Al femminismo occorre essere grati di L.Muraro

Luisa Muraro
Leggendaria, gennaio 2014

1. Mi rivolgo a Lei, vescovo e Papa, e agli altri vescovi che governano e guidano a vario titolo la Chiesa cattolica, e chiedo: quando entrate in contatto con movimenti, idee, persone che non appartengono interamente alla Chiesa ma che dicono e fanno anche cose buone che voi non avete ancora pensato di dire o di fare, o che voi pure dite e fate nei modi e nei limiti delle vostre possibilità, come vi regolate nei loro confronti? Ne parlate e in che termini? Vi mettete in relazione o vi mettete in concorrenza? Avete preso le distanze dall’antica tendenza a diffidare e a reprimere? Le faccio questa domanda per un motivo preciso.

Sono una che non prende posizioni anticlericali né antireligiose, semmai il contrario. Eppure nel linguaggio dei preti non ho mai incontrato i termini di “femminismo” e “femminista” se non accompagnati da riprovazione, da sospetto o dalla segnalazione di precisi errori. Con argomenti che rivelano spesso più l’ignoranza che la conoscenza della faccenda.

L’antifemminismo degli uomini di Chiesa arriva a lambire anche il recente Documento preparatorio “Le sfide pastorali sulla famiglia”, dove di femminismo non si parla se non per dire che ci sono «forme di femminismo ostile alla Chiesa». Non chiediamo che facciate il mea culpa per aver sistematicamente chiuso gli occhi davanti alla violenza famigliare sofferta dalle donne. Non chiediamo nemmeno che si parli di noi. Ma se volete nominare il femminismo, siate giusti e riconoscetegli il molto che ha fatto e fa per le donne, in primis per la loro presa di coscienza e la loro libertà.

2. Mi dispiace che Lei non consenta alle aspettative di quelle donne che si sentono chiamate al sacerdozio nella Chiesa cattolica. Ma approvo il modo in cui Lei lo ha fatto, in chiave personale, senza portare argomenti contro l’ordinazione di donne. Gli argomenti portati in passato, mi sembra che non reggano l’esame critico della stessa teologia cattolica. Io ho capito che Lei non si sente di assumere la responsabilità di innovare una tradizione secolare, nel qual caso mi pare buono che lo abbia fatto senza pararsi dietro a qualche verità di fede o ragionamento teologico. Naturalmente questo non basta. Bisogna anche tener conto dello spirito dei tempi, che domanda interpretazioni libere della differenza sessuale e rigetta le esclusioni.

Lei, papa Francesco, più volte ha parlato per la valorizzazione delle donne all’interno della Chiesa, invitando a non confonderla con l’appartenenza al clero. Mi chiedo come ciò sia possibile se gli ecclesiastici, a cominciare da Lei, continuano a mostrarsi con i segni e le prerogative di una speciale vicinanza a Dio e di una superiore autorità sugli altri battezzati. Un discorso simile vale naturalmente anche per i laici (le donne nella Chiesa, suore comprese, sono tutte laiche!) e, in parte anche per il basso clero.

Secondo lei, a chi tocca prendere l’iniziativa dei cambiamenti che urgono? Insieme alla domanda, metto avanti due considerazioni: prima, che solo i santi si spogliano spontaneamente dei loro privilegi; seconda, che niente valorizza quanto il prendere l’iniziativa.

3. Viviamo in un mondo la cui economia si è unificata a livello globale e funziona a costo di continui squilibri le cui conseguenze negative cadono sulla parte più debole della popolazione, a livello globale come nelle situazioni particolari. Da quando lei è diventato il capo della Chiesa cattolica, segnala con parole energiche la condizione di coloro che si trovano esposti alle sofferenze e ai rischi della povertà. E predica una Chiesa povera vicina ai poveri. M’interrogo sul significato che può avere la sua predicazione in un mondo come questo.

Lei viene dall’America Latina, dove la teologia della liberazione dei poveri interpretava il messaggio evangelico nel contesto del nostro mondo. Ma fu condannata e repressa sotto il pontificato di Giovanni Paolo II. Lei, come noto, fu d’accordo con la posizione dell’autorità di Roma (lasciando da parte i modi usati dal suo predecessore, di una durezza che il contesto non giustificava).

Quando diventò vescovo di Buenos Aires, anni dopo, in una predica di Natale disse: «preghiamo in particolare per gli emarginati che, come i poveri pastori del Vangelo, vivono e sperimentano la “periferia della vita” affinché trovino nella nostra vicinanza una presenza capace di far conoscere loro il Dio che ci ama». In queste parole traspare la sua distanza dalla teologia della liberazione. Ma si sente anche una certa distanza dalla predicazione di oggi: allora il male della povertà era l’assenza di Dio, mentre ora il male sembra essere semmai il nostro egoismo di privilegiati. Ho raccolto degli elementi per porre la mia domanda. Come risposta principale della Chiesa alla condizione di povertà grave di una parte dell’umanità, lei pensa a una nuova dottrina sociale, adatta al secolo XXI? Oppure pensa (ripeto, come risposta principale) che sia preferibile continuare con quello che la Chiesa già sta facendo, la filantropia e la beneficenza? Oppure pensa a una conversione dei cattolici nel senso di una Chiesa spirituale non compromessa con i poteri di questo mondo?