Muri e mura delle donne: l’89 in casa nostra

di Maria Bacchi ⋅
Da Newsletter n. 62 di Articolo 3 – Osservatorio sulle discriminazioni di Mantova

Euforia. Nostalgia. Le due parole si incrociano spesso parlando della caduta del Muro di Berlino. Come non gioire dell’abbattimento della cortina di ferro che trovò il suo simbolo a Berlino nel felice novembre dell’89? Libertà di pensiero, di parola, di circolazione; fine dei controlli, fine della censura, fine delle violenze poliziesche in tutto l’Est europeo. Fine delle minacce missilistiche tra i due blocchi. Si poteva non festeggiare? Lunedì 9 novembre 2009 quanta euforia della memoria e quanta storia si sono incontrate intorno alla Porta di Brandeburgo?

Sui giornali e in tutti i programmi televisivi di questi giorni tutti hanno avuto la parola: diplomatici dell’Est e dell’Ovest, portavoce (a Mantova l’ex portavoce di Gorbaciov, Andrej Grachov) e portaborse, leader che sono passati sulla scena della storia per una manciata di giorni e giornalisti. Nessuno sembra aver riflettuto che tra noi, in molte delle nostre case, vive e lavora una parte viva di quella storia, testimoni dirette del crollo dei muri dell’89. Quelle che da noi si chiamano badanti vengono in buona parte dalle repubbliche dell’ex Unione Sovietica e da altri Paesi dell’Est ex socialista.

Sono spesso donne con un alto livello di istruzione; molte amano la musica, conoscono la letteratura, il cinema; in genere sanno della storia dell’Europa dell’Ovest molto più di quanto noi non sappiamo di quanto è accaduto nel passato dell’Europa dell’Est. Molte di loro non provano nessun entusiasmo nel ricordare l’89, la fine del socialismo: non che amassero il comunismo in quanto tale, ma tutte, come accade quando parli a chi ha vissuto nell’ex Jugoslavia di Tito, rimpiangono quel sentirsi tutti jugoslavi o sovietici della loro giovinezza, il comprendere le stesse lingue, l’assenza, così almeno sembrava loro, di nazionalismo.

Rimpiangono soprattutto le tutele sociali: la certezza del diritto allo studio, del posto di lavoro, delle cure mediche gratuite. Ma anche la libertà degli spostamenti interni al Paese, il senso di sicurezza. Spesso non danno un gran valore, le donne ex sovietiche soprattutto, alla mancanza di libertà di pensiero, alla violazione di molti diritti individuali. Pensano che riguardasse la vita degli intellettuali di professione più che la loro, lavoratrici o studentesse che fossero.

Solo parlando con donne rumene ho sentito trapelare l’insofferenza per il regime di Ceausescu, ma anche per loro il dopo non è stato facile. Gorbaciov non è una figura amata dalle ‘badanti’: ha inaugurato, a loro dire, un’era di incertezza, di povertà, di conflitti fra le popolazioni che prima si sentivano parte di uno stesso Paese. E da questi conflitti, deprecati da tutte, si sentono oggi inevitabilmente contaminate, perché le politiche conflittuali dei loro Paesi ricadono sui loro figli, magari chiamati alle armi contro parenti rimasti oltre uno dei tanti confini che oggi attraversano il territorio ex sovietico; ricadono sull’economia delle loro famiglie, sull’identità diventata improvvisamente fragile dei loro uomini senza lavoro, senza patria, senza scopi.

Ma quei regimi autoritari hanno prodotto soggettività femminili di straordinaria forza: sono venute via, hanno organizzato le cose per partire senza abbandonare, per guadagnare qui quello che serve per ricostruire là, per far laureare i figli, curare i vecchi, sostenere i familiari che vogliono avere le risorse per prendere piccole iniziative economiche in regime di libero mercato.

E intanto qui suppliscono le carenze dello stato sociale, che in tutto il mondo ha iniziato a sgretolarsi proprio intorno all’89. E pagano le umiliazioni e i prezzi di regolarizzazioni necessarie a non diventare criminali in quanto ‘clandestine’. Donne forti, interlocutrici interessanti, memorie inascoltate di un mondo ex di cui oggi tutti parlano basandosi sulla memoria di chi lo visse seduto nei palazzi del potere.

Una donna ex sovietica, la ricercatrice georgiana Marina Muskelishvili, in un’intervista rilasciata all’Osservatorio sui Balcani e il Caucaso di quell’89 ricorda il 9 aprile di Tbilisi. Nessuno ne parla in questi giorni, ma è una data che getta ombre sulla perestroika e le vocazioni democratiche gorbacioviane.

Migliaia di manifestanti che da alcuni giorni chiedevano, spesso in nome della perestroika e della glasnost, l’indipendenza della Georgia dall’Urss furono attaccati con grande violenza dalle truppe sovietiche: 20 morti, per la stragrande maggioranza donne giovani, 4000 feriti. Marina partecipava a quelle manifestazioni e si dichiara convinta che la loro repressione cruenta abbia segnato i durissimi vent’anni successivi della storia georgiana. Al termine dell’intervista Marina Muskelishvili afferma:

“[…]Direi che durante il periodo della perestroika non ci aspettavamo che il cambiamento fosse così doloroso, così difficile, e che sarebbe costato così tante vite umane. Quindi se tornassi indietro non comprerei la mia libertà col sacrificio della vita di altre persone, perché ora mi sento responsabile. Sono molto meglio ora di quanto non fossi vent’anni fa. Sono libera, in un certo senso faccio quello che voglio, ottengo le informazioni che voglio, ho una vita migliore e sono fra coloro che hanno beneficiato di questi cambiamenti.

Ma tante persone, specialmente anziane, sono morte di fame, di miseria e di malattia, non avendo più gli stessi livelli di protezione sociale che avevano avuto sotto il regime sovietico. E non ci accorgemmo che sarebbe costato troppo, che tante persone sarebbero morte nelle guerre civili, che avrebbero perso le loro case e così via. In un certo senso mi sento responsabile di quanto è accaduto.[…]”

Un arrovellarsi sulle proprie responsabilità, quello della ricercatrice georgiana, che pare del tutto estraneo a molti, fortunatamente non tutti, uomini politici dell’89. Ancora una volta la voce di una donna. Poco conosciuta, poco ascoltata. Come le nostre ‘badanti’.