Egitto. Morsi, quanto è diverso da Mubarak?

Elisa Ferrero
www.confronti.net

Il nuovo presidente egiziano sta governando senza cambiamenti sostanziali con il passato. Molti personaggi del vecchio regime si sono riciclati, il potere dei militari non è stato intaccato, la stampa non è davvero libera e la polizia torna a reprimere brutalmente. Ma la popolazione reagisce e torna nelle piazze.

A distanza di pochi mesi dall’insediamento (il 24 giugno scorso) del nuovo presidente Mohammed Morsi, l’Egitto pare ancora molto lontano dalla stabilità. Il governo di Morsi – e della Fratellanza musulmana che lo sostiene – non ha finora intrapreso alcuna seria politica di riforma democratica dello Stato né ha dato risposte adeguate alla domanda di giustizia sociale della popolazione, due richieste fondamentali della rivoluzione del 25 gennaio 2011. In sostanza, il governo laico pseudodemocratico di Mubarak è stato sostituito da un governo ugualmente pseudodemocratico, ma questa volta dal carattere «islameggiante».

Mentre sul piano della politica estera non si riscontrano grandi strappi con il passato, se si esclude il tentativo di estendere le alleanze egiziane (soprattutto economiche) a nuovi Paesi, ad esempio la Cina e la Turchia, senza per questo mettere a repentaglio quelle consolidate con Stati Uniti e Arabia Saudita, la politica interna desta invece gravi preoccupazioni. Pur avendo decapitato la giunta militare, mandando in pensione i vecchi generali, il presidente Morsi non ha minimamente intaccato il loro potere militar-economico. Sembra piuttosto aver optato per un patto di pacifica convivenza con i nuovi vertici militari da lui stesso nominati. Il Ministero dell’Interno non è stato in alcun modo riformato e la polizia è tornata indisturbata ai suoi metodi brutali.

Morsi, inoltre, ha riciclato diversi esponenti del vecchio regime, assegnando loro funzioni di leadership all’interno del suddetto Ministero, oppure ai vertici della stampa statale (che non è stata resa indipendente) e in altri ambiti vitali. In campo economico, il decantato progetto di rinascita dei Fratelli musulmani si è ridotto alla richiesta, in passato osteggiata dalla stessa Fratellanza, di un prestito al Fondo monetario internazionale, mentre la domanda dell’istituzione di un salario minimo per i lavoratori è stata finora ignorata. Morsi, in pratica, sta continuando la stessa politica economica di Mubarak (una delle ragioni scatenanti della rivoluzione), riservando un trattamento di riguardo alla classe d’imprenditori della quale fa parte la stessa leadership della Fratellanza.

Gli scioperi dei lavoratori che ne sono conseguiti sono stati repressi duramente e oggi si parla persino di introdurre nuove leggi di emergenza, molto simili a quelle di Mubarak. Le tensioni settarie, poi, sono in aumento, ma l’immobilità della presidenza Morsi al riguardo è del tutto paragonabile a quella del regime precedente. Infine, Morsi non ha mantenuto la promessa di rinominare una nuova Costituente (attualmente dominata dagli islamisti e boicottata da molti laici) che rappresenti la pluralità del Paese.

Proprio sulla nuova Costituzione è in corso la lotta più feroce, che ha polarizzato l’Egitto in laici e islamisti. Il punto più discusso è il ruolo della sharia, la cui implementazione (per lo meno nell’interpretazione che ne danno salafiti e Fratelli musulmani) metterebbe a serio rischio i diritti già acquisiti, e che si sperava di acquisire, di donne, minoranze religiose e singoli individui. Tuttavia, la questione del ruolo della sharia è solo la punta dell’iceberg. Infatti, mentre l’attenzione si concentrava sul dibattito religioso, sono sfuggiti all’osservazione alcuni articoli della nuova Costituzione che, secondo la bozza divulgata il 14 ottobre 2012, accorderebbero poteri pressoché illimitati al presidente, persino maggiori di quelli posseduti da Mubarak, con il pieno controllo del Parlamento, dell’esercito e dell’organismo preposto al controllo delle spese statali.

La sensazione, dunque, è che i Fratelli musulmani abbiano semplicemente occupato il posto lasciato vacante da Mubarak, affrettandosi a collocare i propri uomini in posizioni strategiche utili a controllare Stato e società, tradendo gli ideali di piazza Tahrir. Di fronte a questa situazione sono probabili nuove instabilità. Le critiche nei confronti dei Fratelli musulmani stanno aumentando rapidamente e le proteste sono già riprese, con qualche scontro violento. La nota positiva è che la società egiziana è ancora vigile, critica, combattiva e attenta alla vita pubblica. Ha imparato qualcosa di fondamentale dall’esperienza di piazza Tahrir e questo darà del filo da torcere a chiunque cercherà di riprodurre un regime autoritario.

Basti pensare alle tante campagne di sensibilizzazione che un tempo sarebbero state impensabili e che oggi, invece, obbligano la società egiziana a riflettere su problemi scottanti, come le diffuse molestie sessuali alle donne, i processi militari ai civili, la detenzione per reati di opinione o la discriminazione dei copti e di altre minoranze religiose. Il fatto che finalmente si parli apertamente di questi problemi, e si reagisca, non è cosa da poco. L’Egitto è ora costretto a guardarsi allo specchio. Inoltre – e questa, forse, è la notizia più positiva – va lentamente smascherandosi l’operazione di strumentalizzazione della religione attuata dai gruppi islamisti. Molti religiosi e sinceri fedeli musulmani si stanno finalmente ribellando. Pertanto, nell’incedere incerto, conflittuale e irto di ostacoli del nuovo Egitto, s’intravvede anche un faticoso percorso di evoluzione della coscienza civile collettiva.