L’informazione e le controrivoluzioni arabe

Mostafa El Ayoubi
www.confronti.net

Oltre ai nuovi media, diffusissimi tra i giovani, anche la televisione satellitare Al Jazeera ha giocato un ruolo importante nell’informare in modo libero, contribuendo ad aprire gli occhi alle popolazioni arabe sui vari regimi. Ma ora invece pare sempre più allineata con il punto di vista degli Stati Uniti. Sono passati sei mesi dall’inizio delle rivolte popolari in diversi Paesi arabi per rivendicare libertà e democrazia, valori che i cittadini di queste nazioni hanno sempre sognato ma mai vissuto realmente. Nella mobilitazione politica dell’opinione pubblica araba, l’informazione, nel bene e nel male, ha giocato un ruolo importante, specie quella fornita dalle Tv satellitari e i «new media» (Facebook, Twitter e altri social network).

Al Jazeera e le rivoluzioni arabe

Nel Medio Oriente e in Nord Africa negli ultimi decenni c’è stata una diffusione capillare delle Tv satellitari. Le antenne paraboliche sono ormai diventate parte integrante dell’arredo esterno delle case anche nelle aree rurali più sperdute di questa parte del mondo. Oggi il canale trasmesso via satellite più popolare è Al Jazeera. Questa Tv, di proprietà della famiglia reale qariota, è stata la prima ad introdurre nelle case degli egiziani, dei tunisini, degli algerini, dei siriani e di altri cittadini arabi, il pluralismo dell’informazione che i regimi totalitari arabi hanno sempre negato ai loro popoli. Questa Tv, nata nel 1996 e dedita in gran parte all’informazione, ha contribuito alla formazione e alla diffusione di una coscienza politica tra molti cittadini arabi. Ha consentito loro di accedere ad un’informazione che sfugge al controllo sia delle dittature arabe – che fanno della repressione della libertà d’espressione uno degli strumenti più efficaci per mantenersi al potere – sia di alcune potenze occidentali che le proteggono.

Dal 2001 in poi, Al Jazeera ha giocato un ruolo importante nel seguire, documentare e presentare al pubblico gli eventi riguardanti il mondo islamico in generale e quello arabo in particolare. Le notizie e i documentari che i suoi numerosi corrispondenti mandavano dall’Afghanistan sulla guerra a partire dal 2001, come quelli dall’Iraq dopo la sua invasione da parte degli americani nel 2003, hanno sempre costituito un grosso problema per la Casa Bianca e i suoi alleati. Il motivo principale di tale preoccupazione è che Al Jazeera – contrariamente a quanto hanno sempre fatto altre Tv satellitari come l’americana Cnn e la britannica Bbc – dava informazioni che erano in netto contrasto con gli interessi geopolitici del governo americano nella regione: interessi che i grandi media alleati riuscivano a coprire facendo credere all’opinione pubblica internazionale che l’obiettivo principale dell’agire americano fosse sempre stato quello di difendere i diritti umani e portare la democrazia nel mondo islamico.

Al Jazeera invece raccontava i massacri di donne, bambini, anziani e civili innocenti in Afghanistan e in Iraq, documentava gli abusi e le torture nella prigione di Abu Ghraib. Al Jazeera raccontava al pubblico gli ottimi rapporti che gli Usa avevano con il dittatore Saddam Hussein prima che quest’ultimo diventasse un «traditore» e quelli con i nuovi governanti scelti per curare i loro interessi. Per chi non lo sapeva, Al Jazeera portava a conoscenza dei telespettatori musulmani che Karzai, l’attuale presidente afghano, in passato, prima dell’occupazione americana, era un consulente di una grande compagnia petrolifera statunitense (Unocal) che operava nella zona. Tutto ciò faceva di Al Jazeera una voce scomoda da ostacolare e censurare. In effetti la sua sede a Kabul è stata bombardata nel 2001 dalle forze alleate occidentali. E la stessa sorte l’ha avuta quella di Baghdad nel 2003, dalla quale i giornalisti dell’emittente qariota sono stati poi cacciati via. Al suo posto è stata creata nello stesso anno la Tv Al Arabiya, controllata e finanziata da un fedele alleato degli Usa, ovvero il regime totalitario saudita, noto per il suo orientamento religioso fondamentalista e settario.

