“Abbattere il muro dell’indifferenza”

Dea Santonico
Comunità cristiana di base di S. Paolo (Roma)

Rielaborazione dell’intervento introduttivo a “Esperienze a confronto”

Tutte le esperienze che abbiamo ascoltato sono espressioni di Politica dal basso, Politica con la P maiuscola, che si mette al servizio dei cittadini, sono momenti di crescita e presa di coscienza, sono parte di quei processi di liberazione e partecipazione a cui tutte e tutti, credenti e non, siamo chiamati per contribuire a costruire una cittadinanza consapevole.

Ma perché una cittadinanza consapevole sia resa possibile c’è bisogno che le nostre esperienze non rimangano chiuse all’interno delle associazioni che le promuovono, c’è bisogno che diventino contagiose, che si trasformino in virus capaci di minare dal di dentro il sistema di ingiustizie e sfruttamento in cui viviamo.

Su questa strada ci troviamo di fronte un muro difficile da sfondare, il muro dell’indifferenza. Hannah Arendt, ebrea tedesca, che ha vissuto l’esperienza drammatica del suo popolo durante il nazismo, diceva che per fare crimini terribili non serve un gran numero di criminali, ne bastano pochi, c’è bisogno però che ci siano tante persone disposte a stare a guardare senza vedere.

Con il gruppo di amici e amiche che hanno contribuito alla preparazione di questo spazio del convegno ci siamo chiesti: quello che dice Hannah Arendt vale solo in situazioni estreme, come il nazismo? O forse quello che succede è che in situazioni limite del passato diventa più chiaro ed evidente ciò che è comunque vero anche al nostro tempo, ma che la vicinanza temporale non ci aiuta a cogliere pienamente?

E poi chi c’è da una parte e dall’altra di quel muro? Quel muro divide i buoni, tra i quali magari noi ci poniamo, dai cattivi? O forse attraversa ognuno e ognuna di noi, perché tutti abbiamo le nostre ambiguità e contraddizioni con cui fare i conti? Di certo quel muro divide gli emarginati e le emarginate da chi con loro non si vuole mischiare, lasciandoli con un carico schiacciante di sofferenza e solitudine.

Anche Gesù nella sua esperienza ha dovuto fare i conti con quel muro, che divideva i poveri, gli impuri, i malati e i peccatori del suo tempo da coloro che, preoccupati di rimanere “puri”, mantenevano le distanze. Gesù ha una duplice attenzione verso gli uni e verso gli altri. Li ama tutti, ma il suo amore e la sua attenzione verso coloro che erigevano muri si manifesta andandoli a scomodare, mettendo in discussione le loro sicurezze.

Ci aiutano a capire l’atteggiamento di Gesù le tre parabole del vangelo di Luca, la pecora smarrita, la moneta perduta e la parabola dei due fratelli. Non è per i perduti che Gesù le racconta, ma per coloro che lo criticavano a causa delle sue frequentazioni (noi oggi diremmo i benpensanti), come chiarisce l’introduzione contenuta nel capitolo 15 di Luca.

Lo schema è lo stesso nelle tre parabole: qualcuno o qualcosa si perde, poi si ritrova e per questo bisogna far festa. E alla festa sono tutti invitati, lasciando cadere le differenze. Nella terza parabola il fratello maggiore, quello bravo, si rifiuta di entrare in casa, allora il padre, che ama lui come il figlio ritrovato, esce e cerca in tutti i modi di convincerlo ad entrare alla festa. Non importa neanche se chi si è perso lo ha fatto per colpa sua o no: non si sa se la pecora si sia persa per colpa sua, di sicuro la moneta no, nel caso del figlio minore c’è invece una colpa. Ma in tutti i casi la festa s’ha da fare!

E’ questo l’invito di Gesù, l’invito ad una festa dove i bravi e quelli meno bravi, i puri e gli impuri, tutti e tutte stanno insieme. Perché se gli emarginati da una parte del muro soffrono, siamo sicuri che quelli dall’altra parte siano felici? Per stare bene gli uni e gli altri i muri devono cadere e si deve far festa. Questo pensava Gesù, e per tutta la sua vita ha sempre seguitato a rilanciare l’invito alla festa. Per molti un invito scomodo.

