L’Italia è ancora una Repubblica fondata sul lavoro?

Domenico Gallo
www.micromega.net

Lo sciopero indetto dalla Fiom lo scorso 9 marzo scorso si fondava sull’ammonimento che il lavoro è un bene comune, da rivendicare con intransigenza, perchè particolarmente maltrattato in questa contingenza storica. Non si può non essere d’accordo, il lavoro è un bene comune, ma non è un bene esistente in natura, come l’acqua, è un bene comune in quanto istituito dalla Costituzione come supremo bene pubblico repubblicano.

Il principio lavorista, generato dall’art. 1 della Costituzione (l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro) costituisce uno dei cinque principi fondamentali che reggono l’edificio delle Costituzione (gli altri – secondo la nota definizione di Costantino Mortati – sono il principio democratico (art. 1), il principio personalista (art. 2 e 3), il principio pluralista (art.2), il principio internazionalista o supernazionale (artt. 10 e 11).

Il lavoro è posto a fondamento della Repubblica. Non si tratta di una espressione lieve o banale. Basti pensare quanto essa appare polemica, oggi, rispetto ad un modello economico-sociale in cui tutti gli indici di riferimento sono fondati sul mercato e sulla proprietà privata. Né si tratta di una scelta di classe a favore dei lavoratori dipendenti, quale avrebbe potuto essere adombrata nell’espressione “Repubblica democratica di lavoratori” proposta dai partiti di sinistra nell’Assemblea costituente. In realtà la dignità del lavoro è strettamente collegata ai diritti della persona. Di qui l’affermazione del diritto-dovere al lavoro, riconosciuto a tutti i cittadini, e del dovere della Repubblica di renderne effettivo l’esercizio (art. 4). Di qui il principio, contenuto nell’art. 35, secondo cui “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme.”

Il bene comune lavoro richiede che le persone siano occupate in modo qualitativamente accettabile e coerente con il pieno rispetto dei diritti costituzionali. Il lavoro come bene comune comporta la tutela di questo bene sia nei confronti del capitale privato (proprietà), sia nei confronti del sistema politico (governo) che del capitale privato sempre più frequentemente è succube. E’ stato osservato, che: “il fine precipuo della difesa del lavoro come bene comune è quello di consentire ai lavoratori l’accesso ad una esistenza libera e dignitosa nell’ambito di una produzione ecologicamente sostenibile” (Mattei, 2011).

Non v’è dubbio che da lungo tempo il bene comune lavoro è sottoposto ad un attacco durissimo da una politica assoggettata ai dictat del potere privato che vuole smantellare i presidi che la legge a posto a tutela della dignità del lavoro. L’aggressione al bene della dignità del lavoro è avvenuta attraverso la precarizzazione crescente dei rapporti di lavoro e la demolizione delle garanzie e delle tutele giurisdizionali, fino ad arrivare all’art.8 del decreto legge della manovra dell’ agosto 2011 (D.L. 13/8/2011 n. 138 conv. convertito con la L. 14/9/2011 n. 148), con il quale la tutela della dignità del lavoro e dei lavoratori è stata sottratta all’impero della legge e consegnata alla dinamica dei rapporti di forza, consentendo a soggetti privati la facoltà di dettare regole, in deroga a quelle leggi dello Stato, attraverso le quali si è incarnato il principio lavorista.

Adesso con la riforma Monti-Fornero l’aggressione al bene della dignità del lavoro fa un ulteriore passo avanti e raggiunge quegli obiettivi che il Governo Berlusconi aveva perseguito invano, trovando uno sbarramento insuperabile nello sciopero generale indetto dalla CGIL il 23 marzo 2002. La sostanziale abrogazione dell’art. 18, annunziata nel piano del governo sul lavoro, al di là delle chiacchiere sulla tutela dei lavoratori da comportamenti discriminatori, si risolve nello smantellamento, puro e semplice della tutela pubblica contro il licenziamento illegittimo, in violazione della costituzione e della stessa Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea, che esige (art. 30) la tutela dei lavoratori contro ogni licenziamento ingiustificato.

Il problema non è che possono aumentare i licenziamenti, come paventano alcuni, in una situazione già difficile per l’occupazione, il problema è che cambia la natura del rapporto di lavoro. L’art. 18 è una norma di chiusura, rappresenta la sanzione che tiene in piedi l’intero edificio dei diritti dei lavoratori. Se si toglie la sanzione, l’edificio crolla e lo Statuto dei lavoratori che definisce i diritti dei lavoratori ed i limiti del potere privato diviene un pezzo di carta. Quando fu varato lo Statuto dei lavoratori, il commento unanime fu che finalmente la Costituzione entrava in fabbrica. Che finalmente anche i lavoratori acquistavano la libertà di esprimere le proprie opinioni, di iscriversi al sindacato da loro scelto, di non essere sottoposti alle vessazioni di polizie private, di non essere controllati nelle loro opinioni politiche, etc.

Tutto questo è destinato a sparire, la dignità del lavoratore ed il rispetto dei suoi diritti costituzionali, diventeranno merce di scambio da inserire nella contabilità dei costi e ricavi. La cancellazione dell’art. 18 (cioè della sanzione contro i comportamenti illegittimi del potere privato) espelle la Costituzione dai territori che sono dominio del potere privato e trasforma il lavoratore in un non-cittadino, realizzando la profezia nera di Marchionne, che aveva annunziato l’avvento di una nuova era.
Siamo proprio sicuri che è di questo che l’Italia ha bisogno?

