Attualità di Ipazia di G.Beretta

Gemma Beretta
Via Dogana n. 105, giugno 2013

Qualche tempo fa sul Corriere della Sera (5/10/2012) è comparso un articolo di Marco Garzonio dal titolo evocativo Tre donne “forti” dietro tre padri della fede, un titolo che non fa merito al testo che va oltre il detto che “dietro a ogni grande uomo c’è una grande donna”. Il testo, infatti, mette in evidenza i ritratti di tre donne del cristianesimo tardo antico – Elena, Monica e Marcellina – sottolineando il ruolo non marginale che alcune donne ebbero nella formazione della chiesa cattolica. Chi siano queste tre donne, però, la lettrice non esperta di tarda antichità lo saprà soltanto dalla relazione che ciascuna di loro intrattenne con il ben più famoso congiunto: l’imperatore Costantino, di cui fu madre Elena, Agostino, di cui fu madre Monica e Ambrogio di cui fu sorella Marcellina.

L’invito ad approfondire la storia del cristianesimo, arricchendola della domanda sul tipo di relazione che gli uomini più importanti della sua epoca fondativa intrattennero con alcune donne è suggestiva, tanto più che Garzonio apre la sfida alla ricerca con arguzia, sorridendo, per esempio, della coppia «un po’ incestuosa» che si intravede tra il figlio Costantino e la madre Elena.

La questione, per altro, non sembra essere marginale nel cattolicesimo contemporaneo, prova ne sia il fatto che pochi giorni dopo l’elezione al pontificato di Papa Francesco, sul web è girata insistentemente un’affermazione forse attribuibile al neo pontefice – e forse no – che aveva al centro proprio tale questione: «Le donne sono naturalmente inadatte per compiti politici. L’ordine naturale e i fatti ci insegnano che l’uomo è un uomo politico per eccellenza, le Scritture ci mostrano che le donne da sempre supportano il pensare e il creare dell’uomo, ma niente più di questo». Le vite di Elena, Monica, Marcellina non sembrano mettere in questione questa affermazione, ma bisognerebbe leggere le fonti, ripassare al setaccio la documentazione rimasta, interrogare i non detti prima di concludere che il ritratto tramandato è effettivamente rispettoso del voler dire del soggetto del ritratto.

Ritratti di donne intelligenti e di talento ma simbolicamente subalterne e seconde agli uomini con i quali si mettono in relazione non sono, per nostra fortuna, gli unici di cui abbiamo traccia nella storia del mondo tardo antico. Marcellina visse nell’Occidente cristiano proprio negli stessi anni (tra il IV e il V sec. d.C.) in cui la filosofa Ipazia viveva in Oriente. Come Marcellina, anche Ipazia fu il punto di riferimento di un uomo cristiano, Sinesio di Cirene, che proprio come Ambrogio divenne poi vescovo della chiesa cattolica. Diverso fu però il segno storico lasciato dalla relazione Ipazia/Sinesio rispetto a quello lasciato dalla relazione Marcellina/Ambrogio: se, come è probabile, il pensiero e l’azione di Ambrogio furono segnati dall’influsso di Marcellina, sembra però anche che egli non abbia sentito il bisogno di nominare questo debito nei confronti della sorella. Diversamente, nella sua opera Sinesio di Cirene tramandò parole inequivocabili rispetto al tenore della sua relazione con Ipazia, «madre, sorella e maestra, mia benefattrice in tutto e per tutto, essere e nome quant’altri mai onorato!»[1]

