Cattolici in politica: come superare il berlusconismo

Giacomo Costa S.I., Direttore di «Aggiornamenti Sociali»
www.aggiornamentisociali.it

Di fronte alla situazione politica italiana non c’è più spazio per la rabbia: non a caso le manifestazioni di protesta prendono di mira altri obiettivi. Restano solo sofferenza e delusione, anche fra i sostenitori di Berlusconi o in ambienti che non possono essere considerati pregiudizialmente ostili al premier, come Confindustria o il quotidiano Avvenire («Tutto a posto e niente in ordine», dichiara il direttore Marco Tarquinio nell’editoriale che commenta il voto di fiducia del 14 ottobre scorso). Così, pur con Berlusconi ancora a Palazzo Chigi – almeno nel momento in cui scriviamo – siamo ormai entrati nel postberlusconismo, come certifica autorevolmente la recente scelta dello stesso PDL di cancellare dal proprio simbolo il nome del leader.
Attardarsi a parlare ancora di Silvio Berlusconi è, a questo punto, poco utile. Tante pagine, forse troppe, sono state dedicate a lui e agli effetti nefasti del berlusconismo di destra, da cui la sinistra non è immune. Nemmeno può bastare rimanere fatalisticamente in attesa degli eventi, aspettando la fine dell’agonia del Governo. Anche se siamo ben lontani dall’avere all’orizzonte una prospettiva, né tantomeno un accordo sul modo in cui voltare pagina, non è troppo presto per porre i fondamenti di una nuova fase della vita del Paese. Quello che serve è il coraggio di aprire la finestra, come il card. Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), invita a fare: «C’è da purificare l’aria, perché le nuove generazioni – crescendo – non restino avvelenate. Bisogna reagire con freschezza di visione e nuovo entusiasmo, senza il quale è difficile rilanciare qualunque crescita, perseguire qualunque sviluppo» (Prolusione all’apertura del Consiglio Episcopale Permanente, 26 settembre 2011).
Negli ultimi due mesi questa situazione ha stimolato i politici, la stampa, l’associazionismo cattolico e la stessa CEI a una vastissima produzione di riflessioni sull’apporto che i cattolici italiani possono dare al Paese e sulle forme della loro presenza politica. Se è chiaro, come ricorda Andrea Riccardi, storico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio, che «In un’Italia dove tanti attori debbono prendersi le loro responsabilità, i cattolici laici hanno storicamente una partita da giocare. È un investimento di un patrimonio di energie e di cultura sul futuro» («La nuova partita dei cattolici laici», in Corriere della Sera, 27 settembre 2011), il campo rimane aperto a varie prospettive. Cerchiamo di riprendere alcuni spunti di un dibattito che a volte sembra incagliarsi e avvilupparsi su di sé.

1. «I cattolici vogliono esserci»

Alcuni presupposti, almeno nelle dichiarazioni ufficiali, accomunano cattolici di destra e di sinistra, gerarchia e fedeli laici: innanzitutto la necessità di guardare al futuro «senza nostalgie». Tutti si dichiarano convinti che non sia opportuno cercare di riprodurre l’esperienza della Democrazia Cristiana, il partito che portava avanti una mediazione privilegiata tra fede e politica, garantita da un’approvazione sostanziale da parte della gerarchia, anche se non sempre scontata. È un mantra continuamente ripetuto: quella formula nel contesto di oggi non funziona più. A suggellarne la fine hanno pesato gli interventi di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, rispettivamente ai Convegni ecclesiali di Palermo (1995) e di Verona (2006), circa la legittimità del pluralismo dei cattolici in politica. Di conseguenza, la presenza dei cattolici è destinata ad articolarsi in una varietà di posizioni, culture e modalità di impegno, nessuna delle quali può vantare un’esclusiva o pretendersi rappresentante ufficiale o ufficiosa della Chiesa.
Questo punto di partenza non impedisce però che, rispetto allo stile dell’azione politica dei cattolici, si ripresenti una ennesima versione della tensione tra «presenza» o «testimonianza» da una parte e «mediazione» o «dialogo», dall’altra. Una tensione che ha attraversato la Chiesa italiana sin dal Vaticano II e che la fine della DC – che svolgeva un lavoro di mediazione attraverso un partito identitario – ha acuito: oltre a essere uno degli elementi di contrapposizione tra gli schieramenti (cattolici conservatori e moderati da una parte, cattolici riformisti e democratici dall’altra), «attraversa» i cristiani di ogni parte politica. Non sarà il caso di uscire una buona volta da questa impasse? O non sarà questo uno dei punti di legittimo pluralismo? Ma andiamo con ordine.

