50/50, l’antitrust della politica

di Anne Maass, Angelica Mucchi-Faina e Chiara Volpato
da www.micromega.net

La democrazia incompiuta: uomini prepotenti e donne invisibili

Basta guardare pochi dati per capire la dimensione del gender gap nel potere politico italiano. L’ 82% dei senatori, il 79% dei deputati e il 77% dei ministri sono uomini. La situazione è particolarmente sbilanciata in alcuni partiti (PdL e Lega 80%, UdC 92%, IdV 92%), ma anche nel PD gli uomini superano il 70%. Una situazione analoga si presenta nel parlamento europeo, dove l’Italia si colloca al quart’ultimo posto tra i 27 paesi membri, con il 78% di uomini. Che questa percentuale sia pressoché identica per i partiti di destra e di sinistra dimostra che l’esclusione delle donne non è questione di orientamento politico. Sessismo e misoginia non abitano solo a destra. Si tratta di un fenomeno generale che veicola un messaggio semplice: Le donne non devono entrare in politica. O, come elegantemente diceva Pippo Gianni, deputato UdC, in una seduta parlamentare del 2005, le donne non devono “scassarci la minchia”.

Invece sì! In Italia serve un antitrust della politica. Non è ammissibile che un paese formato da una simile proporzione di uomini e donne sia governato da un unico gruppo, non importa quale. E’ a dir poco sconcertante che ci si scandalizzi davanti a un tribunale islamico in cui la testimonianza della donna vale metà di quella di un uomo, ma si accetti come normale un parlamento in cui per ogni voce femminile ci sono quattro voci maschili.

Una democrazia moderna non può rinunciare alle donne

Esistono molti motivi per cui un paese democratico non può rinunciare al contributo delle donne. Ne citiamo cinque:

1) E’ una questione di giustizia. La costituzione (art. 3 e art. 51) sancisce l’eguaglianza di genere nell’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive. La sistematica esclusione delle donne dalle cariche politiche è anti-costituzionale.

2) Le leggi proposte e approvate in parlamento riguardano donne e uomini in ugual misura. Anzi, alcuni temi su cui si esprime il parlamento sono di particolare e, a volte, esclusiva rilevanza per le donne. Quando si decide di ridurre il tempo pieno nelle scuole pubbliche, chi pagherà maggiormente le conseguenze? Quando si decide sulla fecondazione assistita, sullo stupro, sull’ aborto, quali sono le persone direttamente interessate? In una vera democrazia, quale logica può giustificare l’esclusione di uno o dell’altro gruppo dal potere legislativo? Per una logica analoga sembra ingiustificabile che la corte costituzionale, organo vitale in qualsiasi
democrazia, sia composta dal 93% di uomini.

3) Le donne sono portatrici di una cultura diversa. Ricerche psicologiche e sociologiche dimostrano che, mediamente, le donne sono più propense a condividere valori democratici come l’uguaglianza, la responsabilità sociale, l’accoglienza, la protezione dell’ambiente e meno propense ad accettare una struttura sociale gerarchica in cui un gruppo domina su di un altro e in cui le minoranze non vengono rispettate (Caricati, 2007). Per esempio, recenti studi condotti in Italia dimostrano che le donne, rispetto agli uomini, sono meno sessiste (Glick et al., 2000, 2004; Manganelli Rattazzi, Volpato e Canova, 2008), hanno minori pregiudizi verso gli immigrati (Manganelli Rattazzi e Volpato, 2001), un atteggiamento più favorevole nei confronti della società multiculturale (Mancini, Ceresini e Davolo, 2007) e aspirano di più a una società in cui i diversi gruppi sociali abbiano pari dignità. In Italia, come in altri paesi europei, sono soprattutto le donne ad appoggiare misure contro qualsiasi forma di discriminazione (Eurobarometro, 2008). In altre parole, sono loro le portatrici dei valori democratici per eccellenza. E’ proprio per questo che le istituzioni e, in particolare, i partiti progressisti non possono fare a meno delle donne, a meno che non vogliano rinunciare proprio alla realizzazione dei valori che li distinguono.

