Figli dell’adozione

Rosa Ana De Santis
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La giornata mondiale dell’infanzia, il 20 novembre scorso, ha restituito – tra i vari fronti su cui occorrerebbe intervenire con urgenza e maggiore impegno – i numeri, in netto calo, delle adozioni e degli affidi. Proprio i minori, che più di altri dovrebbero essere tutelati, patiscono ritardi e inadempienze, spesso di natura tristemente burocratica. Il lavoro della Commissione conferma tra il 2007 e il 2011 una flessione del 33% per le domande nazionali, del 22% per quelle internazionali e un calo degli affidi temporanei del 14%. Proprio il rilancio delle adozioni è stato il tema guida della Giornata per l’Infanzia.

Michela Vittoria Brambilla, presidente della Commissione bicamerale per l’infanzia e l’adolescenza, ha dichiarato che non può esserci disparità tale tra la genitorialità biologica e quella adottiva, per cui in questo secondo caso bisogna dimostrare di avere qualità eccezionali per essere degnamente madri e padri.

Le esperienze e testimonianze di numerose famiglie candidate all’adozione raccontano di percorsi tortuosi, di procedure macchinose spesso contaminate quasi da un “sospetto” di fondo verso la coppia che vuole adottare. Tempi lunghissimi e molte rinunce, spesso anche il ricorso a strade extra legali, mai giustificabili ma figlie di un percorso che non incentiva di fatto chi vuole adottare. Un paradosso che denuncia una cultura poco preparata alla cultura dell’adozione.

Se è evidente che la genitorialità biologica e naturale non richiede da parte di alcuna autorità una legittimazione legale e formale – purtroppo potremmo aggiungere – è pur vero che su coppie che vogliono adottare non può essere per principio applicata una regolamentazione che assomiglia alla ricerca morbosa di un‘anomalia di qualsivoglia natura.

L’accanimento non fa che ribadire una sottocultura per cui essere genitori non per sangue, ma per adozione è come essere di serie B quando invece in una società ampiamente evoluta, sul piano dei diritti e della cultura, l’adozione dovrebbe rappresentare la forma più consapevole di genitorialità, nascendo totalmente da una scelta non mediata da un atto naturale che non sempre coincide con un maturo percorso decisionale sulla volontà di diventare madre o padre.

L’accusa sotto traccia è che si decide di adottare per sopperire a un’infertilità o un problema di salute. Viene da domandarsi perché questo non desti stupore o limiti di sorta quando le coppie ricorrono, per risolvere uno dei due problemi, a pratiche, spesso anche rischiose per la salute, di fecondazioni assistite. E poi forse esiste una garanzia di non egoismo nelle coppie che naturalmente riescono a mettere al mondo figli?

Il discrimine di valutazione di un tratto comportamentale e morale è nei geni? E quelle donne che non si curano per mettere al mondo figli rischiando la propria pelle e lasciando magari orfani al mondo sono egoiste o irresponsabili? Un approccio culturale che rivendica priorità alla biologia ha un sapore primitivo del tutto inadeguato ad affrontare degnamente, anche sul piano della legge e delle Istituzioni preposte, la volontà di adottare che dovrebbe invece essere apprezzata e tutelata come patrimonio di civiltà di una società.

Incentivare e sburocratizzare dovrebbero essere le parole d’ordine. E forse, oltre a discutere giustamente di adozione ai gay, alle coppie di fatto e ai single – fronti che devono legittimamente entrare nella discussione ma che portano con sé problematiche del tutto nuove che non possono essere banalizzate – si potrebbe pensare a quante coppie con tutti i criteri formali del caso attendono da anni l’arrivo di un figlio e di una figlia che rischia, mentre il tempo passa, di diventare grande in una casa famiglia. Lì dove il danno dell’abbandono non finisce mai.