Il cuore operaio della primavera araba di M.Zerbino

Marco Zerbino
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L’aria è irrespirabile, il caldo a dir poco soffocante, ma Mohammed continua a parlare e a gesticolare in maniera energica e concitata. Neanche le mosche, agguerritissime e organizzate in piccoli sciami, sembrano riuscire a distoglierlo dal comizio improvvisato che sta tenendo di fronte a una platea di circa settanta operai. Siamo ad Aga, vicino Mansura, nella regione del Delta del Nilo. Il contesto in cui si svolge la scena è da girone infernale: una discarica, di proprietà pubblica, dove cumuli di immondizia vengono ammassati sotto un sole impietoso senza alcun rispetto delle più elementari norme igieniche e di sicurezza.

Un lavoratore ci mostra, raccogliendolo da terra a mani nude, un mucchietto di rifiuti speciali che devono provenire da qualche ambulatorio medico della zona: siringhe, fiale e medicinali scaduti. «Qui si lavora otto ore al giorno, sette giorni su sette, alla separazione dei rifiuti e all’isolamento della componente organica, senza guanti né maschere di protezione. Non ci sono vacanze, né riposo settimanale», mi spiega Mohammed. «Diversi lavoratori sono entrati qui dentro nel pieno delle loro forze, mentre ora soffrono di problemi respiratori, ed è proprio per protestare contro queste condizioni disumane di sfruttamento che hanno deciso di entrare in sciopero quattro giorni fa».

Non appena gli è giunta voce della protesta che stava montando ad Aga, Mohammed, attivista del neonato Partito Democratico dei Lavoratori, si è precipitato sul posto. Colpisce vedere l’abilità e la semplicità con cui questo ragazzo di appena ventidue anni riesce in pochi minuti a guadagnarsi l’ascolto attento e partecipe degli operai, in sostanza proponendo loro un percorso di autorganizzazione basato sulla creazione di una cellula sindacale di fabbrica.

L’arrivo di Mohammed e del suo seguito risulta invece tutt’altro che gradito al management della discarica, alle dipendenze del comune di Aga. Un capetto dall’aria contrariata, la cui camicia perfettamente stirata e le cui scarpe di pelle lucida contrastano singolarmente con il degrado e la sporcizia che regnano intorno, ci segue con lo sguardo durante tutto il tempo della nostra visita, mi chiede ripetutamente il tesserino di giornalista e alla fine arriva persino ad accusare il mio giovane accompagnatore di essere un agente del Mossad, accusa accolta dal diretto interessato e dai lavoratori con una fragorosa risata. «Cercano di intimidirci con questi mezzucci», sostiene Mohammed «ma la verità è che sono in balia degli eventi. In tutto l’Egitto i lavoratori si mobilitano, ma al momento il potere della giunta militare non è sufficientemente solido per passare ad una repressione aperta».

In effetti è proprio così. La situazione che troviamo ad Aga riflette, su scala ridotta, quella che caratterizza un po’ tutto il paese all’indomani della rivoluzione del 25 gennaio. Da mesi (in realtà già da molto tempo prima della caduta di Mubarak) la classe operaia egiziana è in fermento e gli scioperi, tanto al Cairo quanto in altre città e province, non accennano a fermarsi, coinvolgendo le più diverse categorie di lavoratori sia del settore pubblico che di quello privato. È di questi giorni, ad esempio, la notizia che l’inizio del nuovo anno scolastico è a rischio a causa dello stato di agitazione permanente del corpo insegnante.

Una legge varata in marzo dal governo del primo ministro Essam Sharaf e voluta dallo Scaf, il Consiglio Supremo delle Forze Armate che ha assunto il potere lo scorso 11 febbraio, vieta gli scioperi e punisce con multe o con il carcere chi vi partecipa, ma di fatto non è riuscita ad arrestare l’onda delle mobilitazioni in corso. Oltre ad incrociare le braccia e a manifestare chiedendo un salario minimo di 1.200 pound (circa 150 euro) mensili, i lavoratori egiziani non perdono occasione per contestare duramente il vecchio sindacato ufficiale, l’Etuf (Egyptian Trade Union Federation), i cui dirigenti e funzionari corrotti hanno svolto per anni il ruolo di emissari del regime all’interno delle varie categorie e nei posti di lavoro.

La pressione della piazza ha addirittura indotto il governo Sharaf, all’inizio di agosto, ad azzerare i vertici dell’organizzazione. Parallelamente al processo di contestazione della vecchia centrale sindacale, tuttavia, diverse categorie o singoli consigli di fabbrica hanno dato vita a nuove organizzazioni indipendenti. Sull’esempio pionieristico dei tax collectors, i lavoratori del fisco che per primi, già a fine 2008, avevano costituito un loro sindacato formalmente indipendente dall’Etuf, anche altri lavoratori hanno scelto di associarsi per far valere i propri diritti, in qualche caso riuscendo a mettere in piedi federazioni di livello nazionale.