4) L’agenda politica è incompleta senza le donne. Alcuni studi mostrano che, quando le donne diventano una presenza rilevante (più del 30%) nelle istituzioni, cambia anche l’agenda politica. Per citare solo due esempi, le ricerche di Lena Wängnerud (2000, per una rassegna vedi anche Wängnerud, 2009), condotte in Svezia, indicano che le parlamentari donne dedicano maggiore attenzione a questioni come l’uguaglianza di genere e le politiche sociali. Cambiamenti simili nell’agenda politica emergono anche dalle ricerche di Beaman, Duflo, Pande e Topalova (2007) condotte nell’India rurale dove all’aumento della presenza di donne nelle municipalità locali corrisponde l’aumento della spesa pubblica per servizi rilevanti per tutta la comunità, come le infrastrutture e gli impianti per l’acqua.

Con l’incremento della presenza femminile non cambia solo l’agenda politica, cambia anche la qualità delle soluzioni proposte. La ricerca sociale ha dimostrato che le idee migliori e più innovative nascono in ambienti eterogenei, caratterizzati da diversità (Florida, 2003). Come affermato anche nei rapporti del World Economic Forum, solo usando il talento e la creatività di uomini e donne le società moderne sono in grado di affrontare con successo i molti problemi sociali, economici, ambientali e diplomatici. Non a caso, la diminuzione del gender gap è generalmente seguita da un aumento della competitività economica e del prodotto interno lordo (Global Gender Gap Report, 2008). Ovviamente, questi vantaggi si verificano soprattutto quando donne e uomini vengono scelti secondo seri criteri di merito, cosa che non sempre si realizza nella selezione del personale politico.

5) Infine, la presenza delle donne potrebbe dare un importante contributo per “fare pulizia” all’interno della scena politica italiana. Sotto il profilo etico le donne sono meno accomodanti degli uomini. E’ ben documentata la loro minore propensione alla delinquenza di qualsiasi natura, dai furti agli omicidi: solo una piccola parte dei reati commessi in Italia è imputabile a donne (Ministero degli Interni, 2006). Questo vale anche per molti crimini di tipo economico, come le truffe e le frodi informatiche, settori in cui solo il 22% dei reati sono compiuti da mani femminili. La situazione è più ambigua per la corruzione, settore in cui sono spesso coinvolte figure politiche. In questo caso non è chiaro se la minor partecipazione delle donne rifletta la loro superiorità morale o, più semplicemente, la mancanza di opportunità (Transparency International, 2009). Esiste comunque evidenza empirica che le donne sono, mediamente, meno tolleranti rispetto alla disonestà e a pratiche immorali negli affari (Franke et al., 1997).

Negli ultimi anni, la politica italiana ha conosciuto un degrado etico senza confronti nel mondo occidentale, a cominciare dallo sfruttamento sessuale delle donne. In Italia, ma non solo, gli scandali a sfondo sessuale coinvolgono quasi esclusivamente politici uomini, mentre le vittime sono prevalentemente donne. Anche quando esercitano il potere, in genere le donne non usano la propria posizione o i propri soldi per comprare sesso e non decidono le carriere altrui in base alla disponibilità a passare per il loro letto. Come i loro colleghi uomini, commettono altre scorrettezze, ma lo sfruttamento sessuale non fa parte della loro cultura. Ben venga, quindi, la presenza femminile in politica!

L’anti-trust della politica

Sulla base di tali considerazioni, proponiamo una norma anti-trust della politica tesa a limitare lo strapotere di un piccolo gruppo. Oggi gli uomini ultra-cinquantenni sono il 17% della popolazione italiana, ma costituiscono il 55% dei parlamentari; esiste quindi una concentrazione ingiustificata e anti-costituzionale del pot
ere politico nelle mani di pochi. Di conseguenza, è necessaria una norma anti-trust. Ci sono leggi che tutelano la concorrenza sui mercati economici, leggi che vietano alle imprese di abusare di posizioni dominanti a danno del consumatore. La stessa logica deve valere in politica.

