Niente può fermare la guerra

di mazzetta
da www.altrenotizie.org

C’è ancora molto rumore negli Stati Uniti attorno a Wikileaks. Il sito, rilasciando recentemente miglia di comunicazioni militari statunitensi, ha provocato un discreto scandalo, ma ancora di più ne ha provocato la diffusione di un grosso file (della dimensione 1,4 gigabyte) denominato “Insurance”, assicurazione. Il file è criptato con una chiave a 256 bit, una password di oltre cinquanta caratteri per forzare la quale, provando tutte le combinazioni possibili e mettendo al lavoro una decina di computer molto veloci, occorrerebbe un tempo molto superiore alla stessa età del pianeta terra.

Un’impresa che sembra al di sopra delle pur notevoli possibilità di computo a disposizione dei servizi segreti americani, che infatti hanno un diavolo per capello e che devono a questo punto trovare un sistema alternativo alla “forza bruta” per aprirlo, analizzarlo e comprendere cosa contenga e quanto sia pericoloso per gli Stati Uniti e la loro reputazione.

Il file, inoltre, è già stato scaricato da migliaia di utenti, rendendo vana ogni ipotesi d’intervento basata sul sequestro, il sabotaggio del sito, azioni di polizia o aggressioni militari ai danni di Wikileaks e dei suoi server. Per questo si sprecano le accuse al comportamento “irresponsabile” di Wikileaks e di chi lo gestisce, in particolare del suo fondatore Julian Assange.

Un’agitazione francamente difficile da comprendere, dato che la recente diffusione delle comunicazioni tra i militari americani è passata quasi inosservata e del tutto priva di conseguenze significative. Pur provando e dimostrando che i militari americani hanno commesso e occultato gravi crimini di guerra, che ne hanno discusso tranquillamente tra loro senza che nessuno sollevasse grosse obiezioni e perfino che i soldi dei contribuenti americani foraggiano i servizi pachistani che fanno il doppio gioco ai loro danni.

Nessuna conseguenza: ufficiali e media americani hanno reagito dicendo semplicemente che nei documenti diffusi non c’era niente che non si sapesse già, subito seguiti dai media occidentali che sostengono lo sforzo bellico, rapidi a dar voce a fidati editorialisti che si sono affrettati a confermare che non ci fosse niente di nuovo. Il tutto si è esaurito in una fiammata di un paio di giorni con gran parte dell’opinione pubblica che non è stata neppure raggiunta dalla notizia, visto che degli imbarazzanti dettagli si è discusso molto meno che del “pericolo” rappresentato da Wikileaks per i “nostri ragazzi” al fronte. Wikileaks è stata velocemente indicata come la parte criminale nella faccenda e dei crimini di guerra e delle prove rappresentate dalle stesse comunicazioni statunitensi non si è proprio discusso.

Stessa sorte per la clamorosa inchiesta che poche settimane prima aveva pubblicato il Washington Post, dimostrando che negli Stati Uniti è stato dato il nulla-osta per trattare dati segreti e quasi un milione di persone e che questi sono per la maggior parte dipendenti d’imprese private, arruolate dal governo per spiare principalmente gli americani e le loro comunicazioni. La scoperta di un tale outsourcing della sicurezza nazionale che; unito a una spesa mostruosa per tener su tutta la baracca e al fatto che tutto il sistema sia orientato più alla sorveglianza degli americani che verso eventuali minacce straniere; avrebbe in teoria dovuto scuotere la “terra degli uomini liberi” e invece è scivolato via come se niente fosse.

In un caso e nell’altro non c’è stato dibattito, nessun politico ha levato la sua voce per dirsi scandalizzato e i due scandali non hanno provocato nemmeno una modesta indagine del Congresso. Eppure i numeri e le spese in gioco sono di dimensioni impressionanti, ed è evidente che da un lato si è dimostrato che il governo degli Stati Uniti spia senza tregua i propri cittadini e dall’altro che i militari americani hanno commesso numerosi crimini di guerra e altri crimini per occultarli. Niente, nessuno scandalo; solo diffusa indifferenza a parlar d’altro. Le uniche reazioni emerse sono state quelle di fastidio verso chi ha diffuso le notizie e l’abbozzo di un processo pubblico nei loro confronti.

