Se la chiesa è “fabbrica” di umanità

Valerio Gigante
www.adistaonline.it

Un libro sul rapporto tra mondo operaio e cristianesimo di base

Quello operaio e quello cattolico sono stati spesso due mondi assai distanti; a volte addirittura contrapposti, quando più forte si faceva il conflitto di classe e la Chiesa istituzione rafforzava i suoi legami con le borghesie mondiali. Certo, ci sono stati periodi caratterizzati da qualche timida apertura, ma piuttosto “strumentali”, come quando con la Rerum Novarum ed il cattolicesimo sociale la gerarchia ecclesiastica tentò di fare propri alcuni temi ed alcune istanze del pensiero socialista, depotenziandone però la carica rivoluzionaria attraverso un approccio solidaristico e interclassista che sottraesse le masse dall’egemonia socialista.

Raramente, insomma, si realizzò tra Chiesa e fabbrica una vera e feconda compenetrazione. Quando accadde, però, l’incontro tra queste due realtà fu particolarmente ricco di sviluppi. Ci fu, ad esempio, l’esperienza dei preti-operai, o degli operai-preti, quando posponendo la seconda qualifica alla prima si intendeva essere lavoratori tra i lavoratori, senza privilegi o segni distintivi. Ma si trattò della scelta di singoli, al più di piccoli gruppi. Poi arrivò il Concilio. Ed il ’68, che anche nel nostro Paese portò l’esigenza di rompere steccati politico ideologici che avevano diviso marxismo e cristianesimo, cattolici e comunisti, sinistra e mondo ecclesiale. E quell’incontro, che le necessità storiche avevano già anticipato nella breve stagione della lotta partigiana e nella Costituente, fu fecondo di reciproche “contaminazioni”.

Tra le esperienze più significative di questa stagione, la vicenda della Comunità cristiana di base dell’Isolotto, storico quartiere popolare della periferia sud-occidentale di Firenze. Questa esperienza è ora raccontata con rigore storico e completezza in un libro appena uscito per i tipi della Ediesse (casa editrice della Cgil): si tratta di Mondo operaio e cristianesimo di base. L’esperienza dell’Isolotto di Firenze (pp. 184, euro 10: il libro può essere richiesto, senza spese di spedizione aggiuntive, anche ad Adista, tel. 06/6868692; fax 06/6865898; e-mail: abbonamenti@adista.it; oppure acquistato online sul nostro sito internet).

La ricerca è stata condotta da un giovane storico, Christian De Vito, che ha attinto ad un notevole patrimonio documentario, fatto di testimonianze scritte ed orali. Nel suo lavoro De Vito analizza, come rileva Enzo Mazzi nell’introduzione al volume, un «processo di reciproca penetrazione, intreccio, unificazione dal basso fra culture operaie e culture del territorio che è tutt’ora in pieno sviluppo e denso di futuro». Tale processo ha avuto una forte intensificazione nella seconda metà del secolo scorso, dopo il boom postbellico dell’industrializzazione.

«Sia il mondo operaio che i movimenti territoriali – spiega Mazzi – sentivano forte l’esigenza di superare la cultura della separatezza che era imposta dalla rivoluzione industriale»: «La classe operaia fu costretta a uscire dalla fabbrica per cercare alleanze contro l’affacciarsi della crisi industriale che insidiava l’occupazione. I soggetti delle lotte per i servizi negli insediamenti abitativi avevano raggiunto, a loro volta, una maturità che li portava alle radici, alle cause profonde della invivibilità delle periferie abitative. Sentivano forte l’esigenza di superare la cultura della separatezza. Cercavano in una unità più grande e in un progetto complessivo, capace di coinvolgere dal basso tutta la società, lo sbocco del loro impegno di animazione e unificazione del territorio».

Si unirono ed integrarono così tra loro «lotte sindacali e lotte per i servizi e le riforme, fra cultura operaia e cultura dei settori della società più legati al territorio come le donne, gli studenti, i cristiani che gravitavano intorno all’ambiente parrocchiale». Ma per l’Isolotto il «punto di non ritorno in quel percorso di progressiva condivisione del destino del mondo popolare, e particolarmente di quello operaio» fu la mobilitazione in solidarietà con i 980 operai delle Officine Galileo.

L’11 gennaio 1959, racconta De Vito, «all’indomani dell’arrivo delle prime 527 lettere di licenziamento, della rottura delle trattative sindacali e dell’occupazione della fabbrica da parte degli operai. L’assemblea generale degli operai della Galileo si tenne infatti nella chiesa dell’Isolotto, con i rappresentanti sindacali seduti ad un tavolo coperto da un drappo rosso, davanti all’altare, un operaio licenziato a presiedere l’assemblea e una folla di operai, molti dei quali comunisti, ad ascoltare e intervenire.

Fu un avvenimento dirompente. Della parrocchia avrebbe segnato l’identità, divenendo un topos della memoria collettiva, uno stimolo ad aprirsi ulteriormente al quartiere – come mostrarono le stesse lotte del 1959 – e anche il modello di tutte le assemblee che si sarebbero svolte in seguito, soprattutto a partire dalla metà degli anni ‘60». Per gli operai dell’Isolotto «fu il segno tangibile della reale diversità dell’esperienza che si conduceva in quella parrocchia rispetto all’orientamento generale delle gerarchie ecclesiastiche».

Il “Comitato di solidarietà per i lavoratori della Galileo”, che aveva in don Mazzi il suo primo aderente, comprendeva medici, insegnanti, esercenti, segretari delle sezioni di partito, dei circoli ricreativi, della casa del popolo, dell’Udi e delle Associazioni cattoliche del quartiere. Quel modello si ripropose anche alla fine del 1962, quando i lavoratori in lotta erano quelli della Fivre ed a loro espressero non una solidarietà generica, ma una piena condivisione della lotta e dei suoi obiettivi don Mazzi, don Sergio Gomiti, don Bruno Borghi, don Renzo Innocenti e don Renzo Rossi.

Da allora quel legame non si è più rotto. Anzi, si può dire che, in una visione dinamica, «il percorso di costruzione dell’identità della parrocchia/Comunità è stato strettamente legato al processo attraverso il quale essa ha definito ciò che nel titolo di questa ricerca è chiamato sinteticamente “mondo operaio”».

Fino al «processo di ridefinizione legato alla fine della “centralità operaia”, al mutare delle sensibilità soggettive e alle trasformazioni portate dalla globalizzazione economica». Ed alla ricerca di un rapporto con i movimenti e le realtà che, dal basso, costruiscono socialità, uguaglianza, diritti. E memoria. Proprio quella che, spiega Mazzi, il liberismo «creatore di società-necropoli», di «produttori/consumatori senza identità sociale» pretenderebbe di annullare.