Nella prima parte della nostra tavola rotonda abbiamo parlato della nostra attenzione verso gli emarginati del nostro tempo, in questa seconda parte dovremmo interrogarci sulla nostra attenzione verso coloro che pensano che tutto ciò non li riguardi. Sono forse io il custode di mio fratello? E chi non è e non si fa custode del proprio fratello, della propria sorella, da che parte gioca? Esiste un terreno neutro nel quale chiamarsi fuori? O chi non si fa custode è complice di coloro che vogliono perpetuare il sistema di ingiustizie in cui viviamo, che ne sia o no consapevole? Sulla parola “complice” dovremmo interrogarci. E’ troppo forte? E’ colpevolizzante? Non la colpevolizzazione di qualcuno ma una presa di coscienza collettiva è quello che vogliamo.

Prendere coscienza insieme significa scomodarci e scomodare gli altri. Uscire dalla cerchia di quelli che la pensano come noi e rischiare il confronto – forse duro e snervante – con coloro che sentiamo più lontani dal nostro modo di concepire le cose. Per chi ritiene di avere una verità assoluta da portare è tutto più facile. Per noi, che invece sentiamo di avere tanti dubbi e mezze verità, sempre da rimettere in discussione, è più difficile, ci fa più fatica. D’altra parte dobbiamo stare in guardia e non cadere nella tentazione di coprirci dietro la mancanza di verità assolute da portare per non farla quella fatica. Meglio dirci che non ce la facciamo, se questo è il problema. Non siamo in cerca di eroi ed eroine.

Partiamo dal mettere in comune i nostri piccoli successi ed anche gli insuccessi e le frustrazioni. Forse si tratta solo di fare un primo passo ed aiutare noi stessi, i nostri fratelli e le nostre sorelle almeno a non far finta di non vedere e trovare il coraggio di guardare negli occhi coloro che soffrono. Può essere imbarazzante guardare negli occhi chi soffre, ma almeno questo ci tocca a tutti. E quando si guarda negli occhi una persona il muro è già caduto e la festa può cominciare.

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“Esperienze a confronto”

Anna Di Salvo, “Rete naz. delle Città Vicine”
Suor Rita Giaretta, “Casa Ruth” di Caserta
Maria Luisa Mazzarella, coordinamento Campania Rainbow
Fabrizio Valletti s.j. , rettoria di Scampia
Giovanni Zoppoli, Comitato spazi pubblici

Introduce e coordina: Dea Santonico, CdB di S. Paolo (Roma)

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Confronto email in preparazione del convegno sul tema della tavola rotonda finale: “Abbattere il muro dell’indifferenza”

a cura della cdb San Paolo (Roma)

DEA SANTONICO – Prima bozza dell’introduzione

Tutte le esperienze che abbiamo ascoltato sono espressioni di Politica dal basso, Politica con la P maiuscola, che si mette al servizio dei cittadini, sono momenti di crescita e presa di coscienza, sono parte di quei processi di liberazione e partecipazione a cui tutte e tutti, credenti e non, siamo chiamati per contribuire a costruire una cittadinanza consapevole.
Ma perché una cittadinanza consapevole sia resa possibile c’è bisogno che le nostre esperienze non rimangano chiuse all’interno delle associazioni che le promuovono, c’è bisogno che diventino contagiose, che si trasformino in virus capaci di minare dal di dentro il sistema di ingiustizie e sfruttamento in cui viviamo.
L’ostacolo principale da rimuovere su questa strada è l’indifferenza delle persone che ci circondano. Hannah Arendt, ebrea tedesca, che ha vissuto l’esperienza drammatica del suo popolo durante il nazismo, diceva che per fare crimini terribili non serve un gran numero di criminali, ne bastano pochi, c’è bisogno però che ci siano migliaia di persone disposte a stare a guardare senza vedere.
Qui è dove noi dobbiamo incidere, ed incidere in modo più significativo, perché nessuno possa più dire o sentirsi giustificato nel dire: “Sono forse io il custode di mio fratello?” La risposta è SI, ognuno si deve fare custode del proprio fratello, della propria sorella, e chi non si fa custode è complice. Una terza via non ci è data. Mi vengono in mente le parole di De Andrè nella canzone del Maggio: “Anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti”.
Vorrei che il confronto tra relatori e assemblea nella seconda parte della tavola rotonda sia su questo. Perché c’è l’indifferenza? Come possiamo sfondare il muro dell’indifferenza e del pregiudizio? Mettiamo in comune i nostri piccoli successi, ed anche gli insuccessi e le frustrazioni, le nostre idee, con la consapevolezza che sciogliere questo nodo non è opzionale, è l’unica possibilità: perché l’indifferenza è la migliore alleata del potere, di chi vuole perpetuare il sistema di ingiustizie.

