Un regime di apartheid. L’arma del boicottaggio contro la deriva discriminatoria di Israele

Claudia Fanti
Adista Documenti n°20/2012

Prendere posizione contro Israele non è, come noto, la strada migliore per mettersi al riparo dalle polemiche. Ne sa qualcosa il Premio Nobel per la letteratura Günter Grass, travolto da una valanga di critiche per aver definito Israele, nella sua poesia “Quel che deve essere detto”, come potenza nucleare in grado di minacciare la pace del mondo, e immediatamente dichiarato dal governo israeliano “persona non grata”.

Appare dunque tutt’altro che facile la decisione di un altro Premio Nobel (per la pace), l’arcivescovo emerito di Città del Capo Desmond Tutu, di sostenere la campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele, allo scopo di obbligare il governo, scrive l’arcivescovo in un articolo pubblicato dal quotidiano della Florida Tampa Bay Times (1 maggio), «a porre fine alla sua lunga occupazione del territorio palestinese e ad estendere l’uguaglianza di diritti ai cittadini palestinesi vittime di circa 35 leggi discriminatorie».

L’articolo di Tutu, per sua stessa ammissione il più duro da lui mai scritto, risponde alla lettera con cui circa 1.200 rabbini statunitensi hanno chiesto ai cristiani di non «unirsi alla campagna di disinvestimenti selettivi» nei confronti di quelle compagnie che traggono vantaggio dall’occupazione, in quanto tale posizione pregiudicherebbe «la relazione tra ebrei e cristiani costruita lungo decenni».

Una posizione – quella del boicottaggio delle compagnie Caterpillar, Motorola e Hewlett Packard, accusate di coinvolgimento nelle pratiche di apartheid portate avanti dal governo israeliano – che è invece rivendicata dallo United Methodist Kairos Response – un movimento di pressione interno alla Chiesa metodista creatosi in risposta al Documento Kairos Palestina (l’appello lanciato da un gruppo di leader cristiani di diverse confessioni per mettere la parola fine all’eterno conflitto tra i popoli della Terrasanta; v. Adista n. 6/10) – e che sta valutando di adottare anche la Chiesa Presbiteriana.

Che di apartheid si tratti ne è convinto Desmond Tutu, il quale cita al riguardo il Rapporto 2010 di Human Rights Watch, così come ne è convinto il noto giornalista e pacifista israeliano, oggi 89enne, Uri Avnery, fondatore del movimento pacifista Gush Shalom (in lingua ebraica, “il blocco della pace”), secondo il quale «il regime di apartheid già stabilito nei territori occupati si sta estendendo all’interno dello stesso Israele» cosicché «entro pochi anni avremo un regime di apartheid in perfetta regola in tutto il Paese, con una minoranza ebrea impegnata a comandare su una maggioranza araba palestinese».

Di seguito, in una nostra traduzione dall’inglese, l’articolo di Desmond Tutu, tratto dal Tampa Bay Times (1/5) e quello di Ury Avnery, ripreso dal sito di Gush Shalom (24/4; http://gush-shalom.org).

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ISRAELE, DUE PESI E DUE MISURE

Desmond Tutu

È passato già un quarto di secolo da quando andavo di paese in paese nelle zone rurali degli Usa esortando gli statunitensi, specialmente gli studenti, ad esercitare pressioni a favore del boicottaggio in Sudafrica. Oggi, purtroppo, è il momento di intraprendere un’azione simile per obbligare Israele a porre fine alla sua lunga occupazione del territorio palestinese e ad estendere l’uguaglianza di diritti ai cittadini palestinesi vittime di circa 35 leggi discriminatorie.

