Il Dio che non è “Dio” di G.Squizzato

Gilberto Squizzato ha pubblicato in questi giorni per i tipi di Gabrielli editore “Il Dio che non è ‘Dio’. Credere oggi, rinunciando a ogni immagine del divino”  (pp. 180, euro 16) che può essere considerato un contributo appassionato e un po’ “di frontiera” al prossimo seminario che le Cdb terranno il prossimo autunno a Castel San Pietro (BO). Se ne può sapere di su www.gabriellieditori.it e più chiedere copia a scrivimi@gabriellieditori.it

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Cosa pensiamo (a chi pensiamo) quando diciamo Dio? Se l’uomo è stato creato “a immagine e somiglianza di Dio” chi lo autorizza a pensare a un Dio fatto, al contrario, a immagine e somiglianza dell’uomo? Per gentile concessione dell’editore Gabrielli anticipiamo un estratto dall’ultimo libro di Gilberto Squizzato “Il Dio che non è Dio” di (Gabrielli editori) e la presentazione firmata da Christian Raimo. (www.micromega.net)

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LO SCANDALO DEL SILENZIO DI DIO DAVANTI AL DOLORE UMANO

Christian Raimo

Sono un (aspirante) cristiano anomalo. I miei genitori decisero di non battezzarmi alla nascita, forse per prendere le distanze dal cristianesimo automatico delle loro famiglie e soprattutto dei loro piccoli paesi d’origine. Ma questa sfortuna si è rivelata in parte la mia felice colpa, proprio perché a quattordici anni quando la mag­gior parte dei miei amici, reduci dall’ennesimo catechismo prati­cato controvoglia, smetteva di andare a messa e di interessarsi a qualunque cosa che avesse a che fare con Dio, io mi misi a leggere i Vangeli per conto mio, e ricevetti il battesimo a quindici anni, la comunione e la cresima a diciassette. Sarà anche per questo motivo probabilmente che ogni volta che ho a che fare con un libro o con un film di Gilberto Squizzato, la reazione che ho non è soltanto quella di essere spiazzato – scandalizzato? – da uno dei pensatori cattolici più critici esistenti oggi in Italia, ma anche quella di tro­vare un fratello (raro) in quel percorso così poco frequentato per chi cerca di vivere nella Chiesa: quale è la via per poter essere dei cristiani adulti, per poter emanciparsi da quel “cristianesimo infan­tile” come lo definì quel Dietrich Bonhoeffer evocato da Squizzato come guida di questa ricerca?

Ma la qualità della ricerca che Squizzato porta avanti è a sua volta singolare, quasi isolata nella scena italiana: perché se da una parte sembra che davvero ci sia un risveglio dell’interesse dei lettori per il dibattito intorno alla Chiesa di oggi, tanto che le librerie sono invase da testi cattolici o anti-clericali (il papa e Enzo Bianchi se la vedono con Gianluigi Nuzzi e Pierluigi Odifreddi), è indubitabile che nessuno di questi autori riesca a innescare una riflessione che sia al tempo stesso capace di rendere conto della questione socia­le – che si rivela un’urgenza per una Chiesa sempre più “fuori dal mondo” che “nel mondo” – e del rivoluzionario dibattito teologico del Novecento.

L’infantilismo di molti credenti e non credenti degli ultimi anni ha relegato la questione cristiana all’interno di un atteggiamento di difesa muscolare o di idiosincrasia per le posizioni morali della Chiesa, quali aborto, eutanasia, omosessualità, etc… Come se il rin­novamento potesse diventare sinonimo di riduzione a un grande super-ego morale che smettesse di interrogarsi su un dio che salva e ci lasciasse con un dio che ci fa sentire dalla parte del giusto.

Per questo la prospettiva di Squizzato è così preziosa, perché riesce a circumnavigare la “questione morale” e appuntare invece alla Chiesa tre critiche che hanno valore se tutte si tengono insieme. L’aspetto teologico, quello sociale e quello culturale: non c’è vera trasformazione se non ci si assume il compito di considerare quella che potrebbe ancora essere oggi una Rivoluzione cristiana, più che una Riforma, portando a compimento la missione che s’era data il Concilio. È una forma assai impegnativa di militanza cristiana, e per questa ragione Squizzato è una “mosca bianca”, che sa rico­noscere al tempo stesso l’importanza sociale di un teologo-profeta come David Maria Turoldo come quella teologica di un prete anti-fascista come Primo Mazzolari. Ma con lui dobbiamo ammettere che non c’è altra via se non vogliamo ridurre il messaggio evangeli­co a una sorta di religiosità moraleggiante o a un teismo per devoti.

Un esempio per farmi capire. Qualche anno fa fui colpito – come tutti in Italia – dalla vicenda Welby. Un uomo ridotto a un alletta­mento che lo rendeva dipendente in tutto e per tutto da macchi­ne e assistenti, che chiedeva dopo 17 anni di sofferenza in queste condizioni di morire attraverso un’eutanasia che alla fine gli verrà praticata. Quello che veramente mi sconvolgeva era leggere i libri di Welby, in cui raccontava la quotidianità della sua pena, ma an­che un autentico rapporto con un Dio che aveva amato in gioventù e dal quale da anni non sentiva più una risposta. Welby – diver­samente dai due schieramenti che appoggiavano o condannavano la sua scelta – sembrava porsi a un livello diverso. Ne faceva una questione teologica: io prego, diceva, ma non ho risposta. Di fron­te a un’inquietudine così dolorosa, io mi chiedevo perché nessun cristiano o presunto tale (io compreso) non fosse andato in ospe­dale e si fosse messo in ginocchio di fronte a questo mistero. Per­ché invece di imbastire tavole rotonde e pseudo dibattiti politici, nessuno s’interrogava sul mistero di un Dio che non risponde a un sofferente?

Ecco, con l’infinita stima e l’affetto evidente che ha per i suoi lettori, Squizzato si pone domande di questo tipo: se le pone sen­za farsi sconti sulle contraddizioni logiche di una teologia spesso troppo indulgente con un metodo filosofico o con l’esigenza di una condizionatezza sociale e storica. Se anche non vogliamo seguire l’analisi di questo libro, il suo spietato rigore argomentativo, non possiamo però esimerci dal riconoscerci il dovere di una responsa­bilità rispetto al nostro rapporto con Dio. Come chiosava San Pa­olo ai Corinzi: «Quand’ero bambino parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma divenuto uomo ciò che era da bambino l’ho abbandonato. Ora vediamo come in uno specchio in maniera confusa. Ma allora vedremo faccia a faccia. Ora cono­sco in modo imperfetto ma allora conoscerò perfettamente come anch’io sono conosciuto» (1Cor 13,11-12). Questa sfida esistenzia­le è oggi anche un dovere culturale.

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DIO NON E’ IL NOME DI DIO

Gilberto Squizzato

Ci siamo mai interrogati sulle parole che usiamo, compresa quella così decisiva per i credenti che è la parola “Dio”? Per onestà nei nostri e nei suoi confronti non possiamo trascurare di interrogarci su una questione così fondamentale, perché se no rischiamo subito di andare fuori strada.

Noi tutti credenti che siamo abituati a invocarlo a ogni piè sospinto crediamo di avere ben chiaro cosa (cioè “chi”) intendiamo quando diciamo “Dio” (lo pensano, paradossalmente, anche gli atei, per poterlo negare!). Seppur con una certa approssimazione, ecco lì davanti a noi l’immagine che ce ne siamo fatti: un “essere” vicino e insieme lontano al quale – su suggerimento dei nostri grandi pittori- attribuiamo caratteri antropomorfi; un essere assolutamente smisurato, irraggiungibile ma incombente su di noi, eterno, onnisciente, collocato in qualche parte dell’Universo e dotato di occhi che vedono ovunque e che ci spiano da ogni parte…

Ammettiamolo: è proprio il Dio padre, un po’ anzianotto ma ancora vigoroso, spesso corrucciato, autorevole e sanzionatorio, sicuramente adornato di una bella barba bianca, avvolto in mantelli svolazzanti e circondato da creature alate che chiamiamo angeli, che hanno visualizzato per i nostri occhi bisognosi d’infantile concretezza i grandi (e meno grandi) pittori che hanno creato l’iconografia cristiana. Michelangelo, abbiamo visto, ma anche Tiziano, per fare un altro esempio, nella superba pala dei Frari a Venezia dove possiamo vedere Dio Padre nella parte alta del dipinto mentre attende la Vergine Maria che Egli sta chiamando a sé, nel cielo, in premio della sua fedele obbedienza al grandioso piano della Redenzione di cui è stata la prima generosa collaboratrice.