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VINCENZO NAPOLI

Parto dal bisogno di sfondare il muro dell’indifferenza, tema – secondo le linee guida proposte da Dea – del confronto del convegno di Napoli.
Parto pure dall’affermazione, contenuta nel documento: “ognuno si deve fare custode del proprio fratello, della propria sorella, e chi non si fa custode è complice. Una terza via non ci è data”.
Questa affermazione, che si riferisce direttamente al valore “politico”e “di testimonianza” del farsi custodi, mi pare un po’ forte, quasi una verità assoluta.
Credo che tutte le esperienze abbiano invece una importanza relativa. La Sosta ha un valore sia per le donne ed agli uomini che la propongono e gestiscono, sia per coloro che ad essa partecipano e da essa traggono giovamento. Il lavoro di chi assiste le giovani prostitute ha valore sia per chi lo fa sia per le ragazze che ne usufruiscono. Parlando della mia esperienza personale, l’affido familiare ha avuto ed ha grande rilevanza sia per le vite di Anna e mia, sia per la vita di Mirko, sia per le altre famiglie con cui ci siamo confrontati. Eccetera.
Ora, ognuno di noi è fortemente concentrato sul suo vissuto e può essere tentato di assolutizzare ciò che invece, come dicevo, è relativo. Per esempio, a chi assiste le prostitute potrebbe sembrare che coloro che non lo fanno siano indifferenti al problema. Parlando di me potrei pensare (attenzione: qualche volta ho avuto la debolezza di farlo!) dopo aver speso un botto di energie a proporre l’esperienza dell’affido, che chi non ha recepito il nostro invito sia indifferente ai problemi dei bambini in difficoltà.
Generalizzando, tutti coloro che fanno una qualsiasi attività di volontariato potrebbero pensare (siamo umani!) che chi non la fa è un indifferente.
E’ ovvio però, e farei grandissimo torto a Dea se lo dicessi, che l’affermazione del documento prima citata non ha questo significato.
L’affermazione, così come la riflessione di Hannah Arendt e l’invettiva di De Andrè, si rivolge a chi ha fatto o fa una precisa scelta di chiudere gli occhi quando poteva tenerli aperti per propria convenienza; a chi disprezza, discrimina, giudica, esegue sentenze. Li conosciamo bene.
Ciò che voglio dire è che dobbiamo prestare molta attenzione a verificare attentamente dove è posizionato ‘sto benedetto muro dell’indifferenza e soprattutto a identificare bene chi sta da questa parte e chi sta dall’altra. A non dividere con l’accetta “i buoni” da “i cattivi”. E, soprattutto, a non farci giudici ponendo noi stessi “di qua” e gli altri “di là” (“Chi non si fa custode è complice”: come stabiliamo che qualcuno non si sta facendo custode? quali strumenti e quale potere abbiamo per stabilire che quel comportamento è di complicità? Eccetera).
Mi piace quel che dice sul sito Mario Campli, a nome della Comunità, immagino: “…sapendo di non possedere verità. Persino non aspirando a raggiungerla. Dunque non annettendo all’errore chi non pensa e non opera come noi. Semplicemente cerchiamo, camminiamo, discutiamo, lottiamo: con altri e altre. Con buon senso. Il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune. Con umiltà. Senza cattedre e senza cattedrali”.
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SALVATORE CICCARELLO