E se negli Stati Uniti funziona così negli altri paesi occidentali, il nostro su tutti, la situazione è ancora peggiore. Chi avesse confrontato i maggiori quotidiani d’oltreoceano e i nostri nei giorni scorsi non avrebbe potuto fare a meno di notare la clamorosa differenza nel trattare la notizia dell’uccisione di un gruppo di medici occidentali e non in Afghanistan. Per i quotidiani statunitensi sono stati uccisi dieci medici, dieci volontari impegnati nel portare cure nei luoghi meno accessibili dell’Afghanistan.

Chi li abbia uccisi non è chiaro e, visto che a rivendicare l’azione sono stati due gruppi diversi di guerriglieri, resta aperta ogni ipotesi. Per i maggiori quotidiani italiani invece è stato semplicemente un massacro di medici “cristiani”. Nessuna delle testate che spesso criticano la presenza di Emergency in Afghanistan come presenzialismo incosciente, animato da motivazioni politiche che affondano nell’antiamericanismo ha osato scrivere nulla del genere.

Ecco perché anche l’innovativa e meritoria opera di Wikileaks non servirà a niente. Il controllo esercitato dal potere sui media occidentali e sul discorso pubblico è talmente pervasivo che alla “soppressione dell’informante nativo” (cit.) Spivak); che censura completamente le voci degli abitanti dei paesi travolti dalle “nostre” guerre o vittime delle “nostre” politiche; si aggiunge la garanzia del dirottamento del dibattito pubblico dove non può far danni, anche quando le notizie capaci di dare scandalo riescano a giungere ai media e a bucare la propaganda bellica spinti da fonti autorevoli e occidentali come il Washington Post o certificate da prove incontestabili come i documenti militari americani diffusi da Wikileaks. Non succede niente, neanche quando ci si trova di fronte a un fallimento epocale certificato, come la guerra in Iraq.

Una guerra della quale nel nostro paese non dibatte più nessuno ormai da anni e che, anche negli Stati Uniti, sembra un capitolo chiuso, nonostante la situazione sul terreno sia molto peggiore di quella che era a un anno dall’invasione e nonostante le truppe americane siano destinate a restarvi per anni, a dispetto degli assurdi proclami che hanno annunciato il disimpegno americano e a dispetto del fatto che tutte le cifre di pubblico dominio restituiscano il quadro di un paese distrutto che a distanza di mesi dalle ultime elezioni, definite ovunque in Occidente “un successo”, è addirittura ancora privo di un governo.

Un’evidenza che dovrebbe portare gli esperti alla revisione della dottrina del “Nuovo Modello di Guerra Occidentale” (cit. Martin Shaw), che prevede il controllo di tre campi di battaglia perché l’Occidente possa andare alla guerra: quello bellico in senso stretto, quello economico e quello mediatico. Da quello che abbiamo visto dal 2001 in poi e da quello che possiamo trarre dall’esperienza empirica, bisogna invece concludere che l’Occidente può anche andare alla guerra e perderla, che può anche portare alla rovina le proprie economie a seguito dello sforzo bellico o di concomitanti politiche economiche fallimentari, ma che fino a quando il potere politico ed economico domineranno incontrastati il campo di battaglia mediatico, non ci sarà alcuno ostacolo alla continuazione delle guerre in corso o allo scoppio di altre guerre in futuro.

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Afghanistan, la guerra che non c’era

di Rosa Ana de Santis

Oltre 90 mila documenti top secret sono finiti nelle mani di tutti e la rete dei rapporti e delle operazioni di intelligence sullo sfondo della guerra dell’oppio è sempre più chiara. Wikileak, il sito della clamorosa fuga di notizie, ha sgombrato il campo della retorica politica dalla teoria della guerra necessaria o dalla versione italiana e tutta televisiva della pace armata. La guerra della tv ha svelato i suoi cadaveri nascosti. Le operazioni militari mai raccontate, i dossier scomodi, le liberazioni osteggiate e le stragi taciute. Molti i documenti che riguardano casa nostra.

