Il velo come reazione all’islamofobia

di Mostafa El Ayoubi
da www.confronti.net, maggio 2010

Dopo vent’anni di campagna antivelo, in Francia e poi in altri paesi europei, il numero delle donne che indossano il foulard è oggi molto maggiore. Il fenomeno si è sviluppato proprio come reazione identitaria all’islamofobia e alla stigmatizzazione culturale e sociale dei musulmani.

Nell’ultimo decennio, l’epicentro del dibattito sul velo islamico si è sensibilmente spostato verso il suo modello integrale, ovvero quello che copre completamente, o quasi, il volto della donna: il burqa e il niqab. Quando è scoppiato l’affaire del foulard nel 1989 in Francia, il pomo della discordia era il semplice velo che copre la testa ma non il viso, quello comunemente chiamato foulard. Allora, il fenomeno del velo integrale nei paesi occidentali era praticamente inesistente.

La mobilitazione politica e culturale contro il velo ha portato nel 2004 all’istituzione in Francia di una legge contro l’esibizione dei simboli religiosi all’interno della scuola pubblica; la legge in realtà era contro il velo islamico. In seguito tale mobilitazione si era a mano a mano estesa anche ad altri paesi come la Germania, l’Olanda e il Belgio; le misure restrittive nei confronti delle donne velate si sono progressivamente inasprite, soprattutto nel campo lavorativo, dove spesso le musulmane velate sono diventate oggetto di discriminazione sociale.

Qual è oggi il bilancio della campagna antivelo iniziata più di 20 anni fa?

Il numero delle donne che indossano il foulard in Europa, ad oggi, è aumentato sensibilmente. Il fenomeno si è normalizzato al punto tale che gli occidentali non ci fanno più molto caso. Anzi, l’evoluzione dello stile d’abbigliamento per le donne velate, che oggi propone una vasta gamma di modelli e di colori, ha contribuito ad una progressiva integrazione di questa usanza, storicamente e culturalmente estranea al modo di vestire in Occidente.

Il motivo principale dell’incremento nel numero delle donne velate è legato alla reazione delle comunità musulmane residenti in Europa all’islamofobia diffusasi soprattutto negli ultimi 10 anni. Si tratta di una reazione identitaria ad una sistematica stigmatizzazione culturale e sociale dei musulmani e della loro religione in terra d’Occidente.

Tra i protagonisti di questa reazione a difesa dell’identità islamica ci sono anche le donne. Contrariamente a quanto si pensa, non sono poche le donne che portano il velo per libera scelta personale. È utile ricordare la faccenda delle due sorelle Alma e Lila Lèvy, espulse nel settembre 2003 da un liceo a Saint Denis in Francia, un anno prima della promulgazione della legge anti-velo. Erano due ragazze musulmane di padre ebreo francese e madre algerina diventata cattolica. E di sicuro queste due ragazze non sono state costrette dai genitori a portare il velo. Oggi, come loro, molte donne che vivono in Occidente – generalmente con un grado d’istruzione medio alto – si velano per propria scelta e rivendicano la loro scelta a difesa dell’islam e dei suoi valori.

Ma resta innegabile il fatto che vi siano anche tante donne che hanno subìto direttamente o indirettamente forti pressioni per portare il velo in seguito alla reazione delle loro comunità di riferimento al dilagare dell’islamofobia. Tali comunità hanno reagito chiudendosi a riccio, usando il velo e altri simboli religiosi come scudo a difesa della propria religione. E gradualmente alcune categorie di imam – quelle più intransigenti – hanno iniziato a raccomandare ai fedeli di velare «le loro donne» (mogli e figlie). Questa tendenza riguarda soprattutto paesi come l’Italia, dove l’immigrazione di origine islamica è di recente insediamento, e sono innanzitutto gli immigrati di prima generazione a seguire tale linea imponendo, alle loro mogli e figlie – spesso giunte attraverso il ricongiungimento familiare – di indossare il velo. In tale contesto, molte donne non hanno avuto altra scelta che quella di indossare questo scudo identitario, altrimenti sarebbero diventate oggetto di isolamento sociale da parte della propria comunità.

Detto ciò, oggi la questione non si limita più solo al foulard e all’opportunità di distinguere tra chi lo porta liberamente e chi no. In Europa, negli ultimi anni, due nuove varianti del fenomeno sono emerse: le bambine velate e il velo integrale.

Le bambine che indossano il foulard sin dai primi 6/7 anni di vita è una tendenza presente oggi in diversi paesi europei. In Belgio è sempre più crescente il numero delle ragazzine velate nella scuola dell’infanzia e in quella primaria. Bisogna ricordare che tale prassi è quasi inesistente nei paesi da cui proviene l’immigrazione islamica, come il Marocco, la Tunisia o la Turchia; inoltre non ha nessun fondamento coranico o teologico.

L’altra variante del fenomeno è il velo integrale. Seppur in maniera limitata, questo tipo di indumento – il niqab soprattutto – è riscontrabile oggi nei luoghi pubblici di diverse città europee. Le donne che lo indossano sono mogli ricongiunte di immigrati musulmani di orientamento radicale fondamentalista, oppure donne occidentali convertite all’islam che frequentano ambienti dello stesso orientamento.

Le prime sono spesso donne disambientate perché giunte di recente in Occidente e dipendono totalmente dai loro mariti, che impongono loro di velarsi in quel modo. Le seconde sono donne occidentali convertite all’islam e spesso sposate con musulmani di tendenza fondamentalista. Queste ultime sono le più visibili e le più mediatizzate e difendono pubblicamente il diritto di coprirsi in quel modo perché, a dir loro, è l’islam che lo prescrive. In realtà la maggior parte dei teologi musulmani non considera il niqab una prescrizione coranica o islamica in generale.

Dal punto di vista quantitativo, il fenomeno delle donne «burkate» è molto circoscritto. In Francia come in Belgio o in altri paesi europei, le musulmane che indossano il niqab sono poche centinaia. Tuttavia la loro presenza nei luoghi pubblici provoca turbamento e a volte anche timore tra molti cittadini. E oggi, nel dibattito politico sull’islam, l’argomento più quotato è ormai il velo integrale. Tanto è vero che il Parlamento belga, nonostante la crisi di governo, ha emanato una legge – la prima in Europa – contro il niqab nei luoghi pubblici; il governo francese è deciso ad imporre il divieto nonostante il parere contrario del Consiglio di Stato, che di recente ha definito giuridicamente contestabile una legge generalizzata contro il velo integrale.

Una legge in materia, in effetti, non risolve il problema, anzi complicherebbe ulteriormente la situazione, soprattutto per quelle donne costrette a velarsi integralmente. La reazione di molti musulmani potrebbe essere di ancora maggiore chiusura e radicalizzazione e sarebbero proprio le donne a pagarne per prime le conseguenze: quelle con il niqab rischierebbero di non poter più uscire di casa.

Ricorrere alle leggi per arginare questo preoccupante fenomeno è controproducente per le donne in primis. Ciò che occorre è: da un lato un serio lavoro di «coscientizzazione» e di prevenzione da parte dello Stato in collaborazione con le comunità e le organizzazioni islamiche attive sul territorio; dall’altro, una operazione di bonifica del clima sociale inquinato da una islamofobia dilagante alla quale una parte dei musulmani reagisce in maniera sbagliata alimentando così il circolo vizioso dello scontro culturale nel quale la donna è fortemente strumentalizzata.