Domenica 15 gennaio 2012 II domenica T.O.

Gruppo Roma Sud-Est – Cdb San Paolo

Di fronte alla lettura di queste pagine bibliche, il gruppo si è interrogato sul senso che “la chiamata” ha per ciascuno di noi, nella convinzione che va inserita nella sua dimensione esistenziale, partendo da sé e dalle proprie relazioni personali.

Ci siamo innanzitutto chiesti se la chiamata va inserita (compresa) nella straordinarietà o nell’ordinarietà della vita quotidiana. A volte incontriamo difficoltà a capire, a riconoscere l’invito del Signore. Rimaniamo incerti e perplessi: “Sono proprio io? Sta chiamando proprio me? Probabilmente la Sua chiamata si svela giorno dopo giorno e non possiamo vederla subito globalmente, così come i modi di viverla sono tanti quante le persone che rispondono; quello che conta è l’esigenza del dialogo da un lato e la responsabilità verso l’esterno dall’altro, responsabilità, qualcuno di noi ha detto, intesa non tanto nel senso di rispondere di qualcosa, quanto nel senso di rispondere a qualcuno. Ed in questo senso l’idea di responsabilità va legata a quella di “relazione” e questa getta un ponte sull’idea di cura, del prendersi cura, un’esperienza che accomuna tutti in ogni età e in ogni ceto sociale, cura è cibo, ambiente domestico, socialità, relazioni, responsabilità ecologica, impegno civico.

Quando c’è una chiamata, è stato detto da una persona del gruppo, ci deve essere silenzio per poter rispondere. Forse il momento di discontinuità nel tran tran della vita quotidiana, che può essere provocato dalle esperienze più diverse, predispone al silenzio. Nel silenzio interiore si affina la capacità di ascoltare la parte più profonda di sè (noi stessi) e questo spazio di silenzio si precisa come luogo di relazione privilegiata con il Signore. Ci sono venute in mente a questo proposito le parole di Etty Hillesum, inserite in un altro contesto storico, ma significative anche per noi:

” L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica cosa che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini.”

Queste parole ci sono sembrate in armonia con quanto ci ricorda Alberto Maggi a proposito della domanda dei primi discepoli: ”Maestro, dove abiti?”. Gesù non indica un luogo, uno spazio, ma una esperienza di vita, e dice: ”Venite e vedrete” e nel corso di questo cammino li porta a qualcosa di incomprensibile, di inconcepibile per la mentalità dell’epoca. Avevano chiesto a Gesù: “Dove abiti?” Loro sono chiamati invece ad essere l’abitazione di Dio . E nel cap.14 Gesù aveva detto: “A chi mi ama, il Padre mio e io verremo in lui e prenderemo dimora in lui”.

Il Dio che ci presenta Gesù, non è un Dio lontano, inaccessibile, ma un Dio talmente innamorato degli uomini e delle donne, che chiede ad ognuno di noi di diventare la sua dimora. Il Dio di Gesù ci ama talmente che ci chiede: accoglimi nella tua vita, io mi voglio fondere con la tua esistenza, per dilatare il più possibile la capacità d’amore. E se ognuno di noi è la dimora di questo Dio, questa dimora è indistruttibile. E’ questo il significato della vita eterna.

Vorremmo concludere queste nostre brevi riflessioni facendo nostra una preghiera di Adriana Zarri.

“Fa, Signore, che non creda che ci siano vocazioni privilegiate, più perfette, e che non presuma di abbracciarle per essere più degli altri.
Quale che sia, la mia vocazione è la più grande, e l’erba del mio giardino è la più bella perché è quella che tu hai innaffiato per me.
Per seguire la tua voce dammi la generosità di Abramo, la prontezza di Samuele, la naturalezza di Maria..
E dammi la pazienza di attendere e l’umiltà di scegliere quella strada fra tutte, e la capacità di viverle tutte in quella unica che è mia.”