Verso un “Cristianesimo non religioso” di M.Turrisi

Michele Turrisi
www.koinonia-online.it

Era il 1944 e un intrepido teologo prigioniero della Gestapo scriveva: «Stiamo andando incontro ad un tempo completamente non religioso; gli uomini, così come ormai sono, semplicemente non possono più essere religiosi. Anche coloro che si definiscono sinceramente “religiosi”, non lo mettono in pratica in nessun modo…».

In generale è giustificato reagire con sorpresa quando “ambienti ecclesiastici” promuovono occasioni comunitarie di riflessione (auto)critica a partire da testimonianze come quella di Bonhoeffer conservata nella Lettera del 30 aprile 1944 dal carcere nazista di Berlino Tegel. Nessuna meraviglia, però, nel caso dell’Associazione Koinonia di Pistoia (Koinonia-online.it), che molto concretamente persegue «una maturazione umana e cristiana adeguata alle esigenze socio-culturali dei nostri giorni». Segno inequivocabile, tra gli altri, di una dichiarata volontà di superare le storture di un certo atteggiamento religioso abbastanza diffuso è stato l’incontro dello scorso dicembre avente per tema: «Verso un “cristianesimo non religioso”» – dove “verso” non esprime il pericolo, la deriva da fronteggiare per salvaguardare il cristianesimo delle Chiese, bensì la direzione sinceramente auspicata, proprio in quanto credenti (che si sentono) chiamati all’adultità spirituale.

Accolto pure in antologie scolastiche di filosofia, il celebre testo bonhoefferiano (le lettere e altri scritti dal carcere sono raccolti in Resistenza e resa) s’impone per la sua clamorosa attualità. Vi si trovano considerazioni stringenti e interrogativi tanto spaesanti (nella comune ottica credente) quanto ineludibili, che suonano come un appello a discernere i “segni dei tempi” accettando di farci i conti fino in fondo, umanamente e cristianamente.

In una vecchia pubblicazione della Claudiana si legge il seguente rilievo: «Più passano gli anni, più Bonhoeffer diventa, per così dire, attuale. Egli ha vissuto in anticipo i problemi fondamentali dell’esperienza e dell’esