Da noi la comunione è per tutti, risposati o gay

Maria Teresa Martinengo
La Stampa, 21 settembre 2013

«La confessione “regolare” è una mostruosità: ti viene chiesta la serie dei peccati, è il tipico controllo delle coscienze, mentre dovrebbe essere la festa con cui vado a riconciliarmi con Dio che mi accoglie e mi abbraccia». Padre Antonio Menegon dei Camilliani non ha dubbi. «A un divorziato risposato, a una coppia di omosessuali io dico che non devono farsi problemi se la Chiesa li esclude: fuori dalla Chiesa c’è Dio che li accoglie. Gesù, davanti a una persona, cercava di immedesimarsi nella sua realtà. Anche se doveva andare contro le leggi del Padre male interpretate dagli uomini».

Per padre Antonio confessione e comunione non sono collegate. «Proprio chi è più emarginato ha bisogno della comunione, il momento della massima intimità in cui si apre il cuore a Dio. No, io non chiedo il passaporto a chi mi chiede la comunione. Noi siamo ministri, cioè servi: non dobbiamo giudicare chi è degno e chi no, siamo strumenti arrugginiti in
mano a un Dio paziente. Chi sono io per giudicare? ha detto il Papa. Francesco sta scompaginando una mentalità clericale che niente ha a che fare con la fede».

A Torino, nella chiesa di via Santa Teresa, ogni domenica c’è il pienone: persone «rifiutate», ma anche famiglie, professionisti, scout in cerca di coerenza tra opere e Vangelo. E i Camilliani, vocazione di assistenza ai malati, sono stati autori di clamorosi gesti, quelli che oggi Papa Francesco sollecita come normali. Il più singolare risale al ’90. In un inverno gelido in pieno boom migratorio, riempirono la preziosa chiesa di letti. Oggi gli immigrati malati che nessuno vuole li accolgono loro. «Non trasformate i conventi in hotel per soldi, ma apriteli ai poveri, la carne di Cristo», ha detto Francesco».