Le radici antiche della strumentalizzazione

di David Gabrielli
da www.confronti.net

Le grida di dolore del Vaticano, che si compiace del ricorso del governo italiano contro la sentenza della Corte di Strasburgo. La lunga storia della strumentalizzazione della croce.

Salvo rare e nobili eccezioni, in Italia si è levato un indignatissimo coro «bipartisan», dal mondo politico (maggioranza ed opposizione quasi al gran completo) e dalla gerarchia della Chiesa romana, contro la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo che il 3 novembre, accogliendo il ricorso di una cittadina italiana di origine finlandese, ha stabilito che tenere (obbligatoriamente) il crocifisso sulle pareti delle aule scolastiche viola la libertà dei genitori di educare i figli secondo le loro convinzioni, e coarta – forzandola verso una certa direzione – la libertà di coscienza degli alunni. A noi pare che questo coro, pur da molti applaudito, abbia sbagliato partitura.

Perciò, pur nel rispetto di tali opinioni (sostenute anche da teologi liberal e da intellettuali non cattolici), vogliamo spiegare perché non le condividiamo, e perché dunque ci siamo rallegrati per la decisione della Corte europea, ritenendola non un oltraggio ma, piuttosto, un gesto di rispetto per la fede, la laicità e la libertà di coscienza.

In principio furono Costantino e Teodosio

Lungo sarebbe fare la storia della ostensione pubblica del crocifisso. Furono Costantino e Teodosio i primi a farne un uso strumentale, mirato a rafforzare il proprio potere politico e militare: già mille e settecento anni fa essi avevano intuito la potenza, e la convenienza, di quel simbolo, con una operazione cinica che naturalmente nulla aveva a che fare con l’Evangelo. E le mille miglia lontana – ma nemmeno il papato, allora e (quasi mai) poi, se ne rese davvero conto – dall’affermazione non addomesticabile di Paolo: «Annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani» (I Corinti 1, 23). Se il crocifisso dunque non è ambiguo, ambiguissimi sono il crocifisso e la croce, come in realtà è accaduto, anche nella Cristianità: oppio per i popoli nelle mani del potere, eco di un mistero sublime per i veri cristiani.

Questa ambiguità – il crocifisso baciato con amore dall’umile gente, ed emblema del… Ku Klux Klan – attraversa i secoli, come bene documenta, ad esempio, Paolo Farinella in Crocifisso tra potere e grazia. Dio e la civiltà occidentale (Il Segno dei Gabrielli editori). Tenendo sullo sfondo questa storia complessa, veniamo alle ultime, e penultime, vicende italiane. L’articolo primo del Trattato, inserito nei Patti lateranensi dell’11 febbraio 1929, affermava: «L’Italia riconosce e riafferma il principio consacrato nell’articolo 1° dello Statuto del Regno [emanato da Carlo Alberto in Piemonte] del 4 marzo 1848, pel quale la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato».

Una delle tante conseguenze di tale affermazione – tipica dei «regimi di Cristianità» – fu che il crocifisso (già incombente nell’Italia savoiarda) venne obbligatoriamente appeso sulle pareti delle aule scolastiche, ma anche dei tribunali e dei municipi. Appeso tra il ritratto di Vittorio Emanuele III e del Duce, là rimase finché durò il regime fascista e, per inerzia, anche quando nacque la Repubblica che, nell’articolo sette della Costituzione, affermava che i suoi rapporti con la Chiesa cattolica erano regolati dai Patti del ’29. Malgrado la stridente dissonanza con la nostra «magna charta» e, dal punto di vista ecclesiale, con l’Evangelo, tale principio rimase in vigore fino al 1984.
Se il «nuovo» Concordato cancella la religione di Stato

Il 18 febbraio di quell’anno fu infatti firmato il «nuovo» Concordato, voluto da Bettino Craxi e da Giovanni Paolo II, la cui longa manus fu il cardinale Agostino Casaroli; ebbene, nel protocollo addizionale a quel testo si affermava che, in relazione all’articolo 1 del Trattato, «si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato dai Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano». Tale affermazione pattizia, coerentemente applicata, avrebbe dovuto avere reali conseguenze per cancellare le vestigia di uno «Stato cattolico»: che, invece, sono state rare e contraddittorie. Le gerarchie ecclesiastiche, infatti, fin dove possibile, hanno continuato a pretendere, come se l’articolo 1 del Trattato fosse sempre in vigore; e lo Stato, con i maggiori partiti politici (il Psi in prima fila, seguito a ruota dal Pci; e con la Dc, ovviamente; e poi i loro eredi ed i «parvenus»), zelante nell’accontentarle. Né la Corte costituzionale, chiamata ogni tanto a dirimere dubbi, ha osato trarre tutte le conseguenze dalla cancellazione dell’articolo 1.