   a) Esserci per contare

Una categoria che ritorna nel dibattito è quella del «contare», dell’essere rilevanti in quanto cattolici, ritrovando unità e visibilità, a partire dalla presa di coscienza che il ruolo attualmente giocato dai cattolici italiani all’interno delle diverse forze politiche in cui militano è oggettivamente ridotto e poco efficace per la tutela dei valori portanti della dottrina sociale della Chiesa.
Questa prospettiva viene articolata innanzitutto su un piano prepartitico: «È pensabile un “nuovo modello di sviluppo” che non abbia a suo motore la politica? È forse pensabile che rispetto a tale politica risultino latitanti, facilmente emarginabili, irrilevanti, non tanto singole personalità cattoliche, quanto i cattolici italiani come presenza vitale e immediatamente riconoscibile, perché efficacemente organizzata?» si chiedeva, dando per scontate le risposte, il rettore dell’Università Cattolica, Lorenzo Ornaghi (Avvenire, 24 luglio 2011). Proprio a lui è stata affidata la prima relazione del Seminario nazionale «La Buona politica per il Bene comune», promosso a Todi il 17 ottobre [poco dopo la stesura di queste pagine n.d.r.] dal Forum delle persone e delle associazioni di ispirazione cattolica nel mondo del lavoro, di cui fanno parte CISL, Movimento cristiano lavoratori, ACLI, Confcooperative, Confartigianato, Compagnia delle Opere e Coldiretti, e che già il 19 luglio scorso aveva diffuso un Manifesto con lo stesso titolo del Seminario. Un incontro volto a promuovere una specie di lobby trasversale di associazioni cristiane che punta a incidere sulle scelte politiche, tenendo come riferimento i valori cristiani.
Non manca però chi, pur senza voler rifare la DC, pensa seriamente a un partito «che raccolga il protagonismo etico dei cattolici e il protagonismo sociale dei mondi vitali […] Quando finirà il berlusconismo bisognerà dare a questa area sociale moderata e a questo protagonismo dei mondi vitali un riferimento politico» (BUTTIGLIONE R., intervista ad affaritaliani.it, 8 agosto 2011). Si argomenta poi che «un largo partito a forte identità cattolica recupererebbe la politica all’autonomia ed esonererebbe l’episcopato dall’interventismo» (PARADISI R., «Abbiate fede, stiamo tornando», in Liberal, 22 settembre 2011).
Sono chiari i rischi impliciti in questa posizione, a partire da quello di contrapporre i cattolici al resto della società, fomentando la percezione di essere un «fortino sotto assedio» e una ripresa della mai sopita spirale tra clericalismo e anticlericalismo. Un secondo rischio è quello di identificare il cattolicesimo con una sola e precisa «parte», quando sappiamo che il Vangelo è più grande di qualunque umana realizzazione che ad esso si ispiri, anche in campo politico. Queste ambiguità sono aumentate dall’utilizzo improprio di termini quali «valori non negoziabili», promovendo (parte de)i quali si pretende il monopolio della difesa dell’identità cristiana. Infine, resta il pericolo della strumentalizzazione del voto dei cattolici, già vissuta nell’epoca berlusconiana: l’apparire di un qualche nuovo «ricco mecenate» disposto a comprare a basso costo «truppe cattoliche», in cambio di un appoggio alla difesa di alcuni valori, magari più proclamati che praticati. Resta peraltro fondato il timore che la «diaspora» finisca per rendere impercettibile la forza del Vangelo a livello sociale e politico.

