In ginocchio da papa Francesco: laici, credenti e creduloni

Michele Martelli
MicroMega 9/2013

Sembra che nei suoi primi mesi di pontificato Bergoglio abbia sedotto tutti, compresi numerosi laici e non credenti un tempo assai agguerriti. Oggi sono tutti inginocchiati e adoranti a celebrare le meraviglie della ‘rivoluzione francescana’. Peccato che, guardando ai fatti, di questa rivoluzione non si intraveda nemmeno l’ombra. Al netto dei larghi sorrisi e degli efficacissimi slogan ad uso dei media, il nuovo papa non sembra discostarsi molto dal magistero tradizionale.

«È l’amore che apre gli occhi»; «Servire gli altri»; «Il Vangelo del sorriso»; «Il Papa della gente»: questi alcuni dei titoli di libri di Francesco e su Francesco, che stanno invadendo le vetrine delle librerie d’Italia. Il nuovo papa è già divenuto una star. Il fondatore di Repubblica lo ha persino definito un «papa rivoluzionario», immortalando il suo scambio di opinioni con Bergoglio nel volumetto a più voci dall’accattivante titolo Dialogo tra credenti e non credenti, pubblicato in tandem con Einaudi, dove non credenti del calibro di Prosperi e Zagrebelsky concordano, anche se con toni e sfumature diverse, nell’elogiare la «svolta innovatrice» del nuovo papa, nascondendo qualche timida critica in piccole pieghe dei loro interventi. Inusitata, da parte di Scalfari, anche la scelta di chiudere il suo editoriale del 3 novembre scorso, fortemente allarmistico sulle future sorti del paese, con parole che meglio sarebbero state in bocca non a un ateo laico, ma a un ex ateo devoto: «Papa Francesco, lei che ci crede preghi per noi che ne abbiamo bisogno». Amen! Ratzinger «emerito» può gioire nella sua roccaforte di Castel Gandolfo: il suo invito ai non credenti di «pensare e agire veluti si Deus daretur», sembra che abbia cominciato a fare breccia.

Ma possibile, mi chiedo, che basta un sorrisino, una carezza a un bambino, una visita alle favelas, un abbigliamento e un appartamento lontano dal lusso offensivo, un semplice «Buona sera», una lettera e un colloquio con un esimio giornalista, per giustificare tanto entusiasmo dei non credenti, sì da vedere nelle parole e negli atteggiamenti del nuovo papa persino i chiari segni di un «avvio di riforma del papato e della Chiesa»? Ma che cos’è: fumo negli occhi o preveggenza?

Certo, la scelta di Bergoglio di una vita parca, la semplicità e l’immediatezza dei suoi modi, le sue doti di grande comunicatore, la condanna della guerra, l’attenzione per i poveri e i bisognosi, per gli immigrati e i carcerati, – tutto ciò et similia – segna un cambiamento di stile nella storia recente del papato. Ma fino a un certo punto. Papa Wojtyła non condannò la guerra contro l’Iraq («Mai più la guerra!» – 2003), non visitò e abbracciò paternamente ammalati e carcerati, non alzò il dito ammonitore contro la mafia («Convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!», 1993)? Ma, per quanto possa risultare contraddittorio il bilancio del suo pontificato, nessuno si azzarderebbe a dire che fu un papa rivoluzionario (basterebbe citare la sua lotta alla Teologia della liberazione e il suo appoggio alle dittature sudamericane, in particolare la sua benevola amicizia e benedizione pastorale al generale Pinochet). Anzi. Perciò non meraviglia la coincidenza che a ultimarne la santificazione sia Bergoglio, venuto sì dall’America Latina, ma eletto proprio da Wojtyła alla porpora cardinalizia in funzione restauratrice (da ricordare che nel 1979, nella riunione di vertice del Consiglio episcopale latinoamericano di Puebla, il futuro papa argentino si schierò decisamente contro la Teologia della liberazione invisa e scomunicata da Giovanni Paolo II).

Per tanti aspetti, la stessa cosa si potrebbe dire di Benedetto XVI, che si è autopensionato, trasformandosi volontariamente – primo caso nella storia bimillenaria della Chiesa cattolica – in una paradossale inedita figura di papa non più papa ma ancora papa. Egli, quando era ancora in servizio attivo permanente, amava sì il lusso e lo sfarzo vaticano, e non si discostava, né poteva, dai dogmi del nuovo catechismo di cui era l’autore, ma tuttavia condannava lo strapotere e la disumanità del mercato e della finanza, e non esitava a mostrare, negli incontri pubblici e nei documenti ufficiali, premura e sollecitudine per la condizione dei più umili e bisognosi.

Poiché è ormai quasi consuetudine che il papa successivo santifichi il papa precedente, ipotecando così la sua stessa futura santificazione, chissà che, al momento dato, anche Bergoglio, non faccia lo stesso con Benedetto XVI, suo «emerito» doppio e predecessore? Non ha già definito le sue dimissioni (vedi la recente intervista settembrina alla Civiltà Cattolica, p. 461) «un atto di santità»?

Comunque, prima di dare al neopapa «venuto dalla fine del mondo» la patente di riformista o addirittura di rivoluzionario, direi che, in un certo senso, dobbiamo aspettare la «fine del mondo». Cioè, fuor di metafora, i fatti. Duri e insormontabili come macigni. Lo dice il proverbio: «Non è l’abito che fa il monaco». Anzi, l’«abito» può essere talvolta in contrasto, se non in conflitto col «monaco».

È questo il caso di papa Francesco? Vediamo.

Cominciamo dalla scelta del nome: Francesco. Ma Francesco chi? Il poverello d’Assisi, che alla fine del Medioevo contestava il lusso, le ricchezze e la teocrazia papale, o Francesco Saverio, l’ideale cofondatore, con Ignazio di Loyola, della Compagnia di Gesù, nata agli inizi della Controriforma per difendere ad ogni costo, nella più «cieca obbedienza», perinde ac cadaver, l’assolutismo papale contro l’«eresia luterana» e protestante? Che il nome, come è stato chiarito, si riferisse, nelle intenzioni di Bergoglio, al primo Francesco e non al secondo, non elimina l’equivoco.

È noto che il preposito generale della Compagnia di Gesù, per il suo enorme potere, spesso contrapposto a quello pontificio romano, è stato tradizionalmente chiamato il «papa nero». Ora i gesuiti, per la prima volta nella storia, hanno espresso anche un «papa bianco». Che ha assunto il nome del fondatore dell’ordine religioso, almeno agli inizi, più anticonformista e più ribelle al potere costituito. Dunque un papa triplicemente equivoco, al tempo stesso bianco, gesuita e francescano. L’equivoco è potenziato dagli atteggiamenti «pauperistici» di Bergoglio, sì che, complice l’influenza mediatica, un ampio schieramento di laici, credenti e creduloni tendono quasi a scambiare il neopapa Francesco con un redivivo Francesco Papa. O un suo avatar. Forse qualcuno nelle sue visioni notturne già lo immagina con indosso saio, cappuccio e sandali a piedi nudi. La metamorfosi sarebbe così compiuta.

Pauperismo, ma quale? La professione di povertà individuale è comune a Francesco Saverio, a Ignazio di Loyola e a Francesco d’Assisi. Ma solo quest’ultimo sognava una Chiesa povera. Una Chiesa non soltanto «dei poveri», come dice Bergoglio, cioè sollecita alle condizioni miserevoli degli strati sociali più disagiati, ma «povera» davvero, cioè spoglia di poteri, averi e ricchezze spropositate. Il giovane d’Assisi, figlio di un ricco mercante, come e forse ancor più del Gesù evangelico e degli apostoli, si era denudato. Non solo dei suoi beni, ma anche dei suoi abiti: si dice persino che si rotolava nudo nella neve.

Mi rendo conto che sarebbe assurdo pretendere altrettanto da un papa, peraltro ultrasettantenne. Ma la sua Chiesa, di cui egli è il capo, in nessun senso, né politico, né economico, né religioso, è «povera», priva di mezzi e di potere. Anzi, è un organismo politico-economico-religioso di peso e spessore mondiale.

Lo Ior, riformato da Bergoglio, resta la banca vaticana: inalterate la sua potenza e le sue ramificazioni internazionali. Così come inalterate restano le immense, faraoniche ricchezze, mobili e immobili, che la Chiesa e le sue gigantesche organizzazioni collaterali, dall’Opus Dei alla Compagnia delle Opere, posseggono disseminate in tutto il pianeta. Certo, una «spoliazione» totale da parte della Chiesa dei suoi beni, oggi, sarebbe «bello ma impossibile». Ma che si privasse del lusso, dell’inutile, del superfluo, e lo donasse agli ultimi del mondo, questo sì sarebbe bello e possibile. Oltre che evangelico e francescano! Ma chi si illude che ciò possa accadere?

E la curia? Pur riformata da Bergoglio, resta la curia, cioè l’apparato di governo della Chiesa-Stato vaticano: il comitato degli «8 saggi» porporati, la ventilata trasformazione del segretario di Stato in «segretario papale», la semplificazione dei dicasteri pontifici eccetera servono solo a svecchiare e rendere più efficiente la farraginosa macchina governativa d’Oltretevere, non a rivoluzionarne il secolare assetto di potere.

Sì, perché il compito della curia, anche ai tempi del papa argentino che da giovane ballava la milonga, resta quello di un vero e proprio «Consiglio della corona» sei-settecentesco. Lo statuto del Vaticano, aggiornato da papa Wojtyła nel 2001, è infatti immutato. L’articolo 1, che è quello fondamentale, recita testualmente: «Il Sommo Pontefice, Sovrano dello Stato della Città del Vaticano, ha la pienezza dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario». Gli altri pochi articoli successivi, che esplicano le varie funzioni e competenze di commissioni e dicasteri vaticani, dipingono la curia come un insieme di organi ausiliari e coadiuvanti subordinati al papa. Che resta quindi un monarca assoluto, l’ultimo della storia occidentale. Un residuato storico!

Può un papa, munito di un tale potere dispotico, incondizionato, riconosciutogli dal catechismo e dal diritto canonico anche in qualità di capo gerarchico della cattolicità nel mondo, «rivoluzionare», anche solo in senso «democratico», il Vaticano e la Chiesa? Con tutti i suoi richiami al nuovo, papa Francesco rimane il sovrano assoluto dello Stato vaticano, non a caso chiamato anche Stato pontificio: un sovrano che regna e governa al di qua della moderna separazione dei poteri. E che per giunta ha nelle sue mani, in quanto guida suprema della Chiesa, anche il potere spirituale. Il «popolo di Dio» di cui parla Bergoglio non è il popolo sovrano delle moderne democrazie, ma il gregge dei fedeli senza potere e sovranità tipico della Chiesa gerarchica di sempre. Papa Francesco, pur dichiarandosi innanzitutto il vescovo di Roma, non ha certo rinunciato apertamente, expressis verbis, ai titoli tradizionalmente attribuiti a un papa neoeletto. Compreso quello della pubblicistica medioevale e controriformistica di Christi vicarius.

Peraltro, alla «democratizzazione della Chiesa» sicuramente non basterebbe una più frequente convocazione, a scopo di consultazione, dei sinodi vescovili, come papa Bergoglio va prospettando. E nemmeno che i vescovi non siano più di nomina papale. La loro eventuale elezione dal basso ha un senso soltanto se si rovescia la millenaria concezione teologica della sovranità finora professata dalla Chiesa. Sovrano è o il popolo o Dio: l’uno esclude l’altro. Tertium non datur. La sovranità del «popolo di Dio» è un ircocervo concettuale. O un imbroglio clericale. E poi chi, nella fattispecie, farebbe parte del «popolo», con diritto elettorale attivo e passivo: solo i preti? non le suore? non i fedeli? E una volta eletti, a chi risponderebbero i vescovi: agli elettori o al papa? Le domande possono moltiplicarsi, ma il nucleo della questione rimane la sovranità. A chi appartiene? A Dio o al popolo? Questione rispetto a cui il neopapa, nella sua dichiarata totale fedeltà al catechismo, e quindi alla dottrina politico-religiosa tradizionale della Chiesa, riconfermata anche dal Concilio Vaticano II, per cui nulla auctoritas nisi a Deo, non ha mai mostrato alcun «segno», né chiaro né chiaroscuro, di rinnovamento.