Quale regola può ristabilire l’equilibrio tra i generi? La regola più semplice, applicabile nelle elezioni nazionali, locali ed europee, è che in ciascuna lista elettorale venga inserita una donna ogni secondo posto. A livello europeo, questa richiesta è in linea con la European Women’s Lobby “50/50 Campaign for Democracy” basata sul criterio che donne e uomini, costituendo la metà della popolazione, debbano essere rappresentati in pari misura nelle istituzioni politiche. Non è complicato. È solo questione di logica.

Quelle che invece non servono sono dichiarazioni di principio destinate a rimanere disattese. Come quando il PD dichiara uguaglianza di genere nel suo codice etico per poi far eleggere una donna ogni tre uomini, come è successo alle recenti elezioni europee. Dichiarare il principio di parità nei programmi è inutile se non si traduce tale dichiarazione in regole chiare, applicabili e – fondamentale – osservate senza alcuna eccezione.

Imparare da altri paesi: quote legislative e quote volontarie di partito

Circa la metà dei paesi del mondo ha messo in atto qualche misura tesa al riequilibrio della rappresentanza. I modelli cui ispirarsi sono tanti. Già da tempo, nei paesi scandinavi, le donne rappresentano più del 40% dei parlamentari. In Svezia, più della metà dei ministri sono donne. Di recente molti paesi hanno cercato di seguire questo esempio, introducendo diversi tipi di misure. Esempi sono il Ruanda, dove dal 2008 le donne sono più della metà dei parlamentari, e la Spagna dove le donne costituiscono il 36% dei parlamentari e il 50% dei ministri. E’ interessante notare che tutti i paesi europei che sono riusciti in anni recenti a superare la soglia del 30% delle presenze femminili nella rappresentanza politica hanno raggiunto questo risultato attraverso l’introduzione di un sistema di quote.

Krook (2007) ha passato in rassegna quattro scenari che favoriscono l’introduzione delle quote:
a) Un’ampia mobilitazione dell’elettorato femminile.
b) La presenza di élite politiche illuminate che intuiscono che le quote possono recare vantaggi, anche al fine di ottenere maggiori consensi. L’esempio tipico è quello dei Verdi che, in molti paesi, hanno introdotto al loro interno le quote, successivamente imitati da altri partiti.
c) Un contesto normativo che sottolinea il valore dell’uguaglianza (non presente al momento in Italia).
d) International sharing e contagio: a volte i paesi prendono esempio da altri paesi o si muovono sotto la spinta di istituzioni internazionali (come esempi vedi la UN Convention for the Elimination of All Forms of Discrimination against Women del 1979, la Bejing Platform for Action del 1995 e l’Handbook on National Machinery to promote Gender Equality and Action Plans del Council of Europe del 2007).

Quali modelli sono stati usati per conseguire la parità di genere in politica? Ci sono diverse possibilità, come dimostra un recente studio della Comunità Europea (Electoral gender quota systems and their implementation in Europe, 2008): si va dai lenti cambiamenti normativi (come quelli attuati in Finlandia e in Danimarca) all’introduzione delle quote.

Le quote prendono principalmente due forme: quote legislative e quote volontarie. Le quote legislative, introdotte, ad esempio, in Belgio e Spagna, hanno il grande vantaggio di essere valide per tutti i partiti; esse portano però a risultati positivi solo se accompagnate: (a) da indicazioni chiare sull’ordine in cui candidati e candidate devono essere posizionati nelle liste elettorali; (b) da sanzioni esplicite e rilevanti in caso di non rispetto della legge (per esempio, l’esclusione della lista dalle elezioni – piuttosto che una semplice sanzione finanziaria – per i partiti che presentano liste non equilibrate). Paesi che hanno introdotto un sistema di quote senza una regola che garantisse la presenza delle donne ai primi posti delle liste elettorali hanno ottenuto risultati deludenti (si vedano, ad esempio, le esperienze di Francia e Slovenia). Lo stesso vale per paesi in cui la sanzione per la mancata osservanza della regole è di tipo finanziario: spesso i grandi partiti preferiscono pagare la multa piuttosto che inserire candidate in posizioni favorite (Francia e Portogallo).
Un problema intrinseco delle quote legislative è però che difficilmente vengono approvato da un parlamento composto da una schiacciante maggioranza maschile.