   b) Esserci per mediare

Altre prospettive – in cui come Rivista ci siamo sempre sentiti e continuiamo a sentirci più a nostro agio – preferiscono pensare i cattolici impegnati, insieme a tutti i «riformisti» di diversa provenienza, a superare le etichette per generare una nuova cultura politica, fondata su valori comuni condivisi, e realizzare l’incontro e l’aggregazione di tutti gli uomini di buona volontà nel rispetto reciproco. In questa prospettiva l’agire politico sulla base della fede si traduce in primis in un lavoro di discernimento e mediazione affidato alla responsabilità dei credenti: fedeli al principio di laicità e alla distinzione tra l’assolutezza della fede e la relatività della politica, essi si impegnano nella ricerca del bene comune, nella consapevolezza che esso è quel bene politicamente possibile, condivisibile da tutti e da ciascuno, e sul piano operativo non coincide necessariamente con il bene dei cattolici in quanto «parte», anche dove fossero maggioranza. Il punto di partenza non è quindi la riaffermazione astratta dei principi, ma l’incontro all’interno dei problemi sociali, culturali e morali del Paese, nella convinzione che il confronto onesto consenta a tutti – credenti, non credenti e diversamente credenti – di progredire insieme verso assetti sempre più giusti.
Anche questa prospettiva ha dei limiti, riconducibili al rischio che un eccesso di mediazione la riduca a compromesso e abbassamento delle esigenze etiche, o a quello che un insufficiente discernimento conduca ad avallare scelte e norme che, in radice, sono ispirate a visioni inconciliabili con la fede e l’antropologia cristiana, dando magari un significato diverso a termini «importanti» come giustizia o solidarietà. La mediazione è uno stile esigente: richiede preparazione e competenza in campi sempre più delicati, fermezza ed equilibrio, e capacità di comunicare la proprie convinzioni in maniera laica. Le difficoltà in cui è incorso il progetto Ulivo-Partito Democratico ne sono testimoni.

2. Una parola che libera

La tensione tra contare e mediare divide da tempo la Chiesa italiana, ed è legittimo il dubbio se non sia una secca in cui ci si incaglia troppo spesso. Uno spunto per uscirne viene dalle parole che Benedetto XVI ha pronunciato il 22 settembre scorso al Parlamento federale tedesco in un contesto a prima vista lontano dalla nostra questione.
Il papa ricorda come gli episodi di secolarizzazione, nel senso di espropriazione di beni o cancellazione di privilegi ecclesiastici, abbiano avuto immancabilmente l’effetto di una profonda liberazione della Chiesa, che «si spoglia, per così dire, della sua ricchezza terrena e torna ad abbracciare pienamente la sua povertà terrena»; in questo modo, «Liberata dai fardelli e dai privilegi materiali e politici, la Chiesa può dedicarsi meglio e in modo veramente cristiano al mondo intero, può essere veramente aperta al mondo. Può nuovamente vivere con più scioltezza la sua chiamata al ministero dell’adorazione di Dio e al servizio del prossimo». Gli obiettivi e i mezzi dell’azione della Chiesa risultano più chiari: essa «si apre al mondo, non per ottenere l’adesione degli uomini per un’istituzione con le proprie pretese di potere, bensì per farli rientrare in se stessi e così condurli a Colui del quale ogni persona può dire con Agostino: “Egli è più intimo a me di me stesso”».
Nel concreto – e queste parole pronunciate in tedesco valgono anche per il nostro oggi italiano -, «Non si tratta qui di trovare una nuova tattica per rilanciare la Chiesa. Si tratta piuttosto di deporre tutto ciò che è soltanto tattica e di cercare la piena sincerità, che non trascura né reprime alcunché della verità del nostro oggi, ma realizza la fede pienamente nell’oggi vivendola, appunto, totalmente nella sobrietà dell’oggi, portandola alla sua piena identità, togliendo da essa ciò che solo apparentemente è fede, ma in verità è convenzione ed abitudine». Parole profetiche, che riaprono prospettive, ci spingono a respirare più profondamente e costituiscono un potente antidoto al retaggio del tempo della «cristianità», della conquista, o anche solo della strategia per cui il fine giustifica i mezzi, che nella mente di molti incide pesantemente sul modo di concepire il posto dei cristiani nel mondo e, specificamente, in politica.

