L’ingiusta divisione dei beni e nuovi stili di vita

Giannino Piana
Missione Oggi, aprile 2011

La rivincita del capitalismo selvaggio, dopo la caduta dei regimi a economia pianificata dei paesi dell’Est europeo, ha innescato, a partire dagli anni novanta del secolo scorso, un processo di profondo cambiamento dei rapporti industriali e dei parametri di retribuzione, con la tendenza a premiare i livelli più alti e a penalizzare quelli più bassi. La crisi economico-finanziaria mondiale e l’insufficienza delle misure adottate dal nostro governo hanno ulteriormente aggravato questa situazione carica di incognite.

DISUGUAGLIANZE MULTIDIMENSIONALI

Il blocco dei salari e delle pensioni, anche per la perdita di potere del sindacato, l’incremento allarmante della disoccupazione, l’innalzamento del costo della vita e di alcuni servizi essenziali a seguito dei tagli alle regioni e agli enti locali e la ricerca esclusiva del profitto privato da parte delle aziende, anche per la necessità di fronteggiare una concorrenza mondiale sempre più agguerrita, sono altrettanti fattori che spiegano lo stato di progressivo impoverimento di una fascia assai ampia della popolazione.

Non sono soltanto gli operai o gli anziani, ma anche gli impiegati, gli insegnanti, i piccoli artigiani, ecc. – dunque soggetti appartenenti al ceto medio – che vanno ad ingrossare l’area della povertà, rendendo trasparente l’acutizzarsi delle disparità con il pericolo che si alimenti una forte conflittualità sociale, la quale non può che avere pesanti ripercussioni negative anche sul terreno economico.

Ad accentuare il disagio concorre poi, in misura determinante, il confronto tra gli stipendi (e le prebende) dei manager privati e pubblici e il conseguente tenore di vita da essi praticato – l’escalation che si è verificata in questi ultimi anni è di proporzioni gigantesche con una esponenzialità geometrica – e la condizione di un numero sempre più esteso di persone che stentano ad arrivare a fine mese facendo fronte alle esigenze delle loro famiglie.

Il fenomeno, per la gravità con cui si presenta, non può che sollecitare, al di là della doverosa interpellazione della coscienza di ciascuno, un vasto dibattito pubblico, che chiama direttamente in causa l’etica. La povertà si presenta come la forma estrema della disuguaglianza, e assume un carattere multidimensionale, nel senso che coinvolge le diverse dimensioni dell’esistenza, assumendo le sembianze di una realtà globale e polivalente. Le radici economiche sono dunque l’indicatore di una condizione di disagio più ampia e più complessa, che esige per questo di essere affrontata mediante una serie di interventi non settoriali.

UNA QUESTIONE DI GIUSTIZIA SOCIALE

Alla base dell’attuale stato di cose vi è una grave violazione della giustizia sociale. Se infatti – come ci viene ricordato dal principio della destinazione universale dei beni – ciascuno deve poter ricavare dai beni della terra ciò che è necessario per soddisfare le proprie esigenze di crescita, l’esistenza della povertà rende manifesta la persistenza di uno status di ingiusta sperequazione, che va denunciato e condannato.

L’accumulo della ricchezza nelle mani di pochi e la miseria in cui molti vivono è frutto di una malintesa concezione del principio di proprietà privata, inteso come diritto assoluto e incondizionato. È, ancor più radicalmente, conseguenza di una interpretazione individualistica dell’uomo, basata su di un presupposto egoistico, che si è tradotta sul piano economico nella nascita del sistema capitalista e sul piano politico nella ideazione dello stato liberale come stato di diritto. La giustizia è ridotta, in questo contesto, a semplice giustizia commutativa, limitata ai rapporti privati e destituita di ogni valenza sociale.

IL MERCATO: UN PENSIERO UNICO

La cultura del mercato divenuta “pensiero unico” – una sorta di ideologia negativa nata sulle ceneri delle ideologie del “secolo breve” – esercita oggi, grazie all’incidenza pervasiva degli strumenti di comunicazione, una grande influenza sulle scelte personali e collettive, fino a contaminare aree sociali e culturali – si pensi ai partiti della sinistra storica – tradizionalmente lontane da questo modo di sentire.