L’altro modello, sperimentato in Svezia, Norvegia, Austria, Germania, e diffuso soprattutto tra i partiti di sinistra, è quello delle quote volontarie adottate da singoli partiti. Questo tipo di quota prevede che ciascun genere sia rappresentato nelle liste nella misura del 50% (Norvegia, Svezia), oppure che nessun genere sia rappresentato meno del 40% o più del 60% (Austria, Germania, Irlanda). Anche in questo caso, l’introduzione di quote ha prodotto gli effetti sperati solo quando la norma includeva, oltre alla percentuale di candidati maschi e femmine, anche una regola sull’ordine di uomini e donne nelle liste. Il sistema in assoluto più efficace è quello dello zipper, della cerniera, in cui ogni secondo posto delle liste elettorali è occupato da un dato genere. Almeno nel caso dei partiti grandi, questo sistema porta molto vicino ad una rappresentanza del 50:50.

Nessuno dei partiti italiani ha introdotto un simile sistema, limitandosi invece a inutili dichiarazioni di principio, ma rifiutando un sistema efficace di quote.

Anti-trust vs. merito? Un falso problema

L’argomento più diffuso contro l’antitrust in politica è che potrebbe essere in conflitto con un sano principio di merito. Ovviamente tutte/i siamo d’accordo sul merito (avete mai sentito qualcuno che affermi “no, il merito non lo voglio”?). Ci chiediamo, però, in base a quali criteri venga valutato il merito. Sappiamo quali sono i criteri di merito con cui Berlusconi seleziona le sue candidate. Più difficile capire quali sono i criteri impiegati dalla sinistra. Il più grande partito di opposizione ha schierato tre candidati maschi – Bersani, Franceschini, Marino – per la segreteria nazionale; questi, a loro volta, hanno candidato per le segreterie regionali rispettivamente il 13%, il 14%, e il 17% di donne.

Quali criteri di merito saranno stati usati? Le possibilità sono due: competenza o motivazione.

Può essere stato invocato il criterio della competenza: le donne sono meno competenti dei maschi. Questo criterio è, però, difficile da sostenere dato che ormai le donne hanno raggiunto o superato gli uomini a tutti i livelli dell’istruzione: in Italia, infatti, le donne sono più numerose non solo tra i laureati (il 58% dati MUR relativi al 2008), ma anche tra gli studenti di dottorato (51.7%, Eurostat, 2009).

L’altra possibilità, assai più verosimile, è che il criterio della competenza sia soggettivo. Finché esiste un principio di cooptazione, solo chi è già in una posizione di potere potrà decidere quale “competenza” va richiesta.

Sicuramente i leader del centro-sinistra (Occhetto, D’Alema, Rutelli, Fassino, Veltroni, Franceschini) sono stati scelti sulla base di severi criteri di merito; sarebbe forse stato opportuno esplicitarli più chiaramente. Ricordiamo che questi “professionisti della politica” hanno portato la coalizione progressista ad una lunga serie di sconfitte dal 1994 in poi. Le uniche due vittorie dei progressisti sono state riportate da Romano Prodi. Quest’ultimo, in occasione della formazione del suo secondo governo, si è pronunciato a favore di un sistema di quote.

I criteri per
misurare la competenza sono diversi; si sa, per esempio, che quelli impiegati per valutare le donne sono sempre più severi di quelli impiegati per valutare gli uomini (Biernat e Kobrynowicz, 1997). Tuttavia, vincere, come Marilisa D’Amico, la causa sull’incostituzionalità della Legge 40 sulla fecondazione artificiale davanti alla Corte Costituzionale non potrebbe essere considerato un indice di merito per un partito di sinistra? Altro esempio: Lilli Gruber. Parla correntemente quattro lingue, scrive saggi storico-politici di successo, conduce un TG in prima serata nella televisione pubblica, vince prestigiosi premi come giornalista, è visiting scholar alla School of Advanced International Studies della John Hopkins University, raccoglie alle elezioni del 2004 più preferenze di Berlusconi, diventa Presidente della Delegazione Europea per le relazioni con gli Stati del Golfo. Ancora: Rosy Bindi. Ha un curriculum politico tra i più apprezzati; è stata un competente ministro della Sanità (ha saputo, tra l’altro, affrontare con severa imparzialità il delicato caso Di Bella); è conosciuta per la sua dirittura morale; è una dei pochi rappresentanti dell’opposizione capace di rispondere a Berlusconi senza farsi intimidire. Questi non sono meriti? Se lo sono, come mai nessuno ha pensato di candidare Marilisa D’Amico, Lilli Gruber, Rosy Bindi alla segreteria di partito o come primo ministro?