3. Dalla liberazione alla libertà

Alla luce di queste parole, il «dilemma» tra promuovere un organismo prepartitico, oppure un vero e proprio partito, oppure ancora rimanere nella dispersione delle varie forze politiche esistenti, appare quanto meno relativo, se non addirittura una domanda mal posta o secondaria. In questa ora, ciò a cui tutti i cattolici sono chiamati è piuttosto la testimonianza di un rapporto con il potere radicalmente diverso da quello mondano. È questo il principale contributo che possiamo dare, di cui c’è grande bisogno: nonostante non manchi chi, a destra e a sinistra, ci ha seriamente e onestamente provato, il clima generale di «antipolitica» dimostra quanto sia grande il fallimento di chi in questi anni ha gestito un potere. E – per quanto amaro, bisogna riconoscerlo – questo investe anche le strutture ecclesiastiche, che hanno intaccato il patrimonio della propria credibilità. Qualunque aggregazione o forma si proponga di rinnovare l’impegno dei cattolici in politica non potrà che avere come segno distintivo un diverso rapporto con il potere. Se una concezione del potere come strumento al servizio di sé e del potente come di qualcuno posto al di sopra delle regole, legittimato a mutarle a proprio uso e consumo, è la cifra che più di altre racchiude il fenomeno del berlusconismo, allora un cambio di passo su questo punto assumerà una valenza profetica, tanto più preziosa – e attraente – quanto più in questo momento sono evidenti i guasti profondi di una patologia del rapporto con il potere.
Non è facile: la tentazione di affermarsi con la forza è sempre in agguato, accreditandosi come l’unica strada per incidere socialmente e politicamente e legittimando quel sottofondo costantiniano di alleanza tra trono e altare che ci ha accompagnato anche in anni recenti. Ma è proprio vero, o ci appare tale perché non siamo altro che «gente di poca fede» (Matteo 8, 27)? Rinunciare a percorrere questa strada porta con sé il rischio dell’insignificanza e della marginalità politica, ma anche l’opportunità di riuscire effettivamente a comunicare la forza trasformatrice del Vangelo e di essere molto più credibili e autorevoli come politici. E questo è più importante dell’eventuale formazione di una nuova compagine: se ci sono credibilità e autorevolezza, le regole democratiche faranno il resto, affidando a chi è più convincente il compito di governare.
Il percorso di liberazione profeticamente evocato da Benedetto XVI conduce al coraggio di una ritrovata libertà, con cui affrontare i problemi drammatici del nostro oggi a partire dalle risorse esistenti. È questa libertà che conduce a individuare poche priorità centrali e simboliche: una equità sociale, sostenuta dal pegno simbolico di tagli drastici agli sperperi della politica, e incentivi alla crescita che mettano i giovani al centro dell’attenzione, riconoscendo che quando ci sono sacrifici da fare – e in Italia oggi non ce ne sono pochi – è giusto e doveroso che dia di più chi ha di più, a prescindere dalla sua affiliazione a qualsivoglia potentato o gruppo di interesse.
La stessa libertà permetterà di mettere davvero in gioco una risorsa potente, (ri)apparsa sulla scena mondiale negli ultimi mesi: quella dei movimenti di base o popolari, che, dalle «primavere» arabe agli «indignati» occidentali, stanno riproponendo forme di partecipazione e di preoccupazione per la cosa pubblica impensabili solo qualche anno fa, e riportando alla ribalta parole desuete come «beni comuni». Certo si tratta di fenomeni magmatici, non scevri da ambiguità, esposti al rischio di strumentalizzazioni e bisognosi di crescere nella capacità di elaborare proposte propriamente politiche. Ma le istanze che portano avanti sono tutt’altro che banali, nella direzione di quel ripensamento complessivo del senso delle pratiche e delle istituzioni economiche che da più parti viene invocato come indispensabile per uscire da una crisi che ha investito i fondamenti delle nostre società globalizzate di mercato. In Italia almeno, questi movimenti vedono anche la presenza di porzioni significative del mondo cattolico: basti pensare alla mobilitazione intorno al tema dell’acqua in occasione dei referendum dello scorso giugno. Una politica nuova non potrà non essere contrassegnata dalla disponibilità a dare autenticamente ascolto a questi movimenti, rinunciando alla ricorrente pratica di «arruolarli» a buon mercato tra le fila della propria parte e traendone piuttosto linfa nuova, in termini di idee e di persone.
È questo un impegno che non riguarda solo i politici, cattolici e non. L’uscita dal berlusconismo come concezione del potere si gioca a tutti i livelli, senza fermarsi a chi riveste incarichi di responsabilità pubblica. Accenniamo qui solo a un campo dove questo appare con particolare evidenza: quello della corruzione e dell’evasione fiscale, fenomeni nei quali è manifesta la pretesa di porsi al di sopra di regole che tutti sono chiamati a rispettare. Nessuno può legittimamente tirarsene fuori, né azzardare la giustificazione banale del «non sono il solo», «perché gli altri sì e io no».
L’autentico rinnovamento della politica e della società italiana passa inesorabilmente da questa strada e da un modo di affrontare questi nodi diverso dalla mentalità attualmente dominante: è questa la sfida di fronte alla quale i cattolici italiani, direttamente impegnati in politica o meno che siano, sono chiamati a «esserci», e a esserci in prima fila.