Tento di fare anch’io delle riflessioni, dicendo però in anticipo che non ho la risposta giusta su nulla.
La frase di Dea che Vincenzo riporta virgolettata e che gli è apparsa peccare di “verità assoluta” mi sembra che abbia una sua validità nelle ingiustizie storico-politiche plateali, come la persecuzione degli ebrei, e non a caso è stata pronunciata da Anna Harendt. Nel senso che i posteri, noi, dopo sessant’anni ci chiediamo: ma come sono state possibili le realtà di Auschwitz, di Mauthausen? Ma i cittadini tedeschi cosa ne sapevano e cosa ne pensavano? I paesi che vivevano intorno ai campi, possibile che non avessero idea di cosa succedesse dentro?
Tutto questo rovello nasce, evidentemente, da un’esigenza che si è posta a qualunque libero pensatore all’indomani di queste tragedie. Una simile follia, come possiamo prevederla, capirla in tempo per impedire che si verifichi ancora?
In questo contesto, col senno di poi soprattutto, possiamo dire, quella frase penso abbia una validità.
Dea, però, la applica a problemi storico-politici del nostro tempo che, forse anche per la loro vicinanza temporale, non sono immediatamente leggibili e comprensibili senza controversie. Le violenze dell’Occidente nei confronti degli afghani non sono paragonabili alle persecuzioni hitleriane. Verso gli immigrati si potrebbe avere un atteggiamento più accogliente sia da parte dello stato che da parte dei singoli; ma certamente siamo lontani dalle colpe di cui si sono macchiati le dittature del passato.
Per questo – e qui concordo con Vincenzo – la frase di Dea appare sopra le righe e colpevolizzante.
Gli esempi che porta Vincenzo, però, mi sembrano di altro tipo: sono problemi sociali (la prostituzione, l’abbandono del minore etc.) che ci sono sempre stati, purtroppo, la responsabilità dei quali è difficile da individuare in modo preciso; la si può attribuire, forse, alla struttura della nostra società, ma molto alla lontana. In ogni caso il singolo cittadino non può ritrovare su di sé una colpa storica nei confronti di quei problemi come – secondo me – avrebbe dovuto fare il cittadino tedesco degli anni ’40 del secolo scorso, specialmente se si dichiarava cristiano; o forse dovrebbe fare un cittadino italiano quando il suo governo fa riportare in Libia barconi di uomini e donne che fuggono dalla guerra e dalla persecuzione.
Questo per quanto riguarda gli esempi di Dea e quelli di Vincenzo.
Ma il problema di fondo mi sembra fosse un altro, e cioè: impegnarsi nel volontariato è un must imprescindibile se si vuole uscire dal gruppo dei “cattivi” ed entrare in quello dei “buoni”? Se Dea inclinasse verso questa ipotesi (ma su questo non è andata più in là di una battuta) non mi sentirei di concordare con lei, sia che si tratti di problemi politici che ci interrogano come cittadini, che di problemi sociali che ci interrogano come uomini.
Io penso che la molla ad impegnarsi nel sociale provenga dall’interno di ciascuno ed abbia dei meccanismi insondabili, psicologici e personali. Anche per puro e semplice problema di tempo uno si potrà dedicare al problema di un popolo ma non di tutti i popoli oppressi; o dedicarsi ai migranti, all’handicap, o al recupero delle prostitute. Ma non tutto quanto insieme. Dovrà fare una scelta, evidentemente, una scelta, che dipenderà dal suo vissuto e certamente non lo si potrà colpevolizzare per l’inerzia negli altri campi.
Io, poi, conosco delle persone eccezionali, completamente prive di impegni di volontariato. Sono ciniche? Fataliste? Non lo so. Ma le parole di Mario mi sembrano – nel loro paradosso – molto attraenti.
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ANTONELLA GAROFALO