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L’inutile flessibilità

Chiara Saraceno
Repubblica, 15 marzo 2012

Sembra superata la brutta scivolata di ieri della ministra Fornero con l’infelice frase sulla “paccata di miliardi”.

“Paccata di miliardi” che sarebbe disponibile solo se le parti sociali accettano preventivamente il pacchetto di riforme proposto dal governo. Per lo meno non ha fermato quel pezzo simbolicamente importante di negoziato che riguarda l’articolo 18. La voglia di arrivare ad un accordo sostenibile per tutti prevale, per fortuna, sulle irritazioni e i passi falsi. Anche se sarà bene che Elsa Fornero, come tutto il governo di cui fa parte, ricordino che l’ottica del bene comune non solo va verificata con i soggetti interessati, ma deve valere sempre, verso tutti i soggetti e interessi. Il negoziato con sindacati e Confindustria sta avvenendo in modo pubblico e trasparente, anche se con qualche insofferenza di troppo. Non così è andata sulle liberalizzazioni, dove più che di un negoziato sul bene comune si è avuta l’impressione di un cedimento agli interessi di lobby ristrette ma potenti, al riparo dagli sguardi dei cittadini che ne hanno visto solo gli esiti non sempre favorevoli per loro stessi.

Ma entriamo nel merito del pacchetto di riforme messo sul tavolo dalla ministra. Vi sono diverse cose apprezzabili, in primis l’introduzione di una indennità di disoccupazione unica, che copra diverse fattispecie di perdita del lavoro, benché sia dubbio che riguardi anche i vari co.co.pro. e finte partite Iva, ovvero tutti coloro che sono attualmente sprotetti. Continueranno ad essere esclusi anche coloro che hanno contratti così brevi e provvisori da non riuscire a maturare 52 settimane lavorative piene in due anni. Anche il rafforzamento dell’apprendistato come via di ingresso nel mercato del lavoro è un passaggio importante. Ma non risolve il problema dell’ingresso dei neo-laureati o di chi, come molte donne, si ricolloca sul mercato del lavoro in età non giovanile, o di chi perde una occupazione in età matura. Non affrontare la questione di una maggiore standardizzazione dei contratti di lavoro all’ingresso è una delle debolezze del pacchetto di riforme proposte dal governo, che sembra tutto spostato sul, certo importantissimo, tema degli ammortizzatori sociali e sulla flessibilità in uscita (articolo 18).

Questa impostazione suggerirebbe che il problema del mercato del lavoro italiano, e addirittura della mancata competitività del sistema produttivo, sia la scarsa flessibilità in uscita. Ma i modelli danesi e tedesco, spesso citati anche dalla Fornero, sono dinamici innanzitutto perché sono dinamiche le aziende, che creano posti di lavoro; per cui perdere l’occupazione non è un salto nel buio, ma un passaggio abbastanza veloce verso un altro lavoro. Non è così in Italia, nonostante ormai da diversi anni il mercato del lavoro italiano sia diventato tra i più flessibili, anche per i cosiddetti garantiti. La scarsa competitività italiana, da cui deriva anche l’alto tasso di disoccupazione, ha a che fare non con la mancanza di flessibilità in uscita, ma con la scarsa capacità di innovazione delle aziende, il basso investimento in capitale umano e in ricerca e innovazione. E se le aziende straniere non investono volentieri in Italia non è certo per timore dell’articolo 18, ma perché temono la macchinosità e la lentezza della nostra burocrazia, per altro incapace di proteggere da fenomeni di corruzione, quando non vi è coinvolta essa stessa.

Infine, in Danimarca e in Germania, come in molti altri Paesi europei, nessuno è lasciato senza protezione una volta terminato il diritto all’indennità di disoccupazione senza aver trovato una nuova occupazione. Possono accedere ad una garanzia di reddito assistenziale, destinata a chi ha perso il diritto alla indennità o a chi non ne ha mai avuto diritto, ma è povero. È una misura cui la ministra si è dichiarata più volte favorevole, trovando risposte per altro tiepide in una parte almeno dei sindacati. Ma richiede risorse consistenti che non possono che venire dal bilancio dello Stato.

In Germania, ad esempio, dopo la cosiddetta riforma Hartz del 2002, questo sussidio garantisce 350 euro al mese per una persona sola, che possono salire fino al 1240 euro circa per una coppia con due bambini, più integrazioni per l’affitto, i libri di scuola, le spese mediche. Anche chi riceve l’indennità di disoccupazione, se questa è inferiore al sussidio, può ricevere una integrazione fino ad un livello equivalente. Inoltre esistono centri per l’impiego efficienti, che accompagnano e stimolano chi riceve il sussidio a stare nel mercato del lavoro, formarsi, e così via. Accanto al dinamismo dell’economia, l’esistenza di questa rete di protezione consente di affrontare meglio le crisi vuoi nell’economia, vuoi nelle biografie personali. In assenza di entrambe queste cose, rimane solo la disoccupazione di lunga durata senza sussidi e senza speranze.