Sono arrivato a questa conclusione in maniera lenta e penosa. Sono consapevole del fatto che molti nostri fratelli e sorelle ebrei, il cui contributo è stato tanto decisivo nella lotta contro l’apartheid sudafricano, non sono ancora disposti a guardare in faccia il regime di apartheid stabilito da Israele e dal suo attuale governo. Sono enormemente preoccupato che il fatto di porre tale questione possa creare malessere ad alcuni rappresentanti della comunità ebraica con cui ho lavorato strettamente ed efficacemente per decenni. Ma non posso ignorare la sofferenza palestinese a cui ho assistito, né le voci dei coraggiosi ebrei preoccupati dalla deriva discriminatoria di Israele.

Negli ultimi giorni, circa 1.200 rabbini statunitensi hanno firmato una lettera – programmata in maniera che coincidesse con le risoluzioni della Chiesa Metodista Unita e della Chiesa Presbiteriana (Usa) – per chiedere ai cristiani di non «unirsi alla campagna di disinvestimenti selettivi nei confronti di certe compagnie i cui prodotti sono utilizzati da Israele». Sostengono che una «prospettiva unilaterale» relativa al disinvestimento, anche quello selettivo di compagnie che si avvantaggiano dell’occupazione, come nella risoluzione di metodisti e presbiteriani, «pregiudichi la relazione tra ebrei e cristiani costruita lungo decenni».

Per quanto siano senza dubbio benintenzionati, credo che i rabbini e altre persone che si oppongono al disinvestimento commettano purtroppo un errore. La mia voce si alzerà sempre in appoggio dei legami tra cristiani ed ebrei e contro l’antisemitismo, detestato e temuto da ogni persona sensibile. Ma questa non può essere una scusa per non fare nulla e restarsene ai margini mentre i governi israeliani che si succedono continuano a colonizzare la Cisgiordania e a promuovere leggi razziste.

Ricordo bene le parole del reverendo Martin Luther King Jr. nella sua Lettera dal carcere di Birmingham, nella quale confessa ai suoi «fratelli cristiani ed ebrei» di sentirsi «profondamente defraudato dai bianchi moderati… che rispettano molto più l’ordine che la giustizia; che preferiscono la pace negativa che presuppone assenza di tensioni alla pace positiva che implica la presenza della giustizia; che dicono costantemente “sono d’accordo con te riguardo agli obiettivi che persegui ma non posso trovarmi d’accordo con i tuoi metodi di azione diretta”; che credono, in maniera paternalista, di poter stabilire il calendario per la libertà umana degli altri…».

Le parole di King descrivono con precisione la ristrettezza di vedute di 1.200 rabbini che non si stanno unendo ai coraggiosi palestinesi, ebrei e internazionalisti nelle comunità isolate della Cisgiordania per protestare pacificamente contro il furto della terra palestinese operato da Israele al fine di costruire insediamenti illegali e il muro di separazione. Non possiamo permetterci di nascondere la testa sotto la sabbia mentre un’incessante attività colonialista annulla la possibilità della soluzione dei due Stati.

Se non riusciamo a realizzare questo in un futuro prossimo, arriverà il giorno in cui i palestinesi smetteranno di lottare per la creazione di uno Stato proprio separato e rivendicheranno il loro diritto a votare per il governo in Israele, in un unico Stato che garantisca la democrazia. Israele ritiene inaccettabile tale opzione e, tuttavia, sta facendo di tutto perché si realizzi.

Molti sudafricani neri si sono recati nella Cisgiordania occupata e hanno provato orrore di fronte alle strade costruite solo per i coloni ebrei e su cui i palestinesi non possono mettere piede e di fronte alle colonie per ebrei edificate sulla terra palestinese in violazione del diritto internazionale.

Molti sudafricani neri e altre persone di tutto il mondo hanno letto il rapporto 2010 di Human Rights Watch che «descrive il sistema di leggi, norme e servizi di “due pesi e due misure” con cui opera Israele per le due popolazioni in zone della Cisgiordania sotto il suo esclusivo controllo, offrendo servizi preferenziali, sviluppo e benefici per i coloni ebrei e imponendo invece le più dure condizioni ai palestinesi». Questo, secondo la mia opinione, si chiama apartheid. Ed è indifendibile. E abbiamo un bisogno disperato che altri si uniscano ai coraggiosi rabbini di Jewish Voice for Peace per parlare in maniera chiara della dominazione di Israele sui palestinesi in corso ormai da tanti decenni.

