“…siamo un po’ come l’acqua, ci adattiamo ai contenitori” di A.Babini

Sperando che la cosa possa farvi piacere o possa esservi utile, vi mando una intervista fatta qualche tempo fa a Enzo Mazzi. La forma è quello che è, diciamo ancora a livello di sbobinatura, tanto è vero che non è a tutt’oggi mai stata pubblicata. ma credo renda comunque l’idea. Fatene, se volete, l’uso che meglio credete.

Andrea

Intervista a Enzo Mazzi – Firenze, 25/01/2009
Andrea Babini – Gianni Tadolini

ENZO MAZZI (EM) “Non vi rallegrate perché voi dominate i demoni, rallegratevi perché i vostri nomi sono scritti nei Cieli”, cioè non rallegrate perché riuscite a raggiungere obiettivi di potere, rallegratevi perché la vostra vita, la vostra realtà è scritta nei cieli che avete dentro, negli ideali, e via di seguito. Questa è la nostra vita: non puntiamo a obiettivi, ma a vivere, a intrecciare rapporti, anche alla felicità, diciamo genericamente, ma insomma finché viene, quel che viene insomma.

ANDREA (AB) io partirei chiedendoti di fare una storia , un confronto fra la Comunità di Base di una trentina di anni fa, degli anni ’70, e la sua storia fino ad oggi. Non solo quella dell’Isolotto, che chiaramente è una delle più importanti, ma della Comunità di Base in generale, dell’idea della Comunità di Base fino ad oggi.

EM noi siamo un po’ come l’acqua, ci adattiamo ai contenitori. Ai contenitori ci adattiamo. Abbiamo degli elementi di continuità, come l’acqua è sempre acqua, sia che stia in una bottiglia sia che stia in un fiasco, in una damigiana, in un fiume, è sempre acqua. Quindi abbiamo molti elementi di continuità, ma abbiamo anche elementi di continua trasformazione. Non siamo gli stessi di trenta o di quarant’anni fa, in questo senso. Perché la realtà – i contenitori- la realtà della vita, la realtà della società, la Chiesa anche che è profondamente trasformata, quindi noi via via ci adattiamo alle situazioni, alle realtà che viviamo. Con un altro elemento, anche questo di continuità e discontinuità: con un profondo senso della precarietà e della finitezza. Cioè, mi spiego: uno degli elementi fondamentali delle Comunità di Base è non creare altre strutture, non creare un’altra Chiesa, non creare un altro gruppo sociale, culturale, politico; non creare qualche cosa che si autoalimenta, che si autoriproduce, ma vivere la vita –appunto come l’acqua- adattandosi alle situazioni. Per esempio, adesso abbiamo fatto a Formia un collegamento di una cinquantina di gruppi, di Comunità, l’abbiamo fatto proprio in questi giorni, e uno degli interrogativi che ci siamo posti è quello del rapporto con i giovani: ci sta sempre davanti, ci sta sempre nel cuore. C’è qualcuno che propende di più a valorizzare il raggruppamento dei giovani sulla base dell’appartenenza, come figli degli appartenenti alle Comunità di Base, sulla base dell’appartenenza alle Comunità di Base. Altri –e fra questi anche io- altre Comunità, altri gruppi, altre persone, invece hanno più il senso del non “intruppare” i giovani, non caratterizzarli per l’appartenenza, lasciarli liberi, come le frecce scoccate dall’arco di Gibran. E lasciare che facciano il loro percorso, e trovino loro, nella loro coscienza, nella realtà concreta, trovino le forme per impegnarsi e per aggregarsi. C’è un dibattito, c’è una ricerca, in genere poi si trova la via mediana, si fa sempre un po’ e un po’ insomma. Anche per dire che non puntiamo a riprodurci, non puntiamo a trasmette ai giovani i contenitori: a trasmettere semmai il contenuto, ecco questo sì. A trasmettere messaggi di liberazione, a trasmettere messaggi di speranza, di coerenza. Per esempio noi siamo una Comunità che vive da cinquant’anni, e quindi molti di noi sono partiti a vent’anni a trent’anni, e ora si ritrovano a cinquanta a sessanta a settanta, molti malati magari, e come lo viviamo questo? Cosa facciamo? Mettiamo in atto delle strategie, delle pratiche per durare, oppure accettiamo di vivere questa situazione di precarietà fino a che ci è consentito? Noi abbiamo scelto di vivere questa situazione di precarietà finché ci è consentito senza trovare soluzioni di eternizzazione di quello che siamo. Questo è un po’ difficile da capire, perché è un po’ controcorrente, non è consueto. Accettazione della finitezza: noi siamo finiti non soltanto perché si muore individualmente, ma anche perché muoiono le cose che facciamo, a meno che non facciamo di tutto perché non muoiano: allora creiamo le piramidi, creiamo le cattedrali, allora facciamo le grandi costruzioni fisiche, ma anche le cose meno fisiche e più culturali, sociali. Costruiamo delle cose che ci consentano di far vivere noi stessi. È questo il nostro obiettivo: ci sono motivi storici, motivi contingenti e anche motivi profondi in questa ricerca. Cosa volevi sapere ancora?