Si tratta, d’altronde, di riforme tali che papa Bergoglio, anche se volesse, non potrebbe fare. Lo ha in qualche modo riconosciuto egli stesso. Nell’intervista di settembre alla Civiltà cattolica, l’autorevole rivista dei gesuiti, il papa ha infatti ricordato uno dei capisaldi della dottrina ignaziana, a cui egli si ispira anche nella sua nuova condizione: «il discernimento». Che cos’è? «Per sant’Ignazio i grandi princìpi devono essere incarnati nelle circostanze di luogo, di tempo e di persone» (p. 453). È sbagliato «improvvisare», o volere tutto e subito. Non «l’immaginazione al potere», o l’«assalto al cielo», per esprimerci con alcune coordinate sessantottesche, ma il «situazionismo», il volare basso, la saggezza prudenziale di rimanere entro i limiti del «qui e ora», ecco il discernimento. Ma è proprio la massima ignaziana a impedire a Bergoglio l’avvio, anche se lo volesse, di una qualche seria e duratura riforma ecclesiastica: la sua età (è quasi settantasettenne), la resistenza della gerarchia e della burocrazia curiale (vi ricordate lo scandaloso «nido di corvi», che ha costretto un papa debole alle dimissioni?), e infine la sacralità delle idee, dei dogmi dottrinali. Scogli sui quali è naufragato persino il Concilio Vaticano II. Figuriamoci un uomo solo al comando!

Ma Bergoglio vuole rinnovare davvero le idee e la dottrina della Chiesa? È su questo punto in particolare che oggi, mi pare, si può misurare la sua volontà di «dialogo col mondo moderno». Per quanto riguarda la dottrina politico-religiosa, che fa derivare da Dio ogni potere, come si è appena visto, nulla di nuovo sotto il sole. E per quanto attiene alle vessate questioni di bioetica, la parità di diritti uomo-donna, il matrimonio, il divorzio, l’aborto, le coppie di fatto, l’omosessualità, il testamento biologico, la contraccezione, la fecondazione artificiale, la ricerca scientifica sulle staminali? Ci sono almeno qui segni di cambiamento? No, nessuno. Anzi.

Sotto questo riguardo, il Bergoglio di oggi non si discosta dal Bergoglio di ieri. Tranne talvolta, qui e là, ma solo in apparenza. È recente la pubblicazione da parte della Santa Sede di un maxiquestionario di 38 domande (più una per eventuali proposte) su alcuni dei temi di bioetica più dibattuti (contraccezione, coppie di fatto, gay, divorzio), inviato per la compilazione alle parrocchie e ai fedeli di tutto il mondo. Certo, sul piano del metodo l’introduzione del sondaggio, in queste dimensioni, è una novità nei rapporti ormai in gran parte sclerotizzati tra centro e periferia della cattolicità. Ma lascia ciò presagire una qualche novità anche sul piano sostanziale dei contenuti? Quasi sicuramente no. Altrimenti, papa Bergoglio smentirebbe clamorosamente se stesso. Il che non sarebbe male! Allora sì che meriterebbe tutta l’approvazione entusiastica di laici e non credenti. Ma i fatti purtroppo, almeno finora, non stanno così.

Ieri, da cardinale e primate dell’Argentina, perfettamente allineato alla bioetica di Wojtyła e Ratzinger, ha bollato senza esitazione aborto, eutanasia e contraccezione come «cultura della morte». Inoltre, sempre con lo stesso linguaggio dei suoi due predecessori, ha dichiarato immorali, peccaminose e innaturali le pratiche omosessuali, persino guidando a Buenos Aires (inevitabile ricordare il Family Day di Camillo Ruini) manifestazioni di piazza contro il disegno di legge governativo del 2010 sull’equiparazione delle unioni gay ai matrimoni: «una grave ferita alla famiglia» e alla «maturazione umana dei bambini», «un rigetto frontale della legge di Dio incisa nei nostri cuori», «una mossa del Padre della Menzogna [il diavolo] per confondere e ingannare i figli di Dio». Infine, la dichiarazione del 2007, che più ha fatto il giro della rete, espressa in occasione della candidatura di Cristina Kirchner alle elezioni presidenziali argentine, sull’inferiorità delle donne, a parere bergogliano «naturalmente inadatte per compiti politici», per «ordine naturale» e per dettato biblico destinate «da sempre a supportare il pensare e il creare dell’uomo, ma niente più di questo».

E oggi da papa? Posizioni pressoché identiche, anche se espresse in toni più soft. Basta leggere il paragrafo 52 della Lumen fidei, la sua prima enciclica, firmata da lui, ma scritta quasi interamente da Ratzinger, sulla sacralità della famiglia e del matrimonio tradizionale, rigorosamente eterosessuale, stabile e procreativo, in cui si manifesta «la bontà del Creatore, la sua saggezza e il suo disegno d’amore» (questo paragrafo è la base anche delle succitate 38 domande). E le unioni gay? Fuori dai piani di Dio, opera del Maligno, come Bergoglio sosteneva da cardinale?