Grazie per la vostra capacità di stimolare la riflessione, senza timore di esprimere idee personali che potrebbero essere anche oggetto di critiche, ma sono assolutamente convinta che non dobbiamo mai stancarci di parlare e riflettere insieme.
Naturalmente sono d’accordo sia con Vincenzo che con Salvatore perché entrambi affermano idee condivisibili e “dubbiose”, proprio come piace a me che penso di non avere certezze di alcun genere.
Io non so se sono sempre in grado di farmi coinvolgere dalle vicende che mi stanno accanto, ma è certo che il mio desiderio forte è di cercare di non chiudere gli occhi, e a volte di sporcarmi le mani, pur nella consapevolezza che i limiti personali sono tanti e molte volte sono proprio delle scuse per non fare nulla.
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EMANUELE TOPPI
La prima cosa che mi viene in mente leggendo queste mail è una cosa che mi ha detto Giovanni. Una domenica, parlando in attesa del pranzo, mi ha fatto riflettere sul termine inglese “to take care”, prendesi cura. Non pretendere di risolvere un problema ma comunque preoccuparsene, col rischio (magari assai probabile) di non trovare la soluzione, la cura.
E’ evidente che non possiamo occuparci di tutti i problemi di questo mondo. Se vogliamo anche solo sperare di fare qualcosa di vagamente utile dovremo, credo, concentrare le nostre forze su alcune questioni, quelle a noi più care, più vicine, senza però ritenerle più importanti di quelle che abbiamo lasciato agli altri.
Sulla questione buoni e cattivi non possiamo certo continuare a pensare (come si faceva alle elementari) ad una linea sulla lavagna che divide i primi dai secondi. Da una parte chi fa volontariato dall’altra chi non lo fa. Anch’io conosco persone che non si impegnano nel volontariato ma che stimo infinitamente, persone che credo rendano più ricco questo mondo e che non mi sognerei mai di mettere dalla parte dei cattivi. Credo sia però mio dovere continuare a cercare di coinvolgerli, cercare di convincerli che un impegno più attivo sia necessario, in qualunque ambito si scelga di operare.
Insomma a ciascuno la sua lotta, la sua cura da cercare. A chi deciderà di non sporcarsi le mani, che almeno tenga gli occhi e le orecchie bene aperti. Che non gli venga in mente però di sedersi comodamente su una poltrona a giudicare, con le mani lisce e profumate. Se le sporchi prima un po’ anche lui, poi sarò pronto ad accettare i suoi giudizi.
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DEA SANTONICO