AB mi colpisce questa cosa, perché leggendo il libro che hai scritto su Ernesto Balducci mi colpiva il fatto che ci sia stato, o ci sia ancora, vero dibattito, cioè ognuno avesse la possibilità di parlare, qui nella Comunità di Base.

EM certo.

AB e questa è secondo me una delle grandi differenze fra la Comunità di Base e la Chiesa.

EM eh, guarda che proprio oggi (nota: durante l’incontro della Comunità) leggeremo un brano di una persona, una persona direi eccezionale in un certo senso: un prete che ha sempre partecipato ai convegni delle Comunità di Base in tonaca. Era l’unico! Ben individuabile, no? … Ma costante, eh! Veniva da questa Comunità….
Noi ci organizziamo sulla base di una decina di gruppi, autonomi. Oggi tocca a me e ad altre persone. Tocca a me, e leggeremo questo che ho portato dal Collegamento delle Comunità, questo libro, “Omelie per i piccoli” vien chiamato, e che questo prete, Piero Manfredi, che era il “prete in tonaca”, adesso è morto, della Comunità di Base “Mater Dei” di Palma Campania, che è dentro la parrocchia, e lui era il parroco. E leggeremo un brano di questo in cui dice queste cose: “A questo punto della celebrazione la Chiesa prevede la cosiddetta omelia, voi capite che dopo tutte queste letture, non sta a me…”, e poi insomma dice “Ma come? Devo parlare io soltanto?”. Dice così: purtroppo ancora nella Chiesa non c’è la possibilità di parlare tutti. **

AB e come avete vissuto questa cosa? Perché effettivamente mette molto in discussione.

EM è un lavoro in profondità che dura da cinquant’anni, non è una cosa che è nata così, improvvisata. Dura da cinquant’anni e si è elaborata piano piano, senza forzature, ma coinvolgendo via via la gente, partecipando, attraverso trasformazioni profonde che hanno coinvolto tutti gli aspetti della vita: della vita ecclesiale, della vita sociale, politica, eccetera. Tutti, via via. Siamo cresciuti insieme in tutti questi aspetti, non soltanto in quello della…

AB ricerca religiosa, diciamo.

EM ti dirò: ancora facciamo incontri con bambini. È un percorso di cinquant’anni. Allora ci sono dei maestri che ci dicono: “I bambini che frequentano i nostri (incontri) hanno una capacità di parola, una capacità espressiva che non è comune”. Si vede che hanno una marcia in più in questo senso. Insomma, c’è tutta una elaborazione che non è un fatto ideologico: “Abbiamo deciso di parlare: parliamo!”. E chi parla? Se non c’è l’abitudine… Tu lo sai (nota: parla a Gianni) nella psicologia, tu lo capisci bene cosa vuol dire “crescere”- perché non si può arrivare, aprire bocca e parlare così, senza una consuetudine, senza una educazione, senza una crescita, nessuna liberazione.

