Tar del Lazio: L’irc non è equiparabile agli altri insegnamenti

Adista n. 67/2011

L’insegnamento della religione cattolica non può considerarsi pienamente equiparato agli altri insegnamenti e dunque non può essere considerato valido per accedere ai concorsi riservati ai precari della scuola. Con queste motivazioni il Tribunale regionale amministravo del Lazio ha respinto, con sentenza depositata il 28 luglio scorso, il ricorso presentato nel 2000 da un’insegnante di religione che era stata esclusa dalla sessione riservata di esami finalizzata al conseguimento dell’abilitazione all’insegnamento nella scuola materna, nella scuola elementare e negli istituti e scuole di istruzione secondaria ed artistica, per mancanza del requisito di servizio: i servizi prestati nell’insegnamento della religione cattolica o delle attività alternative all’insegnamento della religione cattolica, infatti, secondo i giudici del Tar non sono validi, «in quanto non prestati su posti di ruolo né relativi a classi di concorso», così come stabilito dall’Ordinanza Ministeriale che aveva indetto la sessione (O. M. n. 153/99) in ottemperanza alla legge n. 124/99.

Una questione, quella oggetto della sentenza del Tribunale amministrativo, già affrontata dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 343/99) che aveva ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 3 e 11 della legge n. 417 del 1989, nella parte in cui tale legge aveva escluso dai concorsi riservati i docenti di religione. A determinare una tale valutazione, ricorda il Tar, l’«assoluta peculiarità di posizione di tali insegnanti, i cui profili di qualificazione professionale sono determinati dall’autorità scolastica, d’intesa con la Conferenza episcopale italiana».

Il Tar nella sua sentenza ritiene che la Corte Costituzionale avrebbe assunto una decisione analoga anche nel caso della docente di religione: la pregressa attività didattica sarebbe alla base di modalità agevolate di accesso stabile nei ruoli docenti, «solo ove tale attività fosse stata svolta secondo regole dettate dallo Stato, nonché in corrispondenza di materie, individuate dallo Stato stesso come parte del processo formativo della pubblica istruzione».

«L’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, viceversa, corrisponde non a scelte squisitamente didattiche, ma ad un impegno assunto dallo Stato rispetto ad altro Ente sovrano, al cui magistero resta direttamente connessa una dottrina, il cui apprendimento è comunque facoltativo, ritenuta attinente al patrimonio storico e culturale del popolo italiano, con modalità di selezione del personale docente del tutto peculiari, dovendo l’idoneità del medesimo essere riconosciuta dalla competente autorità ecclesiastica, non estranea nemmeno alla scelta dei testi di apprendimento e ad altre modalità organizzative, per finalità di approfondimento e diffusione dell’ortodossia cattolica».

«L’elaborazione giurisprudenziale – conclude quindi la sentenza – è coralmente orientata nel ritenere che l’insegnamento della religione cattolica non può considerarsi pienamente equiparato agli altri insegnamenti rivestendo, i soggetti abilitati ad impartirlo, una peculiare posizione di status in ragione dei differenziati profili di abilitazione professionale richiesti, delle distinte modalità di nomina e di accesso ai compiti didattici, nonché della specificità dell’oggetto dell’insegnamento».