La rivincita dei gesuiti di M.Vigli

Marcello Vigli
www.italialaica.it

Non sembrano diminuire, anzi aumentano, l’interesse per papa Francesco e la sua presenza sui media.

I suoi gesti e le sue dichiarazioni estemporanee, i suoi atti di governo e i suoi testi sono costantemente oggetto di analisi, valutazioni e commenti dentro e fuori la comunità cattolica. La lettera recentemente inviata a Scalfari e l’intervista a Civiltà cattolica hanno offerto nuovo ampio materiale specie per i molti commentatori che preferiscono concentrare la loro attenzione sugli interventi a carattere dottrinale.

Si sono creati schieramenti di favorevoli e contrari, divisi sulla risposta da dare all’interrogativo sul tasso di “novità” e di “eversione” del suo pontificato.

Spesso i contrari, che pur ammettono il nuovo stile, polemizzano con i favorevoli rilevando le contraddizioni in cui incorrono, non rilevando i contrasti fra parole e fatti, pronunciamenti solenni e provvedimenti di riforma.

Non mancano gli attendisti, specie fra i cattolici conciliari, che condividono e apprezzano le scelte del papa, ma le ritengono insufficienti o troppo prudenti.

Gli uni e gli altri sembrano dimenticare che si sta valutando pur sempre l’opera di un papa e per di più di un papa che intende esserlo di tutta la chiesa. In essa coesistono, alla base e ai vertici, innovatori e tradizionalisti, chi auspica la ripresa del cammino conciliare e chi condivide gli ostacoli e le deviazioni imposte ad esso dai suoi predecessori. Il suo intento riformatore è finalizzato a portare la Chiesa tutta a riscoprire la priorità della sua funzione evangelizzatrice e ad adeguarsi ai tempi, per assolverla in contesti ben diversi da quelli al cui interno ha costruito la sua identità. Questa si è determinata come Tradizione, mentre le società, nelle quali era chiamata a vivere, si sono trasformate a ritmo sempre più accelerato, assumendo modelli di vita e di governo condizionati dalle innovazioni tecnologiche e dall’aumento progressivo degli abitanti del pianeta, diventato, anche per questo, sempre più piccolo.

Una Chiesa che pur si considera a vocazione universale, fa fatica a seguire i ritmi accelerati che le trasformazioni assumono nei diversi paesi, per di più in modo diverso. Nel secolo scorso molto è cambiato, sia nella sua struttura interna sia nel suo rapporto con le altre istituzioni, ma spesso si è trattato di aggiornamenti, che non uscivano dal rapporto conflittuale con le società e gli stati del mondo occidentale colpevoli di essersi arresi alla “modernità”.

Solo il Concilio Vaticano II ha tentato di capovolgere questo rapporto riscoprendo il valore della missione affidata da Gesù ai suoi discepoli di andare a predicare senza dimenticare che il suo Regno non è di questo mondo. Intendeva che si costruisse una Chiesa incarnata, inserita cioè nelle società senza identificarsi con esse.

La sua Chiesa è infatti “altra”: è fondata sull’amore, non per imporlo come modello nella vita sociale; in essa diventa “solidarietà” per rendere più “umana” la convivenza dei cittadini fondata, invece, sul “diritto”.

Di questa alterità sono insofferenti gli integralisti cattolici sia di destra, che pretendono lo stato, tutore del “diritto”, succubo della chiesa che predica “l’amore”, sia di sinistra che, sognando una società perfetta retta dalla fratellanza universale, non s’impegnano insieme agli altri per rendere più giuste quelle che vivono nella storia.

Altrettanto dimentichi di essa sono quei commentatori che rimproverano a papa Francesco di non rinnegare le posizioni tradizionali sull’aborto, sulla sessualità e sull’eutanasia, di cui è pur sempre custode, proprio mentre si offre interlocutore delle donne che l’hanno praticato e degli omosessuali pur non pentiti.