GIANNI TADOLINI (GT) quindi la Comunità di Base fondamentalmente è vista come un percorso di crescita…

EM sì, certo. Nella liberazione.

AB quanti siete, qui ora?

EM e adesso… è difficile dire “quanti”: non abbiamo tessere! Ti dirò: sempre per questa coerenza, questa fedeltà a questo spirito di precarietà, non abbiamo un elenco delle persone, con numero di telefono, niente… non c’è nemmeno un elenco, insomma, non abbiamo nemmeno quello. Veramente la Comunità è una cosa molto fluida: acqua, insomma. E allora si fa (fatica) a dire: “quanti siete?”; c’è un’area innanzitutto che è molto vasta, che comprende molti aspetti, molte persone del quartiere, della città e anche fuori: un’area. Ci si trova con quest’area in certi momenti. Poi c’è un gruppo di persone più legate da questa storia, da questa esperienza, da questi interessi. Per esempio ultimamente si è riformato un gruppo di genitori, una cinquantina di genitori, che sono stati spinti dal bisogno di dare ai figli –sono laici, sono persone che non mandano i figlioli all’insegnamento della religione, non li mandano a catechismo, o li mandano ma sono talmente scandalizzati, li mandano perché i figli vogliono andarci, spinti dal gruppo, dal branco – e loro sono talmente scandalizzati da quello che vedono che hanno bisogno di bilanciare un po’. Ecco, allora di questi genitori alcuni si sono avvicinati per la prima volta, tanto per dire. E poi c’è un gruppo di persone un po’ più anziane che hanno una fedeltà costante, quelle che si ritrovano la domenica, in questo cerchio, a cui si aggiungono via via… non so se mi spiego, è un po’ difficile capirlo. Questi che vengono la domenica, ci troviamo in una trentina di persone, ma non sono i trenta della comunità, sono quelli che hanno una storia comune un po’ più affinata, ecco diciamo così.

GT quindi in cinquant’anni di storia la Comunità non si è persa per strada. Ha avuto la sua vita, la sua fluidità relativa.

EM no, no. È una fluidità reale: trent’anni fa in piazza eravamo cinquecento, quarant’anni fa cinquecento eravamo in piazza, quando ci ritrovavamo la domenica. Adesso da cinquecento siamo diventati una trentina, poi non siamo più in piazza da tre anni, ma stiamo dentro, perché in piazza a quest’età non riusciamo più a starci. Capito? C’è una trasformazione proprio dal punto di vista del contenitore. Ma c’è però una presa culturale sulla società, sul territorio sia cittadino sia oltre.

GT senta, e la Chiesa –io ho sessant’anni, quindi ricordo bene i tempi in cui Lei era giovane- oggi la Chiesa ufficiale a Firenze come vi percepisce?