Mi reinserisco anch’io nel dibattito. Comincio col dire che la ricchezza degli interventi fa pensare che il tema tiri! Speriamo che sia di buon auspicio per la tavola rotonda al convegno. Cerco di riprendere la riflessione da alcuni dei punti sollevati.
1. “Ognuno si deve fare custode del proprio fratello, della propria sorella, e chi non si fa custode è complice. Una terza via non ci è data”. A Vincenzo questa frase sembra un po’ forte (e sicuramente lo è), una sorta di verità assoluta. Salvatore aggiunge che invece può avere una sua validità ma solo nelle situazioni estreme, come il nazismo. In matematica qualche volta per capire i problemi bisogna spostarsi verso il limite. Se prendo un quadrato ed un rettangolo con lo stesso perimetro, è più grande l’area del quadrato o quella del rettangolo? Se penso ad un rettangolo con i lati di dimensioni molto vicine al lato del quadrato, la risposta non è ovvia, ma se allungo sempre di più la base del rettangolo ed accorcio l’altezza fino a portarla quasi a 0, tutto diventa chiaro, perché l’area del rettangolo va verso 0, mentre quella del quadrato rimane costante. La regola che l’area del quadrato è più grande dell’area di un rettangolo con lo stesso perimetro vale sempre, ma a noi risulta evidente solo andando verso il limite. La realtà è più complessa persino dei più complicati problemi matematici, perciò non voglio semplificare. Ma se quello che vediamo così chiaramente pensando a situazioni estreme, come il nazismo, fosse altrettanto vero ai nostri giorni, solo che non ci è facile accorgersene? Anche Salvatore parla della vicinanza temporale come di un possibile ostacolo a leggere i problemi storico-politici del nostro tempo. E’ possibile mettersi su un terreno neutro? O un terreno neutro non esiste, semplicemente perché il potere lo occupa? Si può essere complici anche senza esserne consapevoli ed è proprio su questo che i poteri di tutti i tempi contano. Come si fa a favorire la presa di coscienza nostra e degli altri? Come si fa a farlo senza colpevolizzare né gli altri, né noi stessi? E’ giusto su questo scomodarsi e andare a scomodare gli altri? In quanto a scomodare Gesù non ci andava leggero, specialmente con quelli che si sentivano a posto. Le sue parabole, che, se lette fuori contesto, sembrano belle storielle, erano pugni nello stomaco per i suoi interlocutori!
2. Tutti dobbiamo fare tutto? Tutti dobbiamo fare volontariato? Assolutamente no, non l’ho mai pensato. A ciascuno la sua lotta e la sua cura, dice Emanuele. Ognuno/a fa il suo pezzetto dove si trova e tutte le varie realtà sono un modo di fare politica vera, dal basso: le associazioni di volontariato, le comunità di base, che da 40 anni (lo stesso numero di anni trascorsi dal popolo ebraico nel deserto!) fanno la loro lotta di resistenza contro le prepotenze del potere religioso, i partiti (a coloro che seguitano a provare a fare politica nei partiti in questo difficile periodo va tutta la mia stima, anche se questa non è la mia scelta). Non si tratta di dare le pagelle, né di farci concorrenza, ma tutti insieme dovremmo interrogarci su come aiutarci ed aiutare a favorire una presa di coscienza. E’ questo il tema che vorrei portare nella tavola rotonda del convegno. E per quanto riguarda il muro dell’indifferenza, quel muro non divide i buoni dai cattivi, spesso passa attraverso ognuno/a di noi e non perché chi si occupa di prostitute è indifferente al problema dell’handicap, ma perché ognuno/a ha le proprie ambiguità e contraddizioni con cui fare i conti.
3. Verità assolute. Anche a me piace la frase di Mario Campli. Non abbiamo verità assolute. E allora che facciamo? Lasciamo strada libera a quelli che invece le verità assolute ritengono di averle? Che ci facciamo con i tanti dubbi che abbiamo e le mezze verità, sempre da rimettere in discussione? Ce li teniamo per noi? Non servono a niente e a nessuno? Quando è iniziata la storia delle comunità di base avevamo uno slogan: “Riappropriarci della Bibbia”, allora mi sembrava un gioco, ma quel gioco ha cambiato le nostre vite e ci è costato tanta fatica. Tanto per dirne una, tutte le settimane uno dei gruppi della comunità si riunisce per preparare la celebrazione della domenica. Siamo cresciuti attraverso il metodo del confronto, ormai ce lo abbiamo nel dna. Mi hanno chiesto di fare da moderatrice alla tavola rotonda, non mi è venuto in mente, neanche per un momento, di preparare la cosa da sola. Guardate che casino che ho fatto e quanti ho coinvolto nella preparazione! Persino Vincenzo! Sul metodo faticoso, ma così straordinariamente ricco del confronto, su questo almeno non abbiamo qualcosa da proporre, da condividere con gli altri? Non è questo il modo per contagiarci e prendere coscienza? Per sfondare il muro dell’indifferenza dentro e fuori di noi?
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STEFANIA SALOMONE