Queste sono le parole più dure che abbia mai scritto. Ma rivestono un’importanza vitale. Israele non solo sta danneggiando i palestinesi, ma si sta anche facendo del male. Può essere che a questi 1.200 rabbini non piaccia sentire quello che ho da dire, cioè che è arrivata l’ora che si tolgano la benda dagli occhi e prendano chiaramente coscienza del fatto che Israele sta diventando uno Stato di apartheid, come lo era il Sudafrica, negando l’uguaglianza di diritti ai palestinesi, e che non si tratta di un pericolo futuro, come hanno indicato i tre ex primi ministri Ehud Barak, Ehud Olmert e David Ben Gurion, ma di una realtà di oggi. Questa dura realtà sofferta da milioni di palestinesi richiede persone e organizzazioni di coscienza che boicottino compagnie – come, per esempio, Caterpillar, Motorola Solutions e Hewlett Packard – che traggono vantaggio dall’occupazione e dalla sottomissione dei palestinesi.

Tale azione porta con sé un’enorme differenza rispetto all’apartheid sudafricano, perché può creare un futuro di giustizia e di uguaglianza tanto per i palestinesi quanto per gli ebrei in Terra Santa.

CONFESSIONI DI UN OTTIMISTA

Uri Avnery

Sono un ottimista. Punto. Senza se, senza ma, senza forse. Probabilmente è qualcosa di genetico. Mio padre era un ottimista. Anche quando, a 45 anni, fu costretto a fuggire dalla Germania natale verso un piccolo e arretrato Paese del Medioriente, non si scoraggiò. Nonostante la difficoltà di adattarsi a un nuovo Paese, a un clima caldo, al duro lavoro fisico e ad una povertà assoluta, era felice. Perlomeno aveva salvato sua moglie e i suoi quattro figli, il più piccolo dei quali ero io.

Oggi, nel 64.mo compleanno di Israele (secondo il calendario ebreo), continuo ad essere un ottimista. Qualche tempo fa mi sono imbattuto, in occasione di un matrimonio, nello scrittore Amos Oz e abbiamo parlato di questa cosa strana, il mio ottimismo. Oz mi ha detto di essere pessimista. Essere pessimista, ha sostenuto, è una condizione in cui si vince sempre. Se le cose vanno bene, sei felice. Altrimenti, lo sei per il fatto di aver visto giusto.

Il problema del pessimismo, ho replicato, è che non porta da nessuna parte. Il pessimismo solleva da qualunque impulso a fare qualcosa. Se le cose vanno male in ogni caso, perché preoccuparsi? Il pessimismo è un atteggiamento di comodo. Ti permette persino di disprezzare gli ottimisti che ancora lottano per un mondo migliore. L’ottimismo è cosa da semplici.

È questo il punto. Solo gli ottimisti possono lottare. Se non credi in un mondo migliore, in un Paese migliore, in una società migliore, non puoi lottare per questo. Puoi solo sederti in poltrona davanti alla televisione, scuotere la testa di fronte alla stupidità della razza umana e della tua gente in particolare e sentirti superiore.

Ogni volta che confesso di essere ottimista mi guardano con disdegno. Per caso non vedi quello che sta succedendo intorno a te? Era questo lo Stato che immaginavi il 14 maggio 1948 ascoltando per radio il discorso di Ben-Gurion (il discorso letto da David-Ben Gurion, in occasione della dichiarazione di indipendenza dello Stato di Israele, alla scadenza del Mandato britannico della Palestina, ndt) e preparandoti per la battaglia della notte?