EM dunque, la Chiesa ufficiale è un termine ambiguo, vago e ambiguo. Chi è, il Vescovo, la Chiesa ufficiale? Allora diciamo: il Vescovo. (ride di gusto) Allora, io ho passato la storia di cinque vescovi: il cardinal Dalla Costa, poi Florit, Benelli, Piovanelli, e ora Betori: cinque vescovi. Ognuno dei cinque ha tenuto un atteggiamento diverso: Dalla Costa veniva tutte le settimane, a casa, prima quando stavo in una casa popolare lasciata libera, nel ‘545 diciamo, ’55, e poi in parrocchia quando è nata, veniva tutte le settimane a prendere il caffè, a informarsi, a partecipare, a chiedere notizie di come si viveva, come si andava avanti, le ricerche che si facevano. Quindi era una persona che era costantemente presente. Veniva in anonimato, ovviamente. Costantemente presente. Un aneddoto: quando tornò dal Conclave, ci disse –eravamo già due (nota: preti parrocchiali)- ci disse: “Abbiamo eletto un papa che vi piacerà!”. E noi rispondemmo: “Non siamo tanto convinti, perché l’abbiamo visto in sedia gestatoria, questo trionfalismo… non so come andrà ”. “Aspettate e vedrete”, ci disse. Capito? Cioè, in pratica lui aveva con noi una specie di complicità su certe cose di fondo della Chiesa, per esempio la conciliarità, la partecipazione. Un altro aneddoto: quando si creò qui a Firenze questa situazione di grave crisi occupazionale, una delle poche fabbriche che c’erano a Firenze, la Galileo, licenziava. Vennero, erano qui, molti degli operai erano di qui, dell’Isolotto, vennero e dissero: “Noi abbiamo bisogno di incontrarci”. Allora sai, nel ’59 qui non c’era nulla: case e la chiesa, che era stata costruita nel frattempo. E allora venne in mente di fare un’assemblea, c’era una partecipazione cittadina a questa solidarietà, perché tutta la città era coinvolta: duemila persone che perdevano lo stipendio voleva dire un salasso anche economico in tutta la città. Perché non in chiesa? Però bisogna avere un’autorizzazione: allora io personalmente andai dal cardinal Dalla Costa e gli dissi: “Guardi, questi operai chiedono di fare un’assemblea autogestita, però in chiesa”. “Certo”, “Ma certo”, disse. Hai capito? E poi fece anche lui un documento di solidarietà, perché erano operai che occupavano la fabbrica, quindi erano in una situazione di illegalità. Tanto per dire: questo Catechismo è nato insieme a lui, il Catechismo dell’Isolotto: “Incontro a Gesù”, una rivoluzione! Ah, l’altare rovesciato! Quando mi chiamò, quando mi affidò la parrocchia, mi mise in mano il disegno della chiesa già elaborato, io lo portai qua – incominciavamo a trovarci, qui, un po’ alla buona, ovviamente, non c’era nulla, case, una cappellina che c’era qua- e discutemmo: “Ma come, si deve fare la messa con il prete che guarda il muro? No! Vediamo se si riesce…”. Che a Firenze fra l’altro c’era una tradizione di architettura romanica, aveva questa tradizione. Andammo dal cardinal Dalla Costa: “Noi vorremmo cambiare il progetto della chiesa!”. “Come?!”. “Vorremmo mettere l’altare… abbiamo chiesto consiglio a degli esperti di liturgia, di edifici sacri, e ci hanno detto che in fondo è una tradizione molto antica, che potrebbe essere…”. Insomma, si consigliò e poi ci dette la risposta: “Si può fare.”. E fu la prima chiesa nuova costruita in Italia, e forse nel mondo, con l’altare che prevedeva il prete verso il popolo. Tanto per dire, il cardinal Dalla Costa. Poi venne il cardinal Florit e rovesciò tutto: lo mandarono apposta per normalizzare questa diocesi che era stata… E ci buttò fuori. Poi è venuto Benelli, che ci ha completamente ignorato, noi non esistevamo. Annullati. Il cardinal Florit l’unica cosa che è riuscito a fare, perché Paolo VI lo ha fermato, è quella di levarci la parrocchia, basta. Non ci ha sospeso, non cin ha scomunicato, non ci ha laicizzato. Io, noi siamo preti a tutti gli effetti. Poi è venuto Piovanelli, che la prima cosa che ha fatto quando è diventato vescovo, è andato a Barbiana a omaggiare, a riconoscere la validità dell’esperienza di Barbiana. E la seconda cosa è venuto all’Isolotto. La prima cosa che ha detto quando è venuto qui davanti a centinaia di persone: “Vi ringrazio perché ci siete”, “Non posso dare riconoscimento ufficiale a quello che fate, la messa in piazza specialmente, però vi ringrazio perché ci siete”. E poi è venuto quest’altro, l’ultimo, che continua la politica di Benelli, di ignoranza assoluta. E ieri, ieri l’altro, Betori è andato in Consiglio comunale a portare la lettera del papa, il messaggio del papa per la pace, ha incontrato il sindaco, ha incontrato il Presidente del Consiglio comunale, che è stato Presidente qui del quartiere della zona, gli ha detto: “Eminenza” –anzi l’ha chiamato ‘Eccellenza’ che poi qualcuno l’ha ripreso- “bisogna” –pensare che non è mica cardinale, aveva ragione lui, no no ancora non è cardinale, aveva ragione!- il Presidente del Consiglio comunale ha detto: “Bisogna ristabilire il dialogo con la Chiesa di base” (ride), gli ha detto proprio così!

