La rivoluzione postconciliare spiegata ai non addetti ai lavori teologici – Il nuovo libro di E.Rindone

Valerio Gigante
Adista, n°78/2011

. Una «rivoluzione» («qualunque altro termine – scrive l’autore nella sua prefazione – sarebbe inadeguato ad esprimere la realtà dei fatti») «che si è verificata nell’ambito del pensiero cattolico nei decenni che precedono e seguono il grande evento del Concilio Vaticano II, e che, nel corso del pontificato di Giovanni Paolo II come di quello di Benedetto XVI, si fa di tutto per dimenticare».

Una rivoluzione che tocca molti aspetti della visione religiosa tradizionale, ma che «trova il suo centro focale nella nuova comprensione della figura di Gesù di Nazareth, figura in cui ancora milioni di uomini e di donne trovano ispirazione per la loro vita». Una rivoluzione, quindi, che è necessario continuare a raccontare, fuori però tanto dai vaghi resoconti giornalistici quanto dallo specialismo di testi di teologia che non possono, per definizione, raggiungere un pubblico che non sia di esperti, cultori o appassionati della materia.

A raccontare con rigore e semplicità la «rivoluzione» postconciliare ci ha provato Elio Rindone, già docente di Storia e Filosofia, studioso di ermeneutica biblica e di cristologia, nel suo ultimo libro “Chi è Gesù di Nazareth? Idee nuove dopo il Concilio”, (ilmiolibro, Roma 2011, pp. 238, euro 15, ma acquistabile sul sito www.ilmiolibro.it a 10 euro), con il quale intende costituire un ponte verso chi, con fede matura, desidera prendere congedo dalle teologie dogmatiche classiche, senza però nulla perdere del vitalissimo messaggio evangelico.

Del resto, come spiega l’autore citando il teologo Karl Rahner, «quelle che sono crollate non sono le verità cristiane, ma le sovrapposizioni storiche. Al contrario, il nucleo vitale del cristianesimo non può crollare». Spazzare via le sovrastrutture e le incrostazioni dei secoli passati è funzionale quindi a svelare e liberare il nucleo essenziale del messaggio e della testimonianza di Gesù. Per questo gran parte del libro si occupa di confutare le tesi della vecchia dogmatica, per arrivare a dimostrare che la cristologia calcedonese delle due nature in Gesù non è oggi più sostenibile.

Rindone si serve di una amplissima bibliografia, che trascura però alcuni importanti esponenti contemporanei della teologia, della cristologia e della storia del cristianesimo, come Tamayo, Vigil, Gianotto, Hick, Pagola, Knitter, Lenaers, Johnson, Del Pozo. In ogni caso, il libro mostra per intero la contraddizione di una cristologia che, pur non stando più in piedi, resta tuttora l’unico riferimento per la dottrina ufficiale ed il catechismo della Chiesa cattolica, oltre che per la liturgia e i linguaggi della predicazione e della divulgazione.

Tra i capisaldi della cristologia classica affrontati da Rindone, il concetto di “messia”: «Una cosa – spiega riferendosi alle Scritture ed agli studi biblici – è dire che Gesù si è dichiarato messia e un’altra, ben diversa, è dire che i suoi discepoli hanno espresso la loro fede e la loro ammirazione per il maestro utilizzando le categorie religiose di cui disponevano». Se la seconda affermazione è certa, la prima è assolutamente indimostrabile.

L’autore passa poi alla “natura” di Gesù e ad espressioni, come “Padre” e “Figlio”, usate nei Vangeli per rappresentare la relazione tra Dio e Gesù: «Allo stato attuale dell’indagine cristologica – commenta Rindone – si deve riconoscere che, se è possibile che Gesù abbia usato qualcuna delle formule che i Vangeli pongono sulle sue labbra, queste non avevano il significato che è stato loro tradizionalmente attribuito e non consentivano, quindi, di pronunciarsi, come si è fatto per secoli, sulla natura del Cristo».

Anche la frequente espressione neotestamentaria «Figlio di Dio» (che peraltro Gesù non utilizza mai per definire se stesso), spiega l’autore sulla scia del teologo Herbert Haag, nei Vangeli non viene mai usata, «nel suo senso letterale, quasi indicasse la natura divina dei soggetti cui viene applicata. Essa serve piuttosto a mettere in luce l’appartenenza a Dio, la fedeltà, l’intimità esistente tra Dio e il popolo eletto o i membri di questo» (peraltro, come ricorda Rindone, in molti testi, i rappresentanti della dinastia davidica sono designati proprio col titolo di “figlio di Dio”).

E ancora, la spinosa questione dei miracoli: «Gli antichi parlano di “miracolo” tutte le volte che in una situazione o in un gesto credono di sperimentare in maniera particolarmente intensa la presenza della divinità». «Gli esegeti contemporanei, quindi, sono orientati a riconoscere che Gesù ha dovuto compiere almeno qualche gesto straordinario perché potesse poi essere presentato dai discepoli come un grande taumaturgo ma, per quanto riguarda la storicità dei singoli miracoli narrati dai Vangeli, essi ritengono che non si possa raggiungere alcuna certezza».

Infine, il tema della resurrezione: «Non bisogna dimenticare – spiega Rindone – che il termine non ricorre in testi di carattere storico, ma in schemi di predicazione, in professioni di fede, in inni liturgici… e quindi sempre in un contesto in cui l’accento è posto, più che sulla descrizione dei fatti accaduti, sulla verità religiosa che si vuol testimoniare». È allora evidente che, se la risurrezione non può essere provata, ma è oggetto di fede, essa non può essere a sua volta prova di un altro preteso dato di fede, cioè della natura divina del Cristo.