Obama rilancia con la consueta strategia della paura nazionale, diffonde l’allarme per la minaccia che ora incombe sulla sicurezza degli americani, mentre il Pentagono prepara la maxi inchiesta. Ancora più difficile spiegare questo lato marcio della guerra in Afghanistan in Italia, dove l’occupazione militare è passata alla cronaca ufficiale esclusivamente come operazione di difesa.

L’intolleranza popolare al sacrificio dei nostri caduti non è troppo lontana dalla denuncia della morte ingiusta degli innocenti afghani. Questa guerra è per tutti, qui, un orrore insopportabile, ma necessario. Non c’è ardore nazionale, né patriottismo all’americana ad alimentarne la difesa. E’ questo forse a spiegare il nervosismo che il nostro Ministro della Difesa ha spesso trattenuto a fatica, anche davanti alle telecamere, a chiunque gli ricordasse quanto lunga e penosa fosse la conta dei morti. Da tutte le parti.

La prima bugia è quella dei militari e dei rinforzi inviati. Non andava detto pubblicamente, questa la condizione posta dall’Italia, ma dovevano aumentare. E poi la lista degli incidenti, delle stragi e della propaganda di cui non abbiamo letto da nessuna parte. Il caso più clamoroso, tra i dossier svelati, è quello del rapimento del giornalista Daniele Mastrogiacomo. Una liberazione voluta a tutti i costi dal governo e considerata un pericoloso precedente dal governo estone per lo scambio che l’Italia decise di fare con i prigionieri talebani, utilizzando come mediatore Rahmatullah Hanefi, manager dell’ospedale di Emergency a Lashkar Gah, subito dopo arrestato. Compaiono inoltre numerosi casi documentati di incidenti, finora ignoti, avvenuti nella provincia di Herat durante le operazioni militari di routine delle nostre truppe.

Esce molto rafforzata, invece, l’immagine di Emergency. L’unica ad aver sempre raccontato la guerra in Afghanistan tutta intera, senza censure. Una Ong, come si legge nelle carte, divenuta insopportabile per gli americani. Così Gino Strada, il suo fondatore, il pacifista ingenuo dalla dialettica poetica, diventa l’icona della denuncia della vera guerra. Di quella più cruda e più spietata. Quella che non abbiamo visto, né letto. Processi sommari a qualsiasi talebano, uccisioni di massa, collaborazioni scomode tra servizi segreti pakistani e talebani, distruzione di mine italiane affinché non cadessero in mani talebane. Mine, proprio loro. Dopo anni di messa al bando tornano nella semina della morte e della mutilazione. Quella che i medici di Gino Strada guardano in faccia ogni giorno.

Wikileak assicura che non sono a rischio i paesi coinvolti o le loro truppe. Non sono state svelate posizioni e riferimenti sul territorio. Ma il piatto della guerra giusta è avvelenato. E il danno agli interessi sporchi che vi sono dietro, forse, è ben più grave. Il pericolo è una guerra che non doveva cominciare e che deve rapidamente finire. Una guera che incombe anche su tutti i morti senza divisa che avremo ancora e che ancora saranno seppelliti di notte, al riparo delle nostre coscienze.

Al nostro Ministro della Difesa spetterebbe il compito di accompagnare le sue dimissioni con due parole di spiegazione che tolgano il disturbo dell’imbarazzo televisivo finora dissimulato. Va detto agli italiani che siamo andati in guerra. Un conflitto che non è più pulito di altri, che è marcio negli scopi e che si nutre della solita propaganda di guerra. Che manda a morire i “nostri ragazzi” come li chiama il Ministro negli spot, sapendo benissimo di non mandarli in alcuna missione di pace. Una guerra che non risparmia donne e bambini, che non conosce e riconosce divise e nemici, ma che è lì per conquistare tutto. Dalla terra al cielo. Una razzìa che non ci rende più buoni o meno colpevoli degli altri. Le nostre mine e i nostri fucili uccidono come quelli di tutti. Solo che finora non lo abbiamo raccontato a nessuno. E un fatto non raccontato, semplicemente sembrava non fosse accaduto.