AB addirittura…

EM sul giornale di ieri! (ride di gusto) E’ uno che è cresciuto qui: non gli ha detto “dell’Isolotto”, ma insomma…

AB glielo ha fatto capire bene!

EM io però a questo punto non posso stare tanto con voi, perché avrei degli impegni.

AB no no, facciamo presto. Leggevo il tuo ultimo libro, “Cristianesimo ribelle” -e mi perdonerai ma mi sembra un testamento, ideale e spirituale-, e lì viene fuori molto tutto il discorso che facevi prima, della precarietà e dell’accettazione delle propria finitezza: questa è la condizione umana. Ma con Gianni ci chiedevamo: la dimensione della Trascendenza, come viene vissuta dalla Comunità di Base?

EM è il discorso del sacro, poi. Dipende da cosa si intende: se la Trascendenza è la fede in una realtà che è separata, sacrale, separata dalla vita, dalla storia, dall’uomo e dalla donna, allora non ci stiamo –ma non siamo noi soltanto a non starci, c’è tutta una storia di ricerca in questo senso; se per Trascendenza invece intendiamo quello che probabilmente intendevano quelli che sono all’origine nei Vangeli il Cielo, i cieli, intendevano certamente perché faceva parte della loro cultura in quel momento storico, il concetto di Trascendenza è venuto dopo, con i filosofi, i letterati, ma nella stessa Bibbia, nella stessa cultura biblica, se per trascendenza si intende ciò che –poi qualcuno come i vostri maestri, come Freud, Jung, hanno individuato il profondo, l’inconscio- si intende qualche cosa che è nel profondo, che non è realizzato ma vive dentro, allora ci stiamo. Se per Trascendenza intendiamo il mistero che ci avvolge e di cui conosciamo pochissimo, però noi sappiamo che esiste –un po’ come dicono gli scienziati che la stragrande maggioranza della materia è forse invisibile, e lo sanno perché non potrebbe stare insieme il mondo se non ci fosse tutta questa massa di materia che non si vede- allora se per Trascendenza intendiamo ciò che è oltre la nostra esperienzialità quotidiana, visibilità, ciò che giace nel nostro profondo, nella realtà più intima del nostro essere, se per Trascendenza intendiamo dire che c’è un mistero che ci avvolge, che noi non sappiamo tutto, che noi non siamo tutto, che noi non abbiamo tutto, che noi non abbiamo potere su tutto, allora ci sta bene. Purché non si voglia separare, purché si consideri qualche cosa per cui si valorizza la ricerca umana, si valorizza il discorso di andare sempre avanti, il discorso della liberazione, liberazione di questo che Balducci ha chiamato “l’uomo nascosto”, l’ homo absonditus e il Deus absonditus. Ecco, va bene?

AB benissimo.

GT quindi tu dal ’54 sei sempre rimasto qui?

EM sì, nel libro lo scrivo: io sono venuto con una tendina e il sacco a pelo, cioè in questo atteggiamento di precarietà, non definitività, e vivevo questo ideale della missione, andare dove c’è bisogno, senza fissarsi su una parrocchia. E nel ’68, quando è esploso il conflitto, poi dopo il Papa ha scritto una lettera, si è capito che non c’erano più soluzioni, sono andato dal vescovo, da Florit, e gli ho detto: “Sono qui, il papa mi ha detto di venire e sono pronto alle decisioni che si prenderanno”. “Vai via dall’Isolotto, poi stai un anno in ritiro e poi vedremo: in Duomo, roba del genere”. E sono andato via dall’Isolotto, ho preso la mia tendina, il mio sacco a pelo e sono andato via, fuori. Sono stato fuori. Ma mentre ero fuori è successo tutto il travaglio delle squadre fasciste che hanno provocato la gente, un kamikaze mandato dalla Curia a celebrare la messa da solo con trenta fascisti e basta, e l’incriminazione. Allora sono tornato per firmare la solidarietà con gli incriminati e insieme a un altro migliaio di persone sono stato poi incriminato.