Sto apprezzando davvero molto le vostre riflessioni, nessuna esclusa.
Il confronto su questi temi mette a nudo fragilità, rigidità, paure. Ma fa rinascere anche la consapevolezza e l’entusiasmo che – pur nel nostro piccolo – animano la nostra scelta a vantaggio di situazioni che richiedono attenzione.
Rispetto alle domande incalzanti di Dea mi sento un po’ con le spalle al muro, come sopraffatta dalla ricerca di risposte che ovviamente non ho.
A parte i rettangoli e i quadrati nei quali mi sono persa e sui quali non voglio indagà … mi siedo e cerco di cogliere alcuni spunti contenuti nei nostri scambi.
La cura dell’altro mi fa pensare ad una frase di S. Francesco (che non amo particolarmente nel suo approccio al trascendente, ma del quale apprezzo alcune intuizioni geniali/divine): “siate l’un per l’altro padre, madre, sorella, fratello”. In questo modo ci suggerisce modalità diverse di prenderci cura.
Vorrei sottolineare inoltre l’importanza della “scelta”. Si tratta sempre di fare una scelta, che può essere una svolta ad un certo punto della vita, o quel concetto dinamico che ci abita ogni giorno. A volte la interpretiamo nel modo corretto, cioè più funzionale possibile ad un criterio di giustizia ed equità che ci muove; altre volte invece non riusciamo a buttarci, a rischiare e magari optiamo per una strada diciamo meno “audace”.
Credo che al fondo di ogni considerazione debba necessariamente esserci la fedeltà a se stessi. Se la nostra riflessione, la nostra coscienza, o anche semplicemente le nostre condizioni del momento, non ci consentono di sentire, di percepire, di osare, accettiamolo. E accettiamoci.
Ma facciamo sì che, per quanto possibile, anche se chiudiamo gli occhi per ritemprarci, non abbandoniamo la ricerca. Che sia un riposo vigile.
Forse a qualcuno ho già detto questa cosa … Spesso mi guardo intorno durante l’eucaristia della domenica e mi dico: “dove altro potrei trovare tante persone ‘di spessore’ (passatemi il termine) riunite tutte insieme?”
Non sono un tipo che fa smancerie, ormai mi conoscete un po’, ma lo penso davvero. Vedo sedute attorno alla mensa persone sempre in ricerca, persone che si impegnano per il sociale, per la politica, per la comunità stessa. E sono felice di esserci.
Riguardo al terreno neutro, credo che di fatto nella vita non ne esistano e che sia comunque opportuno prendere posizione. Anche se questo prendere posizione non significa necessariamente ingaggiare una guerra contro qualcuno a favore di qualcun altro. Accolgo le suggestioni di Knitter nel libro “Senza Buddha non potrei essere cristiano” in cui spiega come non si possa “portare pace” senza “essere pace”. Il buddismo insegna come schierarsi in modo non-violento, conservando l’armonia interiore.
Cose difficili, certo, ma bellissime. Chissà che non possano esserci utili in questa nostra riflessione.
Per concludere, sono favorevole alle iniziative “di uscita” nel quartiere e anche oltre. Credo che sia un modo per non isolarci, per rimanere sempre in contatto con la realtà del luogo in cui siamo incardinati, per far conoscere La Sosta, ma anche – perché no – per far conoscere la comunità.
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MARZIA BACCI

Entro in queste mail con qualche resistenza dovuta alla mia difficoltà nello scrivere al computer e al disagio nel parlare senza avere davanti le facce degli interlocutori. La parola indifferenza mi sollecita qualche riflessione. Quello che mi sembra grave è la conseguenza dell’indifferenza e cioè la solitudine. Sono soli i soggetti lasciati nel loro disagio e da soli devono trovare le forze e le capacità per reagire. Spesso la reazione è sbagliata e violenta e questo allora suscita notizia e sdegno, spesso è contro se stessi e allora suscita commozione e pena, il lavoro capillare, quotidiano nel trovare un lavoro, una abitazione, una collocazione sociale che queste persone devono affrontare ogni giorno è tremendo e spesso senza esito. Parlo di disabili, di immigrati, di anziani e di diversi. Nel mio lavoro vedo quotidianamente la fatica di genitori di bambini disabili che chiedono attenzione e aiuto e il risultato è deludente, e conoscete la storia di mia nipote che a 22 anni vive la sua vita con caparbietà, ma in solitudine. Entrando nel progetto La Sosta ho provato le stesse sensazioni che sento in situazioni che descrivevo sopra, allora ho agito, mi sono sentita coinvolta. Non giudico chi non ci segue dico solo che esperienze come questa mi danno molto, mi fanno ancora crescere (nonostante l’età ….) e condividerle con persone care e persone nuove mi fa stare bene.