Dante Alighieri, duecento anni prima, rispetto a Michelangelo aveva tenuto in una considerazione meno infantile dei lettori della sua Commedia, perché alla fine del suo viaggio ultraterreno, quando tenta di penetrare nel mistero di Dio, racconta che il suo intelletto viene meno e che la sua anima si placa in una illuminazione che gli dona la visione –indescrivibile- “dell’amor che move il sole e l’altre stelle”. Così pure Jeronimus Bosh, mezzo secolo prima di Michelangelo, quando rappresenta l’assunzione della anima beate nell’Empireo si astiene dall’offrire qualunque raffigurazione di Dio Padre. Nel dipinto non si vede nessun vecchio paterno e accogliente con la barba bianca proposto con un’immagine antropomorfa: piuttosto appare una grande luce di profondità e intensità smaglianti.

Insomma, Dante e Bosch la Bibbia l’avevano letta molto bene: avevano capito che è l’uomo ad esser stato creato a immagine di Dio, e non Dio (Padre) a dover essere rappresentato a somiglianza dell’uomo! E così, sia Dante che Bosch, a loro modo e con largo anticipo, avevano già ribattuto all’obiezione ateistica di Feuerbach secondo cui Dio non sarebbe che una proiezione dell’uomo, una rappresentazione del suo desiderio inappagato di trascendere se stesso.

Perché questi due grandi rifiutarono ogni rappresentazione del Padre e usano l’immagine della luce? Forse anche perché erano andati su Wikipedia e avevano digitato “Dio/etimologia”? Proviamo a farlo anche noi. Troveremo questa interessantissima spiegazione.

“Il termine “dio” deriva dal latino deus (a sua volta collegato ai termini, sempre latini, di divus-“splendente” e dies-“giorno”) proveniente dal termine indoeuropeo deiwos. Il termine “dio” è connesso quindi con la radice indoeuropea: div/dev/diu/dei, che ha il valore di “luminoso, splendente, brillante, accecante” collegati ad analogo significato con il sanscrito dyáuh. Allo stesso modo si confrontino il greco δῖος (diòs) che è il genitivo di Zeus, il sanscrito dèvas, l’aggettivo latino divus, l’ittita šiu. La radice indoeuropea da cui viene divus e successivamente “dio” significa dunque “luce”; tale appellativo si spiega con il fatto che in origine l’epiteto di “luminoso” indicava l’apparizione degli dei indoeuropei del cielo che si manifestavano sia con la luce del giorno, sia con la luce del lampo (come più tardi i romani Iuppiter Lucetius e Iuppiter Fulgurator)”[1].

Primo punto fermo: la parola dio non è un nome proprio ma un nome comune. E’ inesatto perciò, in italiano, l’uso di questa parola con la maiuscola e senza articolo. Bisognerebbe dire e scrivere: il dio. Quando perciò scriviamo “Dio” usiamo una figura retorica, per indicare il dio per antonomasia dei cristiani, il “nostro” Dio (che per ebrei, cristiani, musulmani, è anche l’unico). Spiega opportunamente Raimon Panikkar[2], con preziosissima precisione storica, che “Theòs è semplicemente un nome generico, che indica un evento, un evento divino. Con il diffondersi del cristianesimo, il termine generico – proveniente da ambiente politeista- fu attribuita al padre di Gesù di Nazareth (…) Fatto questo altamente significativo in quanto – mentre nella redazione ebraica si usa ancora il nome proprio, Yahvé, che ha un senso personalistico- il termine adottato dal cristianesimo per designare il padre di Gesù è appunto il nome generico “Dio”, che (…) non evidenzia l’aspetto della Divinità, ma mette invece in rilievo il dinamismo di un evento divino (…) Il nome comune “dio” finì così con l’assumere la funzione di nome proprio di Dio per antonomasia[3]”.