«Chi sono io per giudicare?»: così i media hanno riferito, giudicandola «rivoluzionaria», la risposta di papa Francesco ai giornalisti che, sull’aereo di ritorno dal Brasile, gli avevano chiesto un parere sulle lobby gay in Vaticano. Ma, riportata integralmente, come hanno rilevato le associazioni gay, la dichiarazione papale dice tutt’altro: «Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla? Il catechismo della Chiesa cattolica dice che queste persone non devono essere discriminate ma accolte». Cioè un gay è un peccatore, ma, se cerca il Signore e si pente, se si rifugia nella Chiesa, può essere perdonato e redimersi.

«L’omosessualità», dice il catechismo negli stessi passi citati a braccio dal papa in aereo (nn. 2357-2359), essendo «intrinsecamente e oggettivamente disordinata» (definizione che ingloba una lunga serie di depravazioni morali, tra cui pornografia, prostituzione e stupro), «in nessun caso» può essere «approvata» dalla Chiesa; i gay possono «avvicinarsi alla perfezione cristiana» solo esercitando «la virtù della padronanza di sé e della castità». Cioè, detto metaforicamente, ma brutalmente, solo castrandosi. Il papa, che certo conosce a menadito il catechismo, sorvola su tutto questo. Perché? Forse perché rifiuta l’omofobia catechistica? Quasi sicuramente no, se appena qualche anno fa, come si è visto, riteneva le unioni gay frutto del Maligno.

La ragione probabilmente sta nella scelta di un preciso rapporto tra tattica e strategia, valori di fondo e loro attuazione. Lo ha chiarito lo stesso papa nella citata intervista alla Civiltà cattolica, discettando sulla massima ignaziana del discernimento: «Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi contraccettivi. […] Ma quando se ne parla, bisogna parlarne in un contesto. Il parere della Chiesa, del resto, lo si conosce, e io sono figlio della Chiesa» (pp. 463-464). Ecco: i valori dottrinali strategici sono intangibili, ma la tattica per calarli nella realtà è quella contestuale e situazionale del «qui e ora».

Più in generale, si può dire che il «discernimento» ignaziano («Il discernimento nel Signore mi guida nel mio modo di governare»: ivi, p. 454) è la via gesuitica seguita dal papa per l’attuazione della missione che egli, «al servizio della Chiesa universale», ha scelto per il suo pontificato: arginare la crisi della religione di fronte alla secolarizzazione, avvicinare la Chiesa alla gente, porre fine a una Chiesa vecchia, sclerotizzata, arroccata sui dogmi, incapace di «dialogare col mondo moderno» (la «missionarietà», insieme al «discernimento» è infatti per papa Francesco, non francescano, a dispetto del nome, ma profondamente gesuita, un altro dei pilastri fondamentali della «spiritualità ignaziana» a cui egli si ispira: ivi, p. 452).

Da ciò la scelta di dialogare con Scalfari, dettata da spirito non «rivoluzionario», bensì conservatore, di sopravvivenza e rinvigorimento della Chiesa. Il fine è lo stesso di Ratzinger, ma da perseguire con altri mezzi. Non la condanna, ma la persuasione. Non l’anatema, ma il dialogo. Il che, come metodo, non è trascurabile. Ma nel dialogo il sistema valoriale, veritativo, dogmatico deve restare inalterato. Anzi, va difeso e diffuso. Cosa che traspare chiaramente dalla famosa lettera di Bergoglio all’ex direttore di Repubblica. Dove il papa, forte del suo armamentario gesuitico, ignaziano, non ha particolari difficoltà a rispondere alle domande dell’esimio laico non credente.

Primo, il peccato. Chi non ha fede pecca? Ma no, dice il papa, pecca solo se va «contro la propria coscienza», sede della distinzione del «bene» e del «male». Ed ecco scrosciare l’applauso di intellettuali laici poco avvertiti e di teologi innovatori che cominciano a sentirsi finalmente appagati (vedi Mancuso, Küng e Boff): un papa non solo francescano, ma luterano, anzi illuminista, anzi kantiano, che finalmente afferma il primato dell’autonomia morale individuale. In realtà per il papa gesuita nella coscienza, nel «cuore» di ogni individuo la morale che è incisa in modo indelebile, come ha già più volte detto da cardinale, è soltanto la «legge di Dio», assoluta e indistruttibile. Che però, per un laico non credente, ma lucido e coerente, non affetto da un inedito e ingiustificabile devozionalismo papale, è legge non autonoma, ma eteronoma.

