Perchè non vedremo mai l’equità

Guglielmo Forges Davanzati
www.micromega.net, 15 dicembre 2011

Se, come nel caso di questo esecutivo, si fa propria una linea di politica economica che cerca di coniugare tenuta dei conti pubblici e provvedimenti per la crescita interamente declinati dal lato dell’offerta, per quale ragione dovrebbe rendersi necessaria una maggiore equità? A cosa servirebbe? A nulla: ecco perchè non arriverà mai.

E’ stato osservato (ed è un’osservazione condivisibile) che non sarebbe stato necessario un Governo ‘tecnico’ per mettere a punto un’ulteriore manovra recessiva, dopo quelle già messe a punto nell’ultima fase del Governo Berlusconi, e dopo almeno un ventennio di politiche di contrazione della spesa pubblica e di aumento della pressione fiscale. Viene anche fatto rilevare che, data l’impopolarità di queste misure, esse non si sarebbero potute realizzare con un Governo ‘politico’ dal momento che un Governo ‘politico’ risponde direttamente all’elettorato. E’ anche condivisibile la posizione di chi rileva che questo Governo non sta facendo altro che mettere in atto le direttive europee, così come delineate nell’ultimo biennio di austerità e, più di recente, dettagliate nella lettera inviata la scorsa estate dalla BCE al Governo Berlusconi, nella quale non sono previsti interventi di segno ridistribuivo.

Come è noto, la politica economica del Governo Monti si basa sul trinomio rigore – crescita – equità. Fin qui si è visto solo rigore, e appare ragionevole aspettarsi che misure per l’equità tardino ad arrivare. Ciò per una ragione che attiene a questa domanda: se, come nel caso di questo Esecutivo, si fa propria una linea di politica economica che cerca di coniugare tenuta dei conti pubblici e provvedimenti per la crescita interamente declinati dal lato dell’offerta, per quale ragione dovrebbe rendersi necessario anche l’impegno di risorse per provvedimenti di ridistribuzione del reddito? In altri termini, dal punto di vista di questo Governo, l’equità a cosa serve?

Occorre preliminarmente dar conto del fatto che, su fonte CGIA, viene stimato che, per il triennio di riferimento dell’ultima manovra fiscale, la perdita di reddito disponibile, per la media delle famiglie italiane, sarà di circa 830 euro l’anno, che, sommate alle manovre degli ultimi mesi del Governo Berlusconi, comportano una decurtazione pari a circa 2000 euro l’anno. Lo stesso Istituto di ricerca fa rilevare che la manovra Monti ha significativi effetti ridistributivi a svantaggio delle famiglie con redditi più bassi, soprattutto in ragione della scarsa rilevanza quantitativa della tassazione dei beni di lusso. Ciò in un contesto nel quale – ed è il caso italiano – le disuguaglianze distributive sono ai massimi storici e sono le più alte nell’ambito dei Paesi OCSE.

In termini generali, misure per l’equità trovano la propria ratio in tre casi: il caso nel quale si ritiene che una più equilibrata distribuzione del reddito costituisca il presupposto per la crescita economica; il caso in cui politiche di ridistribuzione del reddito si rendano necessarie per far fronte alla conflittualità sociale e, infine, il caso in cui il Governo debba assecondare una domanda di giustizia sociale proveniente dal proprio elettorato.

Per quanto attiene al primo aspetto, occorre rilevare che la politica economica del prof. Monti non è di segno keynesiano e non è finalizzata al sostegno della domanda aggregata per il tramite dell’aumento dei salari. Ne è prova il fatto che, allo stato attuale, la speranza di ripresa della crescita economica italiana è principalmente affidata a provvedimenti di liberalizzazione: che significa, con un minimo di necessaria banalizzazione, ritenere che l’aumento del numero di farmacie possa portare il PIL a valori significativamente superiori a quello attuale. Le liberalizzazioni hanno ben poco a che fare con l’equità, trattandosi di misure che rendono i mercati più contendibili, a vantaggio di alcune imprese e professionisti e probabilmente a vantaggio dei consumatori di quei beni e servizi a ragione dell’attesa riduzione dei prezzi, conseguente alla maggiore offerta. Ovviamente, non vi è un nesso cogente fra riduzione dei prezzi e delle tariffe dei settori liberalizzati e aumento dei salari reali delle famiglie con più basso reddito. Difficile, ad esempio, pensare che la liberalizzazione dei taxi avvantaggi in particolare operai e pensionati.

Per quanto attiene al secondo aspetto, e in termini generali, il costo della disuguaglianza risiede nella prevenzione e nella repressione del conflitto sociale e, in particolare, nel costo degli scioperi (misurabile attraverso la quantità di giornate lavorative ‘perse’). Dai dati disponibili, sebbene frammentari, risulta che, dal secondo dopoguerra a oggi, la massima frequenza e durata degli scioperi si è registrata nel triennio 1974-1976 e che, a partire da quella data, la capacità di mobilitazione dei sindacati si è considerevolmente ridotta fino a generare un potenziale conflittuale prossimo allo zero nel corso del primo decennio degli anni Duemila. Allo stato attuale, non vi sono ragionevolmente le condizioni per un rafforzamento del potere contrattuale dei sindacati. Stando a questa ipotesi, politiche di ridistribuzione del reddito non possono neppure essere motivate dalla necessità di contenere la conflittualità sociale.

Infine, il Governo Monti non deve rispondere all’elettorato, così che eventuali politiche ridistributive non servono a raccogliere consensi. Data la condizione istituzionale nella quale si muove, questo Esecutivo si trova nella condizione di ‘estremizzare’ la politica dei due tempi caratteristica dei Governi di Destra: far crescere la “torta”, aumentando la produzione (laddove, in questa contingenza, lo si riesca a fare) per ritagliarne fette a beneficio dei meno abbienti, ma in un momento successivo. Dove il momento successivo può essere dilazionato sine die, dal momento che il perseguimento di obiettivi di equità distributiva è una questione che esula dal perseguimento di obiettivi di efficienza e di ‘stabilizzazione’ del sistema, e rientra al più nella sfera del dovere morale.