Un nuovo criterio di giudizio: ecclesialmente legittimi

Marcello Vigli
da www.italialaica.it

Per i non credenti è motivo di stupore o occasione di dura denuncia la disinvoltura con cui le gerarchie cattoliche assumono categorie e linguaggi nuovi per aggiornare la loro predicazione. Un’antica sapienza ha guidato e guida la loro azione nell’adeguarsi alle trasformazioni che caratterizzano la storia delle società di tutti i tempi; nel secolo appena trascorso ne è stato un esempio la capacità di sopravvivere alla secolarizzazione, dalla quale hanno, anzi, tratto forza per rinnovarsi pur dichiarandosi fedeli alla Tradizione in nome della quale hanno continuato a selezionarsi sia a livello locale, sia a livello centrale. Questo fenomeno, che pur non si è manifestato e non si manifesta in modo identico in tutte le latitudini, continua e mantiene un carattere sufficientemente unitario nella progressiva planetarizzazione dell’avventura umana.

Questa continuità nella diversità non crea, ovviamente, problemi d’interpretazione a chi si rapporta alla gerarchia ecclesiastica solo come soggetto politico con cui stringere alleanze; non ha interesse a denunciarne contraddizioni e responsabilità, intento com’è solo a coinvolgerla nelle sue manovre e a cooptarla all’interno della classe dirigente. Tutti gli altri, anche chi la crede opera dello Spirito Santo, sono sollecitati a chiedersi quali strumenti contribuiscano a garantire tale continuità, essenziale perché la Buona novella possa essere annunciata nel tempo e a tutte le genti.

Per azzardare una risposta si può affermare che essa è frutto della capacità della Comunità cattolica di selezionare quali parole e strutture nuove possano essere integrate, senza rompere con la Tradizione, sia nel patrimonio culturale sia nell’assetto istituzionale. Sia l’uno che l’altro, in verità hanno rivelato nel tempo pesanti zavorre che solo le pressioni esterne e interne – inizialmente condannate e poi talvolta riconosciute provvidenziali – hanno costretto a mollare. Le cannonate di Porta Pia hanno indotto a subire, prima, e ad esaltare, poi, la fine del potere temporale.

La scolarizzazione diffusa, deprecata prima perché fonte di corruzione per le masse, ha poi creato le condizioni per la loro partecipazione consapevole alla celebrazione eucaristica attraverso l’introduzione delle lingue nazionali. La diffusione delle tecniche anticoncezionali, ancora deprecata, ha indotto a scoprire la dignità della donna e il valore della sessualità, liberando il matrimonio della sola funzione riproduttiva.

Il Concilio Vaticano II non sarebbe stato possibile senza la breve fase della distensione internazionale e l’avvento di un papa di transizione che lo individuasse come necessario. Proprio il Concilio con il suo svolgimento e con i suoi documenti ha insegnato che l’intreccio, fra continuità e cambiamento, è fisiologico nella vita della Chiesa, con buona pace di quanti continuano ad arrovellarsi dove questo pregiudichi quella. Il Post Concilio ha, infatti, evidenziato che non sono omogenei i frutti di quella integrazione: essa può essere funzionale all’opera di evangelizzazione o essere utilizzata per mantenere le gerarchie ecclesiastiche fra i detentori del potere.

Anche questi due effetti sono intrecciati.

Nessuno può dire quale sia il confine fra il sostegno che l’autorevolezza del papa offre alla Caritas e l’aumento di prestigio che le attività di questa portano a quella. Più facile è invece individuare dove e quando l’aggiornamento delle categorie e del linguaggio servono solo a dare nuova veste a quel potere temporale, a parole non rimpianto da nessuno, ma da molti ricercato sotto forma di supplenza sociale e di privilegio concordatario.