La crisi attuale denuncia tuttavia con evidenza i limiti non solo etici ma anche economici di un sistema volto a fare scempio delle risorse naturali e ad alimentare la conflittualità sociale. Ad emergere è, in altre parole, la constatazione che ciò che fino a ieri veniva giudicato moralmente inaccettabile risulta oggi anche economicamente improduttivo, e che si impone pertanto una seria inversione di rotta.

L’esigenza di ripristinare la giustizia sociale deve pertanto accompagnarsi – è questo il dato fondamentale – alla restituzione di significato al lavoro. Il primato che assegna ad esso la nostra Costituzione non può ridursi a un’astratta enunciazione di principio; deve tradursi nella tutela del diritto al lavoro per tutti e nella ricerca di condizioni che ne umanizzino le prestazioni.

Deve soprattutto condurre al riconoscimento del suo primato sul profitto e sulle rendite anche attraverso l’assegnazione di una adeguata retribuzione economica. Le sperequazioni segnalate non sono soltanto un palese atto di ingiustizia; rivelano soprattutto la scarsa considerazione in cui è tenuto il lavoro, che è il perno attorno a cui ruota l’intera vita economico-sociale.

IL SENSO DELLA POVERTA’ EVANGELICA

Ma la vittoria sulla povertà passa – paradossalmente – soprattutto attraverso l’adozione della povertà come stile di vita. Non è forse questo il senso della proposta evangelica? Il termine “povertà” appare contrassegnato nella tradizione biblica da caratteri ambivalenti. Da una parte, designa una situazione scandalosa, quella della miseria che abbruttisce e che è – come già si è detto – frutto dell’egoismo e dell’ingiustizia umana; dall’altra, indica uno status esistenziale di limitazione dei beni, che, oltre a consentire una loro più equa distribuzione, dispone l’uomo ad aprirsi, in termini incondizionati, all’azione liberatrice di Dio.

Nell’Antico Testamento il concetto di “poveri di Jahve”, presente soprattutto nella letteratura profetica, è riferito a una precisa categoria sociale – la classe di coloro che non contano, dei subalterni, dei “senza potere” – ; ma definisce, nello stesso tempo, la condizione religiosa di coloro che, abbandonata ogni pretesa di autosufficienza, si affidano radicalmente a Dio coltivando l’attesa messianica. La beatitudine della povertà, proclamata da Gesù, si inserisce pienamente nell’alveo di questa tradizione. La povertà evangelica non può essere interpretata in chiave puramente spiritualistica o intimista; è insieme attitudine religiosa e condizione sociologica.

I poveri “in spirito” di cui parla Matteo (5,3) – Luca usa semplicemente il termine “poveri” (6,20) – sono una categoria sociale ben definita; sono gli esclusi dal possesso della ricchezza e del potere, i quali vivono positivamente la loro condizione, con la consapevolezza che essa garantisce la pratica della giustizia e il superamento dell’autogiustificazione, dunque l’accoglimento della salvezza come dono di Dio. La condanna della ricchezza conferma la verità di questo assunto: ingiustizia e idolatria sono i mali che da essa derivano, e che mortificano profondamente l’esperienza personale e sociale dell’ uomo.

NUOVI STILI DI VITA

Anche nel Nuovo Testamento, il termine “povertà” è dunque ambivalente. La povertà è realtà da combattere realizzando la giustizia e insieme via per l’accesso alla novità del regno. Nella sua valenza negativa essa è oggi la logica conseguenza di un’organizzazione sociale basata sui principi della differenziazione, dell’accumulazione e dell’interdipendenza settoriale, propri di un sistema economico, che genera le disuguaglianze ricordate.

Per vincere la povertà negativa è perciò necessario un ribaltamento degli attuali assetti produttivi e la creazione di un sistema alternativo. Ma a questo deve affiancarsi, se si vuole dar vita a un rinnovamento duraturo, una rivoluzione delle coscienze, una vera metanoia interiore, che spinga all’assunzione di stili di vita ispirati alla sobrietà, alla riduzione dei bisogni e alla valorizzazione dei beni relazionali, dai quali viene il miglioramento della qualità della vita.

La povertà negativa esige dunque, per essere superata, l’adozione di una povertà positiva, quella evangelica. Solo attraverso di essa è infatti possibile accedere a una più equa distribuzione della ricchezza, e concorrere perciò alla costruzione di una società più giusta e più solidale.