Dopo la sua cacciata dall’Iraq, Al Jazeera era diventata oggetto di una massiccia campagna mediatica occidentale per screditarla presso l’opinione pubblica internazionale. È stata persino accusata di essere al servizio di Osama bin Laden e del terrorismo islamico. Anche per il governo israeliano Al Jazeera era una spina nel fianco per il modo in cui affrontava il conflitto israelo-palestinese. Questa Tv araba è stata una tra le pochissime a raccontare al mondo con meno parzialità l’atrocità della guerra contro la popolazione di Gaza nel 2009. Al Jazeera è sempre stata considerata una Tv fiancheggiatrice di Hamas, considerato da Israele e da molti governi occidentali un gruppo di terroristi, mentre per i palestinesi e per molti altri arabi esso rappresenta un movimento di resistenza contro l’occupazione israeliana dei territori palestinesi. Era un mezzo di comunicazione di massa che dava voce ai più deboli; e tra i deboli c’erano tutti quei popoli arabi oppressi e umiliati da regimi dittatoriali corrotti.

Grazie alla presenza fisica e reale sul campo dei suoi giovani corrispondenti, Al Jazeera aveva intuito (forse per primo) che qualcosa stava accadendo nel mondo arabo. E ha avuto ragione: l’onda della rivoluzione stava arrivando e l’ha cavalcata sapientemente. Negli annali della storia Al Jazeera verrà ricordata come una Tv che ha contribuito alla mobilitazione delle masse e alle rivolte, prima in Tunisia e poi in Egitto, che hanno costretto Ben Ali e Mubarak ad abdicare. Dalla fine di dicembre 2010 e durante i due primi mesi di quest’anno, Al Jazeera ha avuto il merito di puntare i suoi riflettori sulle piazze arabe per farle vedere al mondo e impedire che i dittatori soffocassero nel silenzio – come hanno sempre fatto in passato – le grida dei cittadini che reclamavano la democrazia. Ha contribuito a far crollare quella barriera della paura che impediva alla gente di scendere in piazza per rivendicare diritti e libertà.

Il cambio della linea editoriale

Questa era Al Jazeera fino allo scorso mese di febbraio; poi all’improvviso la sua linea editoriale è cambiata. È passata dall’altra parte, quella dei potenti che dominano il mondo. I primi dubbi sul fatto che l’emittente qariota stesse per compiere una «svolta» sono arrivati proprio da una piazza, quella di Lu’lu’a (la perla) a Manama, la capitale del Bahrein, dove da metà febbraio decine di migliaia di cittadini bahreini hanno cominciato a radunarsi per chiedere pacificamente riforme e democrazia. E immediatamente i manifestanti sono stati fortemente repressi dalle forze governative e dall’esercito saudita corso per soccorrere il regime dittatoriale guidato dalla famiglia Al Khalika. Ma in quella piazza stranamente gli obbiettivi delle telecamere e i microfoni di Al Jazeera non c’erano. Qualcuno aveva deciso che quella rivoluzione non andava mediatizzata e Al Jazeera ha obbedito. Il Bahrein fa parte del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg) che comprende tutte le monarchie petrolifere – compreso il Qatar, padrone della popolarissima emittente araba – e quindi il regime andava difeso a tutti costi, compresa la censura mediatica.

A sciogliere il dubbio che Al Jazeera sia passata dall’altra parte sono gli eventi della guerra in Libia e la crisi politica e sociale in Siria. Al Jazeera ha sostenuto mediaticamente l’intervento militare della Nato in Libia nonostante il fatto che ormai è risaputo che quell’intervento non era per motivi umanitari e che quello che è successo in questo Paese non è stata una rivoluzione popolare. Ora Al Jazeera, assieme ad altri grandi media occidentali (Cnn, Fox new, Bbc, France 24, ecc), sta conducendo una massiccia campagna mediatica contro il regime siriano ricorrendo anch’essa all’uso di immagini e filmati truccati e testimonianze false per convincere l’opinione pubblica internazionale che bisogna intervenire militarmente anche in Siria per salvare i siriani dal «feroce» Al-Assad. E ciò nonostante il fatto che l’insurrezione armata in alcune parti della Siria non ha nulla a che vedere con una rivoluzione pacifica che i siriani vorrebbero per avviare le riforme e transitare il loro Paese verso la democrazia e la libertà. Il regime siriano, come ben si sa, è in guerra con Israele, ha pessimi rapporti con gli Usa, con l’Ue e con l’Arabia Saudita a causa della sua alleanza con l’Iran ed è da anni che Washington e i suoi alleati tramano per fare cadere Al-Assad (prima il padre e ora il figlio).