No, non immaginavo uno Stato come questo. Io e i miei compagni immaginavamo uno Stato ben diverso. E, tuttavia, continuo ad essere ottimista.

Quando parlo di questo mi viene sempre in mente un momento concreto della mia vita. Era l’ottobre del 1942 e il mondo tremava. In Russia le truppe naziste erano giunte fino a Stalingrado e aveva avuto inizio la battaglia titanica. Non c’erano dubbi sul fatto che i tedeschi avrebbero conquistato la città e proseguito la loro avanzata. Più a sud, l’invincibile Wehrmacht era penetrata nel Caucaso. Da qui la rotta indicava direttamente la Palestina attraverso la Turchia e la Siria. Il celebre Afrika Korps di Erwin Rommel aveva rotto la linea britannica e si era insediato nel villaggio egiziano di El Alamein, a 106 chilometri da Alessandria. Da lì alla Palestina era solo questione di giorni. Già un anno prima i nazisti avevano occupato Creta in quella che era stata la prima invasione aerotrasportata della storia.

La situazione era chiara per chiunque. Dal nord, da occidente e dal sud, il colosso militare nazista si spostava inesorabilmente verso la Palestina con l’obiettivo di distruggere il semi-Stato ebraico. Il feroce antisemitismo di Adolf Hitler non lasciava pensare ad altra conclusione. I nostri padroni britannici, ovviamente, la pensavano allo stesso modo. Avevano già inviato le loro mogli e i loro figli in Iraq e si tenevano pronti a fuggire al primo segnale di avanzata tedesca in Egitto.

La Haganah, la nostra principale organizzazione militare segreta, era impegnata in preparativi frenetici. Come gli eroi di Masada che circa 1.900 anni prima si erano suicidati collettivamente prima di cadere nelle mani dei romani, i nostri combattenti si stavano concentrando sulle colline del Carmelo per lottare e vendere cara la propria pelle. Avevo appena compiuto 19 anni e vivevo a Tel Aviv, una città che nessuno pensava neppure di difendere. Sapevamo che era la fine.

Quando la guerra terminò con il collasso totale della Germania nazista, si pubblicarono molti libri sull’argomento. Si seppe così che la terribile crisi dell’ottobre del 1942 era esistita solo nella nostra immaginazione. L’invasione aerotrasportata di Creta, lungi dal costituire una brillante vittoria, era stata in realtà un disastro. Le perdite tedesche erano state così elevate che Hitler aveva proibito di ripeterla. (…). Le truppe tedesche giunte alla regione del Caucaso erano completamente esauste e prive della capacità di marciare verso sud. Non potevano neppure pensare di arrivare nella lontana Palestina. E, cosa più importante per noi, Rommel era arrivato a El Alamein con le ultime gocce di benzina rimaste. Hitler, che considerava la campagna nordafricana come un’onerosa distrazione dall’obiettivo prioritario, la Russia , si rifiutava di dilapidare nel deserto la sua limitata benzina. Della Palestina non gli importava un tubo. (…).

Morale della storia: anche in mezzo a una situazione completamente disperata, non si conoscono mai i fatti così bene da poter perdere la speranza.

Ma non serve guardare a 70 anni fa. Basta osservare gli ultimi avvenimenti. Qualcuno di noi in Israele credeva fino a un anno fa che l’apatica e qualunquista gioventù del nostro Paese avrebbe innescato una protesta sociale senza precedenti? Se qualcuno lo avesse detto una settimana prima che avvenisse lo avrebbero coperto di risate. E sarebbe successo lo stesso a chiunque avesse vaticinato, all’inizio dell’anno scorso, che gli egiziani (niente meno!) si sarebbero sollevati e avrebbero rovesciato il dittatore. Una primavera araba? Ma figuriamoci!