Oltre a Sinesio, nell’ambiente cristiano del tempo anche Socrate di Costantinopoli rende immortale il ruolo magistrale di Ipazia nella biografia a lei dedicata nel VII libro della sua Storia Ecclesiastica. La storia di Ipazia compare qui nel mezzo di una galleria di ritratti di uomini saggi, per lo più cristiani, che con la loro saggezza sono la realizzazione in terra di un ideale religioso di tensione al divino che secondo Socrate – cristiano di cultura ellena – realizza il vero ideale del cristianesimo. L’affermazione è paradossale e come tale non implica la conversione di Ipazia al cristianesimo ma al contrario rimanda all’esistenza di un cristianesimo strutturato in modo tale da potersi permettere di avere tra i suoi punti di riferimento una donna ellena. Lo sottolineo: il cristianesimo di Socrate e di Sinesio si permetteva di avere tra i suoi punti di riferimento una donna e per di più una donna non cristiana. “Per la magnifica libertà di parola e azione (parresia) – scrive Socrate –, che le veniva dalla sua cultura (paideia), Ipazia accedeva, in modo assennato, al cospetto dei capi della città; non era motivo di vergogna per lei lo stare in mezzo agli uomini. Infatti, a causa della sua straordinaria saggezza, tutti la rispettavano profondamente e provavano verso di lei un timore reverenziale. Per questo motivo allora l’invidia si armò (contro di lei)”.[2] Il ruolo centrale nel discorso di Socrate è rivestito dalla cultura (paideia): è l’acquisizione della paideia che permette a Ipazia di esercitare la libertà di parola e azione (parresia)[3] che la mette al centro della scena politica della città al punto da far sorgere contro di lei l’invidia. Un’invidia che si materializza nello scontro frontale tra lei e il neo insediato vescovo della città, Cirillo di Alessandria, al quale Socrate fa risalire la responsabilità politica dell’assassinio della filosofa.

L’autore della Storia, un uomo cristiano praticante ma critico della configurazione che la chiesa dominante stava assumendo, colloca Ipazia tra gli esponenti di un mondo di cultura che fa da modello per uno stile di vita cristiano già residuale al tempo (ma temporaneamente sostenuto dall’imperatrice Eudocia, emula di Ipazia)[4]: la capacità di incontrare dio e di aspirare al suo perdono attraverso la cultura intesa come esercizio della ragione a partire dalla conoscenza di sé e dalla lettura dei testi, attraverso la condivisione della responsabilità nella gestione della cosa pubblica. Questo stile di vita – che è anche uno stile di esercizio di potere – va in rotta di collisione con il cattolicesimo che si incarna in Cirillo, vescovo cattolico di Alessandria, dedito alla ricerca di un potere che, sempre a detta di Socrate, era andato «oltre il limite consentito all’ordine sacerdotale».[5]

Per Socrate il cristianesimo trova unità nella molteplicità delle espressioni dei riti e nella continua ricerca del significato dei testi; per Cirillo l’unità del cristianesimo si riconosce nel primato di una chiesa cattolica che si conferma una attraverso la condivisione di dogmi che assurgono a canone immodificabile. La chiesa di Socrate promuove un modello di potere che vede al suo centro una relazione: l’uomo di potere che si vincola al giudizio dell’uomo o della donna saggia. La chiesa di Cirillo promuove un modello di potere che vede al suo centro l’uno-uomo insignito dall’alto, che combatte ciò che si discosta dal dogma e dal solo rituale riconosciuto come valido e sacro. Quella di Cirillo è la stessa chiesa di Ambrogio e di Agostino. È la chiesa già dominante ai tempi di Ipazia; la chiesa che ha vinto su altre configurazioni possibili dello stesso movimento cristiano delle origini. Può aver avuto un peso in questa visione della chiesa e del potere la relazione che i suoi fondatori vissero e significarono con le donne da cui tanta ispirazione e forza paiono aver preso senza riuscire, tuttavia, a dare a questo scambio una forma simbolica tale da lasciare una traccia nel tempo?

Se è questo che aveva in mente Marco Garzonio nello scrivere il suo brillante articolo, allora non posso che concordare con lui: il tempo è oggi maturo per una riflessione da parte di donne e di uomini su questo punto.



[1] Sinesio, Lettera 16, in Opere di Sinesio di Cirene, a cura di A. Garzya, Utet, Torino 1989.

[2] Socrate, Storia Ecclesiastica, VII 15. Per una versione moderna della Storia Ecclesiastica vedi Socrate de Constantinople, Histoire Ecclésiastique, Les Editions du Cerf, Paris 2004.

[3] Per un approfondimento sul concetto di parresia anche nella filosofia di Ipazia vedi S. Ferrando, Michel Foucault: la politica presa a rovescio. La pratica antica della verità nei corsi del Collège de France, Franco Angeli, Milano 2012.

[4] Su Eudocia vedi Socrate, Storia Ecclesiastica, VII 21.

[5] Socrate, Storia Ecclesiastica, VII 7.