Il cardinale, il filosofo e la laicità

Paolo Bonetti
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02.03.2012 – Nel 2008 comparve, per i tipi dell’editore Marsilio, un volume dal titolo intrigante, Dio? Ateismo della ragione e ragioni della fede, che era la trascrizione di un dibattito, svoltosi alla Normale di Pisa, fra il cardinale Angelo Scola, allora patriarca di Venezia e oggi arcivescovo di Milano, e il filosofo ateo Paolo Flores d’Arcais, direttore della rivista “MicroMega”. Flores, partendo dall’evoluzionismo neodarwinista, arrivava a conclusioni che mi sembrano persuasive anche nei confronti di quei neurofisiologi che oggi ci propongono una nuova versione della “morale naturale”, quella che va sotto il nome di neuroetica.

Il filosofo romano sosteneva che la scimmia “malriuscita” che l’uomo è, a causa di una “malformazione” della neocorteccia che ha indebolito “la forza cogente degli istinti”, è stata costretta, per sopravvivere, a darsi una norma, a inventarsi un’etica. Se c’è una “necessità fisiologica del dover-essere”, questo non significa, però, che c’è una morale naturale, unica ed immutabile, oltre le culture e le loro variazioni storiche. Per Scola, una simile impostazione del problema morale non poteva essere accettata, dal momento che, nella concezione della Chiesa cattolica, erede in questo di Aristotele e di Tommaso d’Aquino molto più che di Cristo, c’è un ordine naturale degli enti e dei fini, che bisogna rispettare se si vuole realizzare la vita buona, che sta poi a fondamento di ogni buon governo.

La convivenza civile deve fondarsi sull’impegno condiviso a perseguire questo ordine morale oggettivo su questioni legate a nascita, vita, morte, male, giustizia, lavoro, amore. Il preteso ordine morale oggettivo non può essere per il cardinale che quello segnato dal magistero pontificio, e le regole procedurali della convivenza democratica dovrebbero trovare nella dottrina sociale della Chiesa la loro superiore sanzione morale. A questa pretesa di una supervisione ecclesiastica degli ordinamenti civili, Flores replicava che la democrazia liberale è legge a se stessa e non ha altro fondamento che nella libera e paritaria volontà degli uomini che la costituiscono e che si impegnano a mantenerla in vita.

Recentemente la discussione è ripresa sulle pagine del quotidiano “la Repubblica”, con un articolo di Scola, La politica e la presunta laicità, che è, in realtà, uno stralcio di una conferenza quaresimale tenuta dal cardinale a Parigi. Citando Maritain, l’arcivescovo di Milano deve ammettere con dispiacere che viviamo in un’epoca di babélisme, vale a dire in un tempo e in una società in cui molti voci si fanno udire e si accavallano confusamente, senza che si riesca ad elaborare “un codice universale di intesa”.

Quello che molti profetizzano come il futuro papa depreca che si sia ormai giunti al punto di ritenere impossibile il raggiungimento di una qualche universalità morale e che gran parte del pensiero contemporaneo sostenga l’incapacità della ragione umana di “portare a termine il compito di conoscere la realtà e di stabilire valori da tutti condivisibili”. Preso atto di questo insuperabile pluralismo, che s’identifica per la Chiesa con un deplorevole e pericoloso relativismo, Scola propone che almeno la politica, se non più la filosofia, converga verso “un pensiero pratico comune”, cioè “un insieme di convinzioni capaci di indirizzare l’azione”.

La Chiesa offre naturalmente il suo contributo, purché la laicità della politica non pretenda di eliminare dallo spazio pubblico ogni riferimento religioso. Flores è subito intervenuto con una lettera al cardinale, nella quale lo invita a non confondere fra libertà della Chiesa di diffondere pubblicamente la propria fede con ogni mezzo e pretesa della Chiesa di far valere i propri valori “non negoziabili” nel campo della legislazione civile. La sua opinione, da condividere pienamente, è “che in vista della legge, di qualsiasi legge, nessun Dio e nessuna fede devono essere tirati in ballo, mai. Solo la ragione, e la nostra eguale libertà”.

In realtà, nonostante le dichiarazioni in contrario dei suoi maggiori rappresentanti, la Chiesa cattolica non riesce ancora ad accettare il pluralismo morale delle nostre società. Ci sono voluti alcuni secoli perché, alla fine e con molte esitazioni, accettasse quello religioso, e adesso è costretta a fare i conti con la molteplicità e talora radicale contraddittorietà dei valori che guidano le scelte degli uomini come singoli e come gruppi sociali. Inoltre, la Chiesa non comprende che in quella che giudica una vera babilonia morale, c’è un principio unificante sul quale esiste ormai un consenso pressoché universale, nonostante le molte violazioni a cui è ancora soggetto in tante aree del mondo.

Ma questo è il destino di ogni principio morale, che indica un traguardo verso cui tendere, piuttosto che una realtà di fatto conseguita una volta per sempre. Questo principio è la libertà che deve essere riconosciuta ad ogni coscienza e che è l’unico fondamento di una moralità autentica. Né bisogna aver paura che la libertà si converta in arbitrio e prepotenza verso l’altro, se si è consapevoli che la vera libertà non è solipsistica ma dialogica. Si dirà che è difficile raggiungere questa consapevolezza e farne regola di vita, ma certamente non più difficile della pratica della carità cristiana, sempre invocata nelle encicliche papali e troppo spesso disattesa nei comportamenti quotidiani di tanti cristiani, a cominciare dagli uomini di chiesa. La laicità (e con essa la carità) consiste anche nel riconoscimento dei limiti inevitabili della propria concezione dei valori e nella rinuncia alla pretesa di vederli realizzati ope legis.