Nella guerra mediatica volta a consolidare la loro egemonia sul mondo arabo, gli Usa hanno «conquistato» anche Al Jazeera, e sono riusciti quindi a vincere una nuova battaglia. Il 2 marzo scorso, davanti ad una commissione del Senato americano, il segretario di Stato Hillary Clinton aveva rimproverato i media americani per «non essere riusciti ad influenzare il corso delle rivoluzioni tunisina ed egiziana». E nella stessa occasione aveva elogiato Al Jazeera definendola una Tv che fornisce «real news». Con Al Jazeera, gli Usa stanno cercando di attuare nel Bahrein, in Libia e in Siria (e anche nello Yemen) quello che non sono riusciti a fare in Tunisia e in Egitto, ovvero mettere in atto delle controrivoluzioni guidate. Ma quanto sarà ancora efficace nel futuro questo nuovo acquisto? Quanto durerà ancora la fama e la popolarità di questa emittente che ha fatto sognare milioni e milioni di arabi? In molti si stanno già disaffezionando e alcuni giornalisti di punta, come Ghassan Ben Jeddou, direttore di Al Jazeera a Beirut, hanno dato le loro dimissioni.

I «new media» e la controrivoluzione

Per continuare a vincere la guerra mediatica, gli Usa non si limitano ad avere dalle loro parte le più importanti Tv satellitari. Essi puntano su altri mezzi ancor più sofisticati come internet, perchè per dominare il mondo bisogna avere il monopolio dell’informazione in modo da poterla usare come «arma» per impedire rivoluzioni contro regimi alleati o per destabilizzare e scatenare la guerra contro quelli nemici. In questo quadro, internet e i social network, come Facebook, Twitter e altre reti costituiscono una nuova «arma» mediatica, a volte più efficiente di un intervento militare.

Nel caso della Tunisia e soprattutto in quello dell’Egitto, internet è stato un efficace mezzo di comunicazione tra i giovani che hanno guidato la rivoluzione. Per gli egiziani, Facebook e Twitter sono stati molto utili per organizzare le manifestazioni, mobilitare la popolazione, elaborare collegialmente una strategia comune contro il regime e stabilire un rapporto stretto con l’opinione pubblica internazionale perché era l’unico garante per impedire che la loro rivoluzione venisse soffocata nel sangue. E ci sono riusciti. Coloro, invece, che hanno inventato questi new media per tutelare i propri interessi, gli americani in primo luogo, non hanno fatto in tempo ad intervenire per salvare Mubarak.

Il motivo di tale sconfitta è dovuto al fatto che solitamente sono gli americani ad utilizzare questa «arma» contro gli oppositori o contro i regimi a seconda degli interessi in gioco. In passato, questa «arma» nessuno l’aveva mai puntata contro di loro. La caduta di Mubarak è stata una colossale sconfitta per gli americani; i giovani egiziani, grazie ad internet, sono riusciti – anche se per poche settimane – a rimettere in discussione l’egemonia del Paese più potente del mondo. Ma è stata un’eccezione. Gli americani e i loro alleati sono riusciti a riprendere in mano la situazione e si sono lanciati in una nuova offensiva mediatica contro un regime nemico da destabilizzare: la Siria.

Sin dai primi segnali di disordini sociali in Siria, Facebook e Twitter sono tornati alla ribalta. Centinaia di migliaia di cittadini del mondo (americani, francesi, inglesi, arabi, ecc) si sono iscritti ai blog dedicati alla «rivoluzione» siriana costituendo una specie di referendum virtuale anti-Bashar Al-Assad. Ma qual è la realtà politica che si nasconde dietro questo fenomeno? Chi gestisce questi blog e da quale parte del mondo operano?