A garanzia di questa alterità sta la fede nel Gesù che l’ha proposta.

Fin dalle origini gli intellettuali cristiani si sono, invece, vergognati della nudità della fede e l’hanno rivestita di formule filosofiche tradotte in dogmi. Su di essi si sono costruiti sistemi teologici, spesso in conflitto fra loro, nei quali si è ristretta, se non nascosta, l’autenticità del messaggio evangelico che è seme, sale e lievito.

Di queste “verità” teologiche è costituito il patrimonio dottrinale della Chiesa, modificabile certo, ma non eliminabile senza rinnegare la Tradizione. Nessun papa è oggi in grado di farlo senza provocare scismi. Tanto meno intende farlo Francesco impegnato, invece, a riformare radicalmente la prassi, consapevole che essa, diventando “Segni dei tempi”, renderà obsolete molte enunciazioni dottrinali.

All’interno di questo impegno diversi sono gli interventi che sta sviluppando.

Ha iniziato con l’aggredire lo stile di vita del papa suscitando consensi e malumori: si è quindi limitato sia per ridurre questi, sia per non offrire a quelli l’alibi per trasformarsi in speranze impossibili da realizzare. Anche nel modo di rivolgersi ai fedeli, ai preti, ai vescovi e ai cardinali ha introdotto novità significative. Ne sono un esempio la denuncia del carrierismo fra gli ecclesiastici e le parole, con cui ha stigmatizzato la trasformazione dei conventi vuoti in strutture ricettive per far soldi, invece di offrirli ai bisognosi di alloggio e ai rifugiati. Anche in Curia con alcune nomine, qualche atto di governo e la nomina di una Commissione, pur consultiva, per avviarne la riforma sta aggredendo il suo autoritarismo e la non trasparenza nei suoi affari finanziari.

Nei rapporti con la politica non è stato meno esplicito: nessun uomo di governo a Lampedusa, per poter denunciare lo scandalo del trattamento degli immigrati, né a Cagliari per essere più credibile nella richiesta di soluzioni radicali al problema della disoccupazione.

Ancora più evidente la novità di questo suo distacco se si mette a confronto con l’ennesima manifestazione d’ingerenza nelle dinamiche politiche contenuta nelle parole del cardinale Bagnasco che, introducendo i lavori del Consiglio di Presidenza della Cei, ha”tuonato” contro i politici che mettono in pericolo il governo delle Grandi Intese.

Questo non è certo un buon segnale per chi si sta interrogando sul se e quando la Cei si allineerà al nuovo corso impresso da papa Francesco nella gestione della Chiesa!

Alle parole già dette e ai tanti segni già dati, Francesco ne ha aggiunto un altro molto significativo.

Il 31 luglio, primo papa gesuita della storia, si recato nella Chiesa di Sant’Ignazio per celebrare la ricorrenza del fondatore del suo Ordine pregando davanti alle sue reliquie, e nell’omelia ha ricordato padre Pedro Arrupe, Preposito generale al tempo del Concilio additandolo, significativamente insieme a san Francesco Saverio, come modello da seguire per tutti i gesuiti. Eppure il padre Arrupe, già in contrasto con Paolo VI, per il ruolo da lui assunto durante il rinnovamento conciliare come promotore di una radicale apertura al mondo, nel 1983 era stato costretto a dimettersi, unico Preposito generale nella storia dell’Ordine, per analoghe divergenze con Giovanni Paolo II.

Una riabilitazione in piena regola quella di papa Francesco confermata con la deposizione di un cestino di fiori sulla sua tomba nella Chiesa del Gesù, in occasione della visita del centro di accoglienza in via degli Astalli, gestito dai suoi confratelli gesuiti.

Si tratta di segni poco appariscenti, ma di gran lunga più significativi di tante parole non dette e riforme non ancora attuate, a conferma che è in atto un tentativo di svolta nella vita della Chiesa sulla via aperta dal Concilio, pur se nessuno può anticipare se avrà successo.