I nuovi sindacati hanno poi cercato, nei giorni della rivoluzione, una prima forma di coordinamento stabile dando vita in funzione anti-Etuf ad una nuova confederazione, la Federation of Egyptian Trade Unions, fondata a piazza Tahrir il 30 gennaio 2011. Ora il dibattito, tanto all’interno dei sindacati indipendenti quanto al loro esterno, tende a concentrarsi sul futuro dell’Etuf e su un suo eventuale processo di rinnovamento e di riavvicinamento alla base dopo decenni di corruzione e di burocratizzazione.

Circa quest’ultima possibilità, Kamal el-Fayoumi, da più di vent’anni dipendente della Misr Spinning and Weaving Company, un grande complesso industriale tessile situato nella città di Mahalla el-Kubra, si mostra decisamente scettico. «L’Etuf non era un sindacato, ma una vera e propria mafia, arricchitasi negli anni sulle spalle dei lavoratori. Molti operai, anche qui a Mahalla, purtroppo faticano ancora oggi a capire che la promessa dello Scaf di trasformare la vecchia confederazione in un sindacato degno di questo nome è solo uno specchietto per le allodole».

Di lotte e di rivendicazioni sindacali Fayoumi se ne intende. Schivo e riservato quando lo incontriamo di persona in un caffè poco prima che entri in fabbrica per il turno di notte, questo «eroe della classe operaia», come lo ha definito il noto blogger e attivista egiziano Hossam el-Hamalawy, ha giocato un ruolo di primo piano nell’organizzazione degli imponenti scioperi del settore tessile che, a partire dal 2006, hanno a più riprese scosso le varie fabbriche della zona del Delta. È stato proprio a Mahalla, e in particolare alla Misr, la prima grande industria ad essere nazionalizzata da Nasser nel 1960, che i lavoratori egiziani hanno ricominciato ad alzare la voce dopo diversi anni di calma apparente, segnati dalla peggiore repressione e dal varo dei programmi di «aggiustamento strutturale» sponsorizzati dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale.

«Gli scioperi del 2006-2008», sostiene Fayoumi «in particolare l’insurrezione dell’intera città di Mahalla il 6 aprile 2008 (in seguito all’intervento delle forze di sicurezza del regime, conclusosi con l’arresto dello stesso Fayoumi e di altri leader operai, per impedire un nuovo sciopero, ndr), sono stati una specie di “prova generale” della rivoluzione del 2011, una sorta di “palestra” attraverso la quale molti lavoratori hanno capito in che modo la loro condizione materiale era legata agli equilibri politici generali. Vedere Mubarak in gabbia alla televisione, durante la prima udienza del processo, lo scorso 3 agosto, è stata per molti di loro un’enorme soddisfazione, che li ha motivati a proseguire nella lotta».

Eppure a Mahalla, i cui lavoratori sono stati in prima fila negli anni passati ogni volta che c’era da contestare i vertici locali e nazionali dell’Etuf, un vero e proprio sindacato indipendente non è stato ancora fondato. «I nuovi sindacati nascono più facilmente in piccoli posti di lavoro. Non è facile chiarire a diverse migliaia di operai qual è, ancora oggi, il vero ruolo dell’Etuf. Molti di loro sperano che, con le elezioni interne, potranno avere maggiore voce in capitolo», spiega Fayoumi. «In realtà, c’è poco da illudersi. I militari sono stati per decenni il puntello principale del passato regime: per quale motivo ora dovrebbero preoccuparsi di dotare i lavoratori di uno strumento efficace per organizzarsi e lottare?».

Finita la nostra intervista, Fayoumi mi invita a seguirlo fino all’entrata della fabbrica. Mentre percorriamo velocemente a piedi la strada asfaltata che attraversa la cittadella industriale, risuona la sirena del cambio turno e, un po’ alla spicciolata, cominciano a venirci incontro gli operai che, finite le proprie otto ore, camminano in direzione opposta alla nostra. Chi a piedi, chi in bicicletta, qualcuno in sella a una moto di fabbricazione cinese. Molte sono donne, per lo più velate. Arrivati a destinazione, «Sheikh Kamal», come viene affettuosamente chiamato dai suoi compagni di partito del Pdl, mi saluta con una stretta di mano sotto lo sguardo vigile della fila di carri armati schierati di fronte all’ingresso dello stabilimento. A qualcuno, non c’è dubbio, i ventimila dipendenti della Misr fanno ancora paura.