Perciò sulla presenza del crocifisso nei luoghi pubblici, e soprattutto nelle scuole (anche quando si vota) e nei tribunali, si è a poco a poco innescata una piccola battaglia. Varie le motivazioni addotte da chi reclamava che esso rimanesse: il crocifisso fa parte dell’identità cattolica del popolo italiano e della sua cultura; è un simbolo di dolore universale, che può essere compreso anche da un non cristiano; ancor più va mantenuto oggi, quando l’Italia è invasa dai musulmani. Le ragioni, invece, dei critici: non essendo più quella cattolica la religione dello Stato, è inammissibile la presenza obbligatoria del crocifisso nei luoghi pubblici; essa ferisce la laicità dello Stato, e, in concreto, ignora che il paese è diventato multietnico e multireligioso, per cui l’obbligatoria esposizione del simbolo di una sola religione è una prepotenza che potrebbe innescare «guerre di religione».

No al crocifisso sui muri, ma solidali con gli attuali crocifissi: gli extracomunitari
Su questo dibattito, emergente ogni tanto, è piombata, come un fulmine, la sentenza di Strasburgo. Non fa meraviglia che politici smaliziati – di destra e, ahimè, anche di centrosinistra – ed atei devoti, si siano stracciati le vesti come di fronte ad un sacrilegio; e che il presidente del Consiglio, per ingraziarsi il Vaticano, abbia annunciato ricorso per arrestare «un passo avanti verso la cancellazione delle radici cristiane dell’Europa. Il che è inaccettabile in Italia, paese nel quale tutti non possono non dirsi cristiani».

Amara meraviglia (relativamente, si intende, perché la storia ci ha ben ammaestrati!), invece, suscita vedere le autorità cattoliche ripetere questo stonato ritornello; amara meraviglia che il cardinale segretario di Stato, Tarcisio Bertone, abbia lanciato un grido di dolore, e poi pubblicamente apprezzato la decisione del governo di contestare Strasburgo; meraviglia che tutte le batterie di cui il Vaticano dispone, e quelle della Conferenza episcopale italiana, siano state messe in atto per tentare di convincere la gente che il cristianesimo è stato colpito a morte. Forse la vera ragione di tali scomposte reazioni sta nel fatto che la Santa Sede e la Cei pensano che, salvando il crocifisso sui muri, si salvino le radici cristiane dell’Europa e si mantenga ufficialmente cattolica l’Italia. È più facile, infatti, fare pressioni su governi remissivi perché mantengano il crocifisso nelle scuole, che annunziare credibilmente, alla coscienza di gente adulta e in una società secolarizzata, l’Evangelo di Gesù crocifisso, morto e resuscitato.

Le loro eminenze sembrano ignorare che, dopo Costantino e Teodosio, la croce è stata anche simbolo di potere, ed usata per spronare crociate e per schiavizzare popoli interi; che molti ebrei sono stati posti con violenza di fronte ad essa, per indurli a convertirsi; che per i musulmani (un miliardo e mezzo, oggi, nel mondo; un milione in Italia) la croce non ha affatto quel significato salvifico che gli attribuiscono i cristiani. Perciò, se tanti italiani si comp
iacciono della «ferma risposta» delle gerarchie ecclesiastiche alla «provocazione» di Strasburgo, tanti altri vedono però con raccapriccio le sacre gerarchie che plaudono politici «cattolici» che difendono il crocifisso sui muri, quando poi alcuni di questi signori – secondo la dottrina cattolica – hanno irriso Cristo crocifisso violando il loro talamo coniugale, inventando riti pagani in onore del dio Po, varando leggi che crocifiggono quei poveri Cristi che dal Nord Africa tentano, su fatiscenti barconi, di raggiungere la Sicilia.

E fa pena che le autorità vaticane, mentre ogni giorno parlano di «ecumenismo», ignorino che per molti cattolici non allineati, e per molti cristiani di area evangelica, la rimozione del crocifisso dai muri delle scuole non è un atto sacrilego; al contrario, la considerano una scelta positiva che, indirettamente, aiuta il cristianesimo a non diventare un’esiziale «religione civile», e spinge (dovrebbe spingere) i suoi seguaci a misurarsi ad armi pari, senza alcun privilegio ereditato dalla storia, nell’agorà della «polis».

Sappiamo bene che vi sono donne e uomini, preti, religiose e laici che, proprio per amore di Cristo crocifisso e risorto, si dedicano appassionatamente ad aiutare i più emarginati, in Italia e nel Sud del mondo: sono queste le persone che mostrano, nei fatti, che per il Crocifisso si può spendere anche la vita (e che esso le dà senso). Ma innescare in Italia una guerra di religione per un «referendum» sul crocifisso nelle aule scolastiche ci appare una scelta di estrema gravità evangelica, cecità storica, cinismo politico. Non sarebbe bello, invece, se le gerarchie, cui si accoderebbero penitenti tutti i politici che contano, cogliessero l’occasione della sentenza di Strasburgo, per essere loro le prime a rallegrarsene, invitando ad applicarla? È forse, il nostro, un sogno? Pare di sì, purtroppo; noi siamo fuori tempo e fuori luogo. Perché, ci ammoniscono B&B, Berlusconi e Bertone (a nome di Ratzinger), l’Italia sta o cade con il crocifisso sui muri. Che tristezza; che vergogna; che nuova e misera simonia.