Quando tengo una conferenza in Germania, chiedo sempre: «Se qualcuno di voi ha mai pensato, subito prima che accadesse, di vedere con i propri occhi la caduta del Muro di Berlino, per favore alzi la mano». Non ho mai visto nessuna mano alzarsi. E l’avvenimento più grande di tutti, l’implosione dell’Unione Sovietica, chi lo ha visto sopraggiungere? Non gli Stati Uniti, con il loro gigantesco apparato di intelligence di vari milioni di dollari. E neppure il nostro Mossad, con i suoi molti collaboratori tra gli ebrei sovietici. Nessuno ha previsto neppure la rivoluzione iraniana che ha espulso lo scià. E lo stesso discorso si applica a molte catastrofi provocate dall’essere umano durante la mia vita, dall’Olocausto ad Hiroshima.

Cosa dimostra questo? Niente, eccetto il fatto che non si può prevedere nulla con certezza. Gli eventi umani sono realizzati dagli esseri umani, sono gli esseri umani che danno forma agli avvenimenti. Questa può essere una buona ragione per il pessimismo, ma anche per l’ottimismo. Possiamo evitare i disastri. Possiamo creare un futuro migliore. E per questo c’è bisogno di ottimisti che credano che si può fare. Di molti ottimisti.

Nel 64.mo anniversario dell’Indipendenza di Israele la situazione è scoraggiante. La pace è una parola sporca. La maggior parte degli israeliani dice: «La pace sarebbe meravigliosa. Pagherei qualsiasi prezzo per ottenerla. Ma, purtroppo, è impossibile. Gli arabi non ci accetteranno mai. Così la guerra continuerà per sempre». Ecco un pessimismo assai conveniente che ci assolve da ogni culpa e ci permette di continuare a non far niente.

La “soluzione dei due Stati”, l’unica soluzione reale che esista, sta passando in secondo piano. Il regime di apartheid già stabilito nei territori occupati si sta estendendo all’interno dello stesso Israele. Entro pochi anni avremo un regime di apartheid in perfetta regola in tutto il Paese, con una minoranza ebrea impegnata a comandare su una maggioranza araba palestinese. Nel caso improbabile che Israele si veda obbligato a concedere diritti civili ai palestinesi dello Stato ebraico in tutto il territorio storico, si trasformerebbe rapidamente in uno Stato arabo. Gli Stati Uniti, l’unico alleato che rimane ad Israele, sono entrati in un declino lento e irreversibile. La potenza emergente, la Cina, non ha memoria dell’Olocausto.

La disuguaglianza sociale è esacerbata in Israele, più che in qualunque Paese sviluppato. È tutto qui il frutto degli ideali del primo Israele. I fondamenti democratici dell’“unica democrazia del Medioriente” sono traballanti. Il Tribunale Supremo di Giustizia soffre l’assedio permanente di una banda di semi-fascisti insediati nel nostro governo, la Knesset sta diventando la triste caricatura di un Parlamento, la libertà in televisione e nei mezzi di comunicazione sta sperimentando un graduale processo di Gleichschaltung (termine tedesco usato per descrivere il processo compiuto dal nazismo per esercitare un controllo totale sull’individuo attraverso la coordinazione di tutti gli aspetti della società, della politica e del commercio, ndt).

Tale situazione può ancora peggiorare? Nel corso della mia lunga vita ho imparato che non c’è situazione così cattiva da non poterlo diventare ancor di più. Né leader così detestabile da scongiutare il fatto che il suo successore possa essere peggio. Ciò detto, possono esistere forze potenti in azione, invisibili e inudibili, che cambino le cose in meglio. È come una diga su un fiume. Dietro il muro della diga l’acqua sale lentamente, in silenzio, impercettibilmente. Finché un giorno il muro cede di colpo e l’acqua sommerge il paesaggio. Ciò non succederà se non faremo la nostra parte. Quello che facciamo – o che evitiamo di fare – fa parte del modello che cambia. Coltivare speranze e credere non basta. L’essenziale è fare e agire. È qui che ci troviamo, noi ottimisti incorreggibili.