Secondo, l’assoluto e il relativo. Il credente ha una concezione assolutistica della verità? No, risponde papa Francesco, l’assoluto è ciò che è slegato, sciolto da ogni relazione; per il credente invece «la verità è una relazione»: tra noi e Dio, tra le creature e il Creatore; il che non significa che «la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro», ma «che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita» (Dialogo cit., p. 42). Ma una verità/relazione non variabile e non soggettiva non è forse un’altra forma di «assoluto»? L’amore di Dio per noi, la sua incarnazione forse lo relativizza, ne fa un ente incompiuto, imperfetto, se privo della relazione con noi? Dirlo sarebbe un’offesa al catechismo, che un papa «figlio della Chiesa» non farebbe mai. Infatti, «che la verità si dà a noi solo come cammino e vita», significa soltanto che noi la cerchiamo, ma non la possediamo mai integralmente, ossia che Dio ci trascende. Il che è pura ortodossia teologica cattolica e catechistica. Altro che relativismo!

Terzo, l’esistenza di Dio. Con la probabile scomparsa dell’uomo che pensa Dio, scomparirà anche Dio? Certo che no. «Dio non è un’idea, sia pure altissima, frutto del pensiero dell’uomo. Dio è una realtà con la “R” maiuscola»; Egli «non dipende dal nostro pensiero», né dalla nostra esistenza (ivi, p. 43). Dunque è un Assoluto, che, pur incarnandosi per amore dell’uomo, non ha bisogno di noi per esistere. Quella di papa Francesco è, mi pare, un richiamo indiretto alla vecchia prova ontologica di Anselmo d’Aosta, a suo tempo citata anche da Giovanni Paolo II nell’enciclica Fides et ratio del 1998 (n. 14). Dio non esiste perché lo pensiamo, ma lo pensiamo perché esiste; infatti, essendo Dio «id quo maius nihil cogitari potest, ciò di cui nulla di maggiore è pensabile», per ciò stesso esiste per sé, perché altrimenti non è il massimo pensabile: il che sarebbe contraddittorio. Peccato però che la prova salti, come ha osservato Immanuel Kant, illecitamente dall’ordine ideale a quello reale, quindi, possiamo aggiungere, della presunta e indimostrabile «realtà con la “R” maiuscola» di papa Bergoglio. Ma di questo nessun intellettuale laico intervenuto nel dibattito ha fatto cenno. Il dialogo non consente la chiarezza del contrasto di idee e opinioni, le metaforiche «spade incrociate» dei combattenti di cui solo Guido Ceronetti parla nel suo intervento (Dialogo, p. 131)? Ma allora, se è così, non di dialogo si tratta, bensì di compromesso deleterio, resa incondizionata o inciucio.

Quarto e ultimo, il rapporto tra Dio e Cesare, trono e altare, ossia la laicità dello Stato. La Chiesa, afferma Bergoglio, deve attenersi al Vangelo, e dunque alla massima di «dare a Dio quello che è di Dio, e a Cesare quello che è di Cesare», che implica la netta «distinzione tra la sfera religiosa e la sfera politica», «su cui, faticosamente, si è costruita la storia dell’Occidente» (Dialogo, p. 42). Ben detto! Ma è ancora troppo poco e troppo generico. E anche equivoco. Le due sfere non sono indipendenti o parallele, possono entrare in conflitto, come ha sottolineato Emanuele Severino («Se Cesare non è dalla parte di Dio», Corriere della Sera, 25 settembre 2013). Come nel caso delle questioni di bioetica. E allora? Chi dovrà cedere a chi? Cesare a Dio o Dio a Cesare? Hic Rhodus hic salta. Purtroppo, al di là delle dichiarazioni di principio, la storia recente della Chiesa cattolica, sotto il papato di Wojtyła e Ratzinger, e il passato argentino di papa Francesco, non lasciano presagire nulla di buono per lo Stato laico. Ma il giudizio futuro non potrà che essere affidato al tribunale dei fatti.