AB quindi tu sei solo sospeso…

EM no, niente.

AB tu non sei nemmeno sospeso, tu sei ancora “don” Enzo Mazzi.

EM sì, io mi sono laicizzato, nella sostanza. Però la forma non tocca a me: non sono io che mi devo autosospendere, no?

AB però, ad esempio, non ti sei sposato…

EM no no, non mi sono sposato, ma non per una questione di opportunità, non mi sono sposato perché io penso che… io sono per i PACS, i patti di solidarietà, tanto per intendersi. Per me è importante l’amore, è importante il legame anche forte, la valorizzazione delle forme, dei contenitori, no.

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** il brano letto è il seguente: “A questo punto della celebrazione, la Chiesa prevede la cosiddetta omelia. Ma secondo me si dovrebbe ascoltare la Parola di Dio non soltanto con le letture, e non soltanto con la parola del prete, ma con la parola viva vostra, cioè bisognerebbe parlare tutti, voi, perché tutti abbiamo ricevuto lo Spirito Santo. In forza di questo Spirito noi siamo come Gesù. Ma purtroppo, non so perché, l’organizzazione della Chiesa nei secoli, mano a mano, ci ha tolto la parola. Il popolo di Dio non parla. Eppure secondo la dottrina della Chiesa è un popolo ‘sacerdotale, regale e profetico’. Il popolo non parla: non potete parlare, è proibito. Solo il prete può parlare. Non so spiegarmi questo annullamento del popolo di Dio. Tuttavia alcuni decenni fa un papa vi ha dato la parola: papa Giovanni con il Concilio Vaticano. Ha riconosciuto che nel popolo sta la sostanza del sacerdozio, quello del prete è solo un sacerdozio ministeriale, cioè di servizio. Il popolo di Dio è un popolo di sacerdoti, di responsabili, di profeti: la Chiesa ha riconosciuto che nell’unità tra voi c’è Gesù. Purtroppo la tradizione, le vicende dei secoli, il bisogno di potere, la necessità di un’organizzazione analoga a quella del mondo, ha fatto della Chiesa una società gerarchica, nella quale tutti i doni dello Spirito sono stati accentrati in un capo e da quello giù giù concessi ai vari gradi della gerarchia. Al popolo solo il dovere dell’obbedienza, dell’accettazione di una dottrina che viene dall’alto e delle direttive che vengono dall’alto. Lo Spirito Santo è stato racchiuso nell’intimo delle coscienze. Noi preti ci siamo impadroniti di tutti i poteri che il Signore aveva dato a voi. Voi siete, per così dire, i fruitori delle grazie che noi gestiamo: noi preti i gestori, voi i consumatori. Eppure qualche esperimento qua e là si fa nella Chiesa: non viene tenuto in considerazione, come l’esperienza delle Comunità di Base, è tollerata con fastidio, oppure è completamente emarginata. Eppure è nella linea evangelica, la linea aperta dal Concilio, anche se contemporaneamente dallo stesso Concilio viene ribadita la linea della Tradizione.”

Durante l’incontro con la Comunità Enzo Mazzi fa questa battuta:

“Anche un’altra cosa vorrei leggervi, una cosa attualissima: un piccolo brano del discorso di Obama. “Il Manifesto” (in prima pagina): SBARACK (ride)… anche noi! Siamo un po’ parenti di questo Barack, pensate alle “baracche”! Anche noi abbiamo “sbaraccato” parecchia roba, dentro e fuori: dentro le coscienze e nella società. Un brano di questo “S-Barack”: Noi siamo vaccinati da tempo rispetto a tutte le mitizzazioni, quindi non lo leggo per mitizzare una persona, che poi viene mitizzata per poterla più facilmente colpire…”