Questi esempi mostrano che non esiste un unico criterio di competenza e che una legge antitrust può benissimo convivere con tale criterio. Includere donne, in proporzione paritetica, nelle istituzioni politiche vuol dire alzare, non abbassare, gli standard. Vuol dire proprio sostenere il criterio del merito, oggi palesemente disatteso per vari gruppi tra cui le donne.

E’ questione di scarsa motivazione?

Il secondo criterio concerne la motivazione. Il percorso politico comprende tre tappe: quella che precede la candidatura, la campagna elettorale, il lavoro come rappresentante del popolo nelle istituzioni. Le donne hanno, in genere, meno ambizione politica degli uomini. La differenza, però, riguarda soprattutto la decisione iniziale di entrare in politica: rispetto agli uomini, le donne prendono meno in considerazione l’idea di candidarsi, si candidano meno, esprimono meno l’intenzione di candidarsi in futuro (Lawless e Fox, 2005). Per quali motivi? Ne sono stati individuati tre: il fatto che le responsabilità familiari gravino prevalentemente sulle donne, il maschilismo presente in politica che non incoraggia le donne a intraprendere questa strada, la consapevolezza delle donne che per emergere in politica devono essere molto, molto più brave degli uomini. In pratica, quello che allontana le donne dalla politica è che, per motivi indipendenti dalla loro volontà, vedono scarse possibilità di percorrere con successo tale cammino. Il quadro cambia però per le poche donne che hanno raggiunto i banchi del parlamento: il loro indice di attività è decisamente superiore a quello dei colleghi maschi (indice calcolato tenendo conto della presenza tra i firmatari di un atto, tra i relatori di progetti di legge, e dal numero di interventi nel dibattito, Osservatorio Civico sul Parlamento Italiano, 2009). Si può parlare dunque di scarsa motivazione o non si tratta invece di realistica valutazione dei costi/benefici e delle possibilità di successo?

Come reagirebbero gli elettori a una leadership femminile?

Una preoccupazione molto diffusa è “come reagiranno gli elettori”? Si sentiranno a disagio trovandosi di fronte a un segretario di partito donna, un primo ministro donna, una presidente della Repubblica?

Gli ultimi dati di Eurobarometro (2008) dimostrano che, rispetto alla media europea, gli italiani si sentono più a disagio non solo all’idea di un capo di stato donna, ma anche di un capo di stato gay, disabile, o appartenente a una minoranza etnica o religiosa. La reazione non sorprende se si considera il clima culturale istauratosi negli ultimi 15 anni, promosso da una televisione in cui le donne appaiono principalmente nel ruolo di mera decorazione, come illustra il famoso filmato di Zanardo “Il corpo delle donne”. Sicuramente hanno contribuito alla diffusione di sessismo, razzismo e omofobia (tre fenomeni altamente correlati tra di loro) anche i messaggi che provengono dal parlamento e dal governo, due istituzioni che giocano un importante ruolo come “norm setter”. Quando parlamentari e ministri insultano sistematicamente le donne non solo a parole, ma anche nei comportamenti legislativi (vedi legge sulla fecondazione assistita, i ripetuti attacchi contro la legge sull’aborto e contro l’uso della RU486, il rifiuto di “quote rosa”), non ci si può aspettare che la popolazione non ne risenta.

