Ora addio all’economia del petrolio. Intervista a Jeremy Rifkin

Paolo Mastrolilli
www.lastampa.it

Inutile riunire il G7, convocare vertici, o tagliare il debito con misure pensate solo per tranquillizzare i mercati: «Questa crisi era prevedibile, riguarda tutto il mondo occidentale, e finirà solo quando cambieremo il nostro paradigma economico. Dobbiamo passare dal modello della Seconda Rivoluzione industriale a quello della Terza, per smettere di vivere consumando le ricchezze del passato, e tornare a produrre liberando la nostra creatività».

Jeremy Rifkin, presidente della Foundation on Economic Trends, è appena tornato dalla California, dove ha visto esplodere la crisi degli ultimi giorni. È stanco, ma non vuole perdere l’occasione di rovesciare il tavolo del dibattito in corso. Secondo lui tanto gli Stati Uniti, quanto l’Europa, stanno sbagliando radicalmente l’approccio al problema, e quindi anche la ricerca delle soluzioni.

Perché il downgrade dell’America era scontato?
«Sapevamo che sarebbe arrivato da circa trent’anni. Perdonate se vi prendo un po’ di tempo, ma è necessario spiegare il perché. Verso la fine degli Anni Settanta è finita la Prima rivoluzione industriale, nel senso che abbiamo smesso di vivere grazie alla ricchezza che producevamo. Siamo entrati nella Seconda Rivoluzione industriale, in cui poco alla volta abbiamo bruciato tutti i nostri risparmi, e poi abbiamo cominciato a vivere di debito».

Ci può spiegare com’è successo?
«Durante gli Anni Ottanta si sono create le condizioni per una grande recessione legata all’edilizia: abbiamo costruito troppo, a prezzi non sostenibili. La crisi si è manifestata tra il 1989 e il 1991, con gli alti tassi di disoccupazione che hanno determinato la sconfitta di George Bush padre nelle presidenziali vinte da Bill Clinton. Invece di rimettere in ordine la casa e tornare ad un’economia capace di produrre, abbiamo vissuto bruciando i risparmi che avevamo accumulato nei decenni precedenti: basti pensare che nel 1991 il tasso di risparmio delle famiglie americane era al 9%, e nel 2001 era sceso a zero. A quel punto, invece di rimettere la testa a posto, abbiamo continuato a consumare, usando stavolta le carte di credito. Abbiamo accumulato enormi debiti personali, e anche questa fonte di benessere illusorio si è esaurita. Allora abbiamo deciso di usare le nostre case come fossero dei bancomat: abbiamo finanziato e rifinanziato dei mutui, per ricevere in cambio soldi da spendere. In questa maniera il nostro debito personale è arrivato alle stelle, senza più vie d’uscita per ridurlo o per trovare altre risorse».

Cosa c’entra questa storia con la crisi del debito sovrano?
«I governi si sono comportati grosso modo nella stessa maniera, puntando decisamente sul debito per finanziare la loro attività. Nel frattempo il costo delle materie prime, a partire dal petrolio, è aumentato in continuazione, per la nostra domanda e per quella sempre crescente dei Paesi emergenti, come la Cina e l’India. Se questo non bastava già a complicare la situazione, abbiamo interpretato la globalizzazione come una nuova opportunità di consumo, invece che di produzione: in sostanza per noi occidentali diventare global ha significato poter comprare beni a basso costo dai Paesi emergenti. Così si è creato un circolo vizioso, che non ci consentirà mai di uscire dalla crisi».

Perché?
«Ogni volta che c’è una recessione, facciamo sempre la stessa cosa: pompiamo un po’ di soldi sul mercato, e diciamo che vogliamo fare tagli alle spese. Ma la ripresa si alimenta spendendo, i Paesi emergenti ne approfittano aumentando la loro produzione, e questo fa salire i costi delle materie prime come il petrolio. Di conseguenza tutti i prezzi aumentano, compresi quelli del cibo, e quindi ci ritroviamo in breve in una nuova situazione insostenibile, tornando a fare affidamento sul debito per soddisfare le nostre esigenze. Così non ne verremo mai fuori, anche se il Congresso tagliasse davvero quattro trilioni di dollari al debito americano».

Forse è vero per gli Stati Uniti, ma cosa c’entra questo scenario con l’Europa?
«Il discorso è molto simile. Anche in Europa c’è una crisi legata al debito sovrano, che è esploso per le stesse ragioni dell’America: tutto il mondo occidentale segue ormai un modello economico che non è più sostenibile. Punto. Possiamo fare tutti i vertici dei G7 che vogliamo, alzare o abbassare i tassi, provare a ridurre il debito: fino a quando non cambieremo paradigma, non ne usciremo».

La crisi che sta minacciando l’Italia, però, è oggi: cosa dobbiamo fare?
«Premetto che la vostra situazione è grave, ma non è tanto diversa da quella degli Stati Uniti: voi avete un debito del 120% rispetto al Pil, noi ci stiamo avviando verso il 100%. Detto questo, siete in una condizione molto complicata, perché da una parte dovete varare misure di austerità allo scopo di placare i mercati; dall’altra invece dovreste spendere per stimolare la ripresa economica, che poi è necessaria anche per generare le risorse fiscali indispensabili a ridurre il debito. È un cane che si morde la coda».

Insisto: come ne veniamo fuori?
«Nell’immediato di certo dovete evitare il fallimento, con tutti gli aiuti che potete ricevere, ma poi bisogna cambiare radicalmente il modello economico».

Lei cosa suggerisce?
«Quando Angela Merkel divenne cancelliere tedesco, mi chiamò a Berlino per avere dei consigli. Io le chiesi come poteva pensare di far funzionare l’economia tedesca e tenere in ordine i conti, conciliando questi obiettivi con l’assistenza sociale offerta, le tendenze demografiche della Germania e i livelli di produttività. Lo stesso discorso vale per tutti i Paesi occidentali, con qualche complicazione in più per l’Italia. Da allora in poi la Merkel ha fatto degli aggiustamenti che hanno giovato alla Germania, ma ancora non basta».

In cosa consiste questo paradigma della Terza rivoluzione industriale, che lei consiglia di adottare?
«Primo, interrompere tutti questi comportamenti fallimentari di cui abbiamo parlato. Secondo, sviluppare un nuovo modello economico capace di generare milioni di posti di lavoro, liberando di nuovo la nostra creatività e capacità produttiva. Il primo passo da compiere è il mutamento delle regole del gioco, liberalizzando l’attività imprenditoriale. Ma quello ancora più importante è cambiare le nostre abitudini energetiche, voltando finalmente le spalle alla dipendenza dal petrolio».