“Dagli al politico”: e le colpe dei nostri imprenditori?

Emilio Carnevali
www.micromega.net

In questi tempi di crisi sono molte le categorie bersagliate da un sentimento di “popolare indignazione”, prima fra tutte quella dei politici. Chi sembra sfuggire del tutto alla critica è la nostra classe imprenditoriale: ma non avrà qualche colpa pure lei per la situazione in cui ci troviamo?

Ho un carissimo amico che lavora come redattore in un casa editrice di medio-piccole dimensioni, ma dotata di un marchio di un certo prestigio. Fra le sue mansioni c’è quella di stampare le mail indirizzate al suo anziano capo (direttore, proprietario e fondatore dell’azienda): non essendo abituato a leggerle direttamente dal monitor lui vuole che tutto, ma proprio tutto – anche frasi del tipo “Ricevuto, tutto ok” – sia stampato su singoli fogli bianchi. Naturalmente non è possibile utilizzare un foglio su entrambi i lati, perché altrimenti «si rischia di fare confusione». Il mio amico non ha un computer personale in azienda e utilizza quello redazionale, il cui monitor è “in vista” anche per evitare che i giovani come lui perdano tempo «andando sull’internet». Inutile dire che la casa editrice negli ultimi anni si barcamena vivendo della rendita di un catalogo ancora ricco dei titoli accumulati negli anni gloriosi, mentre le nuove uscite sono spesso – come le definisce il mio amico – «minchiate indecorose».

L’offerta di acquisto avanzata l’anno scorso da una casa editrice molto più grande – e molto più solida – è stata rifiutata dal proprietario con scuse pretestuose dopo un lungo tira e molla di trattative. La ragione vera del diniego è la volontà di non cedere la «sua creatura» ma di godere ancora – negli ultimi anni della sua vita – del suo ruolo di «capo», dell’intrattenimento quotidiano fornito dalla mattinata in ufficio. In ultima analisi, della comodità di non ripensare la sua vita da pensionato affondando l’indubbio trauma psicologico nel quale incorre chi è abituato a stare da molti anni ai vertici di un sistema gerarchico (per quanto di ridotte dimensioni).

La storia vera appena raccontata, tuttavia, non interessa solamente il mio amico, perché è paradigmatica di tante, troppe realtà di un capitalismo italiano che in questi tempi di crisi viene indagato da molte angolazioni tranne una: quella che punta lo sguardo sulle responsabilità e le colpe dei capitalisti stessi. Il disagio sociale e civile che cresce – non da ieri – nel paese ha visto come principale bersaglio di indignazione la categoria dei politici. Episodio recente e significativo è quello di un negoziante di Varese che ha appeso sulla sua vetrina il cartello “Vietato l’ingresso ai politici” (chissà se fosse memore di quando nel nostro paese cartelli simili vietavano l’ingresso «ai cani e agli ebrei»?).

Ovviamente il gesto è stato celebrato da Beppe Grillo come «un’idea straordinaria». «Questa azione», ha aggiunto il leader del Movimento 5 Stelle, «va replicata nei negozi di tutta Italia e non solo, anche nei taxi, nei cinema, in qualunque esercizio pubblico». Poche ore dopo – continuando lungo una preoccupante deriva da «tea party tricolore» (sentimento antipolitico e antiestablishment che sfocia nell’ostilità antitasse e antistato) – sul sito di Grillo è comparso un post in cui si diceva che occorreva comprendere «le ragioni» dei recenti attentati a Equitalia (la società pubblica di riscossione dei tributi).

Altra categoria che è stata messa sul banco degli accusati di questi tempi è quella dei lavoratori, soprattutto quelli garantiti dallo Statuto dei lavoratori, che con le loro tutele “antistoriche” e i loro privilegi “insostenibili” imbriglierebbero il potenziale di sviluppo del nostro tessuto produttivo e costringerebbero le giovani generazioni ad un ruolo da paria nel mondo del lavoro. Sarà certamente perché i lavoratori tedeschi sono meno garantiti, meno sindacalizzati e guadagnano molto meno dei lavoratori italiani che nel 2011 la Germania ha registrato una crescita record in tempi di cattiva congiuntura dell’intero continente: +3% (con previsioni del +1% per il 2012, anno in cui noi saremo in recessione).

E sarà certamente per questi motivi che mentre in Italia il tasso di disoccupazione continua a salire, in Germania nell’ultimo anno si è registrato il record degli occupati dai tempi della riunificazione: 41 milioni, il che significa una crescita di 535 unità – più 1,3% – rispetto al 2010.

Ovviamente non è così, come risulta evidente anche solo soffermandoci sul semplice dato del differenziale salariale: le retribuzioni nette mensili italiane nel settore privato sono inferiori di circa il 10% di quelle tedesche (del 20% di quelle britanniche e del 25% di quelle francesi). Si dirà: sì, ma la produttività in Italia è stagnante almeno dal 2000, mentre nel resto d’Europa è cresciuta, e in Germania ancora di più che nel resto d’Europa.

Benissimo: ma da cosa dipende l’incremento della produttività? Dipende dal tasso di “impegno” dei nostri lavoratori “mediterranei e lazzaroni”? Oppure dal contesto generale in cui prestano la propria opera, dalle innovazioni di processo e di prodotto promosse all’interno delle varie aziende, da un livello dimensionale in grado di favorire e sostenere quelle stesse innovazioni (con i relativi investimenti)? E la precarietà dilagante in un segmento sempre più ampio, specialmente giovanile, del nostro mercato del lavoro – una precarietà richiesta sempre a gran voce dai nostri capitani di impresa «per competere a livello internazionale» – ha contribuito a incrementare la produttività oppure a renderla stagnante?

Sono tutti quesiti che forse in questi tempi di “autocritica collettiva” del sistema Paese dovrebbero essere posti per non eludere una analisi seria – e impietosa, come richiesto dalla gravità della situazione – delle difficoltà in cui ci dibattiamo. Negli scorsi anni troppi nostri capitalisti hanno preferito vivere di rendita trovando rifugio in settori protetti (come le autostrade, l’energia, le telecomunicazioni) o puntando sulla semplice compressione dei costi (del lavoro in primis).

In pochissimi hanno saputo raccogliere la sfida della qualità, della ricerca di produzioni a più alto valore aggiunto, dell’investimento nel capitale umano, di una gestione di impresa fondata sulla valorizzazione delle professionalità e non sulla riproduzione castale degli “status”.
Non sarà che con tutte queste “caste” messe nel mirino della critica ci siamo dimenticati della “casta imprenditoriale” italiana?