Uno dei siti più «cliccati», il «Syrian Revolution 2011», conta più di 200mila iscritti ed è la fonte principale da cui i giornalisti ricavano le notizie e i filmati Youtube per descrivere la situazione in Siria. La base di questo sito si trova a Stoccolma, in Svezia, ed è gestito da un certo Fida’ ad-Din as-Sayyid Isa, un membro del movimento integralista dei Fratelli musulmani. Nel profilo Facebook di questo cyberattivista «per la libertà» erano esposte alcune sue foto insieme ad altri membri del movimento e il logo della fratellanza, poi rimossi subito dopo una sua apparizione nella Tv inglese Bbc. E come ben si sa l’attivismo politico dei Fratelli musulmani non è certo dedito all’instaurazione della democrazia.

Aussama Mounajed è un altro cyberattivista che dispone di un sito internet anti Al-Assad. Diffonde a partire da Londra immagini e filmati di manifestanti di dubbia autenticità, ma che hanno contribuito a dare all’opinione pubblica internazionale l’idea di una rivolta massiccia e generale contro il regime. In seguito a questo suo «exploit» è diventato un assiduo frequentatore degli studi della Cnn. Lo stesso Mounajed era un produttore dell’emittente anti-governativa Barada Tv, con base a Londra e il cui finanziamento è incluso nei fondi statunitensi destinati all’opposizione siriana all’estero – vedi Confronti 6/2011), legata in gran parte agli islamisti siriani (http://www.washingtonpost. com/-syrian-opposition).

Un altro caso emblematico è quello del blog «Gay girl in Damascous», un sito in lingua inglese creato nel febbraio 2011 da una certa Amina. Il sito descriveva la vita difficile di una giovane lesbica costretta a vivere sotto la dittatura e a subire violenza e discriminazione. Amina è una donna, per di più è lesbica e, peggio ancora, vive in un paese musulmano. Di fronte ad una tale situazione è impossibile non mobilitarsi per difendere la ragazza soprattutto quando sul suo blog viene annunciato che è stata arrestata dai servizi segreti del regime. Tutto falso! Il gestore di questo sito era un uomo, un certo Tom McMaster, un cittadino americano di 40 anni che «studia» in Scozia. Ha partecipato ad un meeting dell’opposizione filo occidentale svoltosi di recente in Turchia – non certo in qualità di studente – nel quale si chiedeva l’intervento della Nato in Siria.

Il regime siriano non è di certo un regime democratico e la maggioranza dei siriani reclama con insistenza riforme e cambiamento politico. Ma quello che questi siti e tanti altri diffondono non ha nulla a che fare con la democrazia. È pura propaganda mediatica guidata ad arte da chi vuol mandare a casa Al-Assad e mettere al suo posto un proprio uomo di fiducia anche se fosse un integralista islamico, poco importa.

Una parte consistente dell’opposizione siriana promossa, finanziata e tecnologicamente equipaggiata dagli Usa e dai loro alleati è composta di integralisti religiosi per i quali la libertà e la democrazia sono delle eresie; per i quali il principio di uguaglianza tra uomo e donna è anti-islamico. Se Amina fosse davvero esistita, per lei, tra i Paesi arabi, la Siria di oggi sarebbe la meno insicura per viverci. I veri omofobi sono quei regimi guidati dall’Arabia Saudita – dove la donna non ha neanche il diritto di guidare la macchina – che oggi combattono a fianco degli Usa/Nato per imporre ai popoli arabi dei nuovi regimi e impedire loro di decidere autonomamente il proprio destino.

Nel nostro mondo globalizzato, i «new media» sono uno straordinario mezzo di comunicazione e di informazione. Tuttavia, essi vengono utilizzati dalle grandi potenze occidentali per fini geopolitici come nel caso della Libia e della Siria. Vengono usati come mezzi per manipolare l’opinione pubblica internazionale attraverso «l’uso strategico del falso», come scrive Germano Dottori nella rivista Limes (1/2011). Diffondere via internet notizie e immagini falsi serve per far cadere l’opinione pubblica nella «trappola delle emozioni». La tecnica della manipolazione dell’informazione «stringe fortemente – scrive Dottori – la libertà di scelta degli spettatori […]. Gli spazi di analisi razionale vengono compressi al massimo, in particolare sfruttando l’effetto emotivo della rapida successione delle immagini».

Questa analisi calza perfettamente con la situazione attuale del mondo arabo. I nuovi mezzi di comunicazione di massa, da potenziali strumenti di libertà, stanno diventando una macchina di propaganda che attizza odio e fomenta guerre civili.