Ma è possibile un’altra, forse più interessante, lettura dei dati Eurobarometro. E’ vero che gli italiani si sentono meno a loro agio all’idea di un capo di stato donna rispetto alla media europea, ma è altrettanto vero che, in termini assoluti, dichiarano un atteggiamento molto favorevole (una media di 8.1 su una scala che va da 1 = molto a disagio, a 10 = molto a mio agio). Quindi, in termini assoluti, la maggior parte della popolazione non ha alcun problema con un capo di stato donna. Questo è in contrasto con il comportamento dei partiti, inclusi quelli dell’opposizione, che candidano poche donne e in posizioni perdenti, in fondo alle liste. Nessuna donna è mai stata segretario di un partito importante, né primo ministro o presidente della repubblica. Nei sessantatre anni della repubblica, nessuna donna ha avuto la responsabilità di uno dei tre ministeri di prima fascia (esteri, economia, difesa); solo Rosa Russo Jervolino è stata ministro dell’interno nel governo D’Alema. Quindi sono i partiti, e non la popolazione, ad avere problemi con la leadership femminile. Come afferma Ivan Scalfarotto, una delle poche voci fuori dal coro, molti problemi (come la leadership femminile, le unioni tra gay, ecc.) sono da tempo stati risolti dalla popolazione. Chi non è al passo dei tempi sono i politici. In altre parole, rispetto al empowerment politico delle donne, la differenza tra l’Italia e l’Europa non sta nell’opinione pubblica, ma nella classe politica.

Come imporre l’anti-trust della politica?

Nella storia dell’umanità, raramente un gruppo dominante ha rinunciato di sua volontà ai propri privilegi. E di privilegi si tratta considerando il potere e gli stipendi (i più alti d’Europa) dei parlamentari italiani. Inutile quindi aspettarsi che i dirigenti dei partiti decidano di loro iniziativa di candidare una donna per ogni uomo. Come possiamo imporre una regola del genere? Approvare una legge è un’impresa impossibile con solo il 20% di donne in Parlamento. La strada delle quote legislative non sembra percorribile.

Ricordiamo che, in Italia, il tentativo di introdurre le cosiddette quote rosa nella legge elettorale del 2005 fu fatto da Stefania Prestigiacomo, allora ministro delle pari opportunità del governo Berlusconi. Dopo lunghe diatribe, lacrime, ironie, sberleffi da parte dei suoi compagni di partito e una serie di bocciature per mancanza del numero legale, nel febbraio del 2006 Prestigiacomo riuscì, con l’appoggio determinante dell’opposizione, a far approvare in Senato un disegno di legge sul riequilibrio di genere. L’opposizione era anche riuscita a far passare un emendamento che portava al 50% la quota del 30%, originariamente prevista da Prestigiacomo. Infatti, nella proposta si affermava che ogni sesso non poteva “essere rappresentato in misura superiore alla metà dei candidati della lista medesima” e che misure equivalenti avrebbero riguardato anche il Consiglio Superiore della Magistratura, la Consulta e tutte le cariche in cui la rappresentanza femminile era ancora scarsa.

Sembrava un miracolo. Peccato che il provvedimento non si
a mai tornato alla Camera – la legislatura stava terminando – e sia quindi miseramente decaduto. Nonostante Prodi e le deputate Ds si fossero impegnati a proseguire l’iter nel caso in cui fossero stati eletti, per quanto se ne sa il ddl finì nel cassetto della sinistra, da cui non ha più dato segni di vita.
E nel centro-destra? Nel maggio del 2006 Mara Carfagna, deputata di Forza Italia, entrò in collisione con Stefania Prestigiacomo dichiarando di essere contraria alle quote. La sua posizione, disse, “era condivisa anche all’interno del partito.” Divenuta Carfagna a sua volta ministro per le pari opportunità nell’ultimo governo Berlusconi, di quote dentro il Pdl non si è più sentito parlare.

Resta quindi da percorrere la via delle quote volontarie. Ci rivolgiamo per questo ai partiti dell’opposizione. Chiediamo loro di applicare da subito la norma antitrust nelle cariche interne e nelle elezioni, a partire dalla tornata della prossima primavera. Avendo poca e, da questo punto di vista, silente rappresentanza in parlamento, noi elettrici italiane abbiamo una sola arma democratica per esercitare il nostro diritto di voice (Hirschman, 1982): quella di esigere, in modo coerente e ad alta voce, che in ciascuna lista elettorale ogni secondo posto venga occupato da una donna. Voteremo per chi rispetta questa regola, non voteremo per liste in cui le donne siano sotto-rappresentate.

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