Questo è davvero decisivo ai fini del nostro discorso: tutto il nostro orizzonte mentale cambia se cominciamo a pensare al Dio di Gesù non come a qualcuno o qualcosa, ma come a un “evento divino”, come a un accadimento luminoso e illuminante. La parola italiana “dio” è infatti la metamorfosi (sonora ma anche concettuale) di un’immagine figurata, quella della luce, di ciò che è “il Luminoso” per eccellenza.

Ma proviamo, per un attimo, a immaginare di sostituire, nei testi biblici, nei catechismi, nelle prediche dei preti, nei nostri discorsi quotidiani, ma soprattutto nelle nostre preghiere (se preghiamo) la parola Dio con la parola Luce, o Evento Luminoso! Sarebbe un’apocalisse semantica del nostro immaginario religioso! Dovremmo passare da Michelangelo e Tiziano a Dante e Bosch!

Padre Nostro, cioè Luce paterna (il che ci obbligherebbe immediatamente a correggere la concordanza grammaticale dell’aggettivo, dicendo piuttosto “Luce materna”); “Dio che sei nei cieli” diventerebbe “Luce che sei nei cieli”; “Santo è il signore dio dell’universo” dovremmo convertirlo nell’espressione “Santa è la signora Luce dell’universo”; e anche la semplice invocazione “O Dio ti prego!” dovremmo riformularla dicendo “O Luce ti prego”. Una rivoluzione semantica che comporterebbe, usando questo termine come l’adopera la scienza, una vera e autentica “catastrofe”, cioè una mutazione radicale capace di rovesciare qualcosa fin dalle fondamenta: nel nostro caso il nostro modo di intendere e sentire la fede.

Più difficoltoso ancora sarebbe tradurre espressioni dell’Antico testamento come “il Dio degli eserciti”: che senso avrebbe “la Luce degli eserciti”? sarebbe più consono a quell’universo di discorso tradurre forse con “la Folgore degli eserciti”?

Ancora dobbiamo domandarci: “luce” è maschile o femminile? La parola italiana è femminile, sicuramente, come anche quella latina. Ma la radice originaria di questo termine, il sanscrito-ariano “div”? Div indica un’azione, quella di brillare, risplendere. E allora dobbiamo chiederci: lo Splendente (che nelle lingue mediterranee diventerà teòs, divus, ecc.) è maschile o femminile? Capite bene che non è l’uno né l’altro: dipende da come lo si recepisce esistenzialmente. Siamo noi che possiamo dargli i caratteri (maschili) della potenza o quelli (femminili) della creatività materna.

Ecco perché non deve fare scandalo che alcune femministe cristiane, privilegiando di quello “Splendente” le caratteristiche femminili, hanno deciso di pregare la “Dea” chiamandola (anche) Madre. Siamo nel cuore di una tempesta linguistica e concettuale, e anche il nostro immaginario su Dio esplode! E non sto certo parlando per paradossi! Sto semplicemente riconducendo questa parola così decisiva – per chi crede – al suo autentico, originario significato: un’operazione, per così dire, di ecologia concettuale e linguistica che ci obbliga a prendere atto del fatto che quando usiamo la parola “dio” (con la minuscola o la maiuscola non cambia) usiamo un nome comune che diventa metafora, immagine, figurazione mentale.

Ma di cosa? di chi? della Luce, cioè dello Splendente, appunto. Ma cos’è il Luminoso? e dove troviamo lo Splendente? come possiamo riconoscerlo? ci è dato un modo per interloquire con lui/lei, visto che non ha orecchi come i nostri? visto che non ha una lingua come noi, non usa la nostra lingua, la nostra grammatica, la nostra sintassi?

NOTE

[1] Non difforme la ricostruzione dell’origine e delle metamorfosi della parola Dio che troviamo nel DELI, dizionario etimologico della Lingua Italiana, Zanichelli. [2] Raimond Panikkar (1918/2010), teologo cattolico fra i più importanti del XX secolo, filosofo, gesuita, nasce da madre cattolica, di famiglia catalana, e da padre indiano induista a Barcellona, dirà di sé: “Non mi considero mezzo spagnolo e mezzo indiano, mezzo cattolico e mezzo indù, ma totalmente occidentale e totalmente orientale”. [3] Il silenzio del Buddha, Mondadori, pag.189.