazione europei non hanno più la stazza minima necessaria per far valere il punto di vista dei rispettivi elettorati nelle scelte globali che la globalizzazione impone. La risposta populista non è solo regressiva ma anche autolesionista: protesta contro le conseguenze economiche negative della globalizzazione, ma al tempo stesso priva gli europei – che, insieme, sono ancora pur sempre mezzo miliardo di individui – della possibilità di acquisire la massa critica minima necessaria ad influirvi.

Su scala globale sarà forse una piccola soddisfazione, manifestazione di una tendenza che forse è solo temporanea. Ma non è un caso che, in elezioni svoltesi in queste ultime settimane in alcune delle aree economicamente più dinamiche del mondo, a cominciare dall’India e dall’Indonesia, le forze più apertamente populiste, fondamentaliste e xenofobe, in crescita in tanti paesi europei, siano state invece sconfitte.

Fra tante conseguenze negative, la globalizzazione degli ultimi anni si è mostrata capace
di innescare processi di sviluppo certo molto diseguali, ma capaci di produrre un trasferimento di ricchezza e di potere, dal Nord ad almeno alcune vastissime regioni del Sud del mondo, di dimensioni gigantesche, che nessun programma di aiuto allo sviluppo pianificato dalla politica si sarebbe mai potuto sognare di realizzare neppure in minima parte. E, altra conseguenza in genere sottovalutata dai suoi documentati critici, ha prodotto un’interdipendenza globale che si dimostrerà difficilmente compatibile con nuovi «equilibri del terrore» e ritorni alla minaccia della distruzione nucleare globale.

Ma l’imbarbarimento politico di tanti elettori europei, e soprattutto italiani, messo a confronto con questi incipienti segni di maturità di alcune pur fragili democrazie asiatiche, segnala forse che il relativo declino economico dell’Europa non potrà non avere, se non saremo all’altezza delle sfide del nostro tempo, conseguenze negative anche sul terreno del relativo persistente primato europeo in materia di diritti umani e di sviluppo umano.