In Italia, ad esempio, si gabella l’insegnamento confessionale come servizio culturale alla scuola pubblica; si “brevettano” i valori etici non rinunciabili per discriminare i buoni dai cattivi politici; si ripropone una natura umana immutabile nel tempo per negare il diritto/dovere dei singoli alla autodeterminazione del proprio corpo. C’è chi, come il cardinale Ruini, fa di più e inventa il Progetto culturale della Chiesa italiana come sede di confronto con i non credenti, in realtà da usare come strumento di controllo all’interno del mondo cattolico e autorevole cattedra da cui rivolgersi alla cultura e alla politica.

Ne ha voluto mantenere la Presidenza, anche dopo avere perso quella della Conferenza episcopale italiana, assicurandosene il funzionamento attraverso una congrua quota dell’otto per mille. Proprio in questa veste nel dicembre scorso è pesantemente intervenuto nel dibattito politico indicando nel rafforzamento dell’esecutivo, nel sistema elettorale maggioritario e nell’attuazione del federalismo la soluzione della crisi che le nostre istituzioni stanno attraversando.

Più stravagante l’invenzione della legittimità ecclesiale, se non fosse sintomo significativo di un modo preconciliare di concepire la Chiesa.

Il I aprile intervenendo, invece, in un incontro di politici di area prevalentemente ciellina organizzato da “Rete Italia”, ha offerto loro una lezione di autentica sapienza politica tornando a proporre come fondamento della loro azione la dottrina sociale della Chiesa. Sostiene il cardinale: Questa dottrina da una parte è proposta dal magistero della Chiesa e quindi ha pur sempre un aggancio con la fede in base alla quale la Chiesa esiste…. .

I credenti, …, se intendono comportarsi in maniera coerente con la loro fede, faranno riferimento alla dottrina sociale anche al di là di ciò che sembra loro evidente razionalmente. I cattolici che, in nome della libertà di coscienza, riconosciuta dal Concilio nelle questioni politiche, non si uniformano, invece, a tale insegnamento, hanno certamente il diritto di agire così, ma non possono pretendere che questi comportamenti e queste scelte siano anche teologicamente ed ecclesialmente legittimi.

Così il criterio di legittimità, che il pensiero moderno ha introdotto per distinguere il lecito dall’illecito nella società civile, viene aggiunto nella comunità ecclesiale a quello tradizionale di conformità etica e teologica. Non c’è più solo l’eresia a costituire un discrimine fra i fedeli cattolici si aggiunge anche la illegittimità ecclesiale!

La sua violazione è da considerare, secondo Ruini, un sintomo di quelle tendenze alla “secolarizzazione interna” della Chiesa e dei cattolici che da una parte non devono sorprendere, per l’influsso reciproco tra Chiesa e società che è sempre in atto: la secolarizzazione del mondo occidentale tende … fatalmente a riverberarsi anche all’interno della Chiesa.

Il cardinale non si rallegra che nella comunità ecclesiale i laici cristiani abbiano imparato a scegliere liberamente e responsabilmente nell’ambito delle loro competenze usando i benefici effetti della secolarizzazione, s’impegna, invece, a piegarne il senso per riaffermare il primato della gerarchia al di fuori dei suoi compiti specifici. S’inventa una legittimità ecclesiale a modello di quella politica, ma priva della fonte che la rende tale: il consenso partecipato dei cittadini.

Quelli del Popolo di Dio, infatti, non sono chiamati in nessuna sede a definire la Dottrina sociale della Chiesa, che si vorrebbe porre e a fondamento di quella legittimità: né nei Convegni ecclesiali – quello recente di Verona lo testimonia – né nelle Settimane sociali dei cattolici – le conclusioni dell’ultima di Reggio Calabria sono state revisionate dalla Cei e divulgate dalla sua sede.

La Chiesa di Ruini è ancora quella societas perfecta, di medievale memoria, anche se al suo interno i comportamenti ortodossi sono chiamati in nome della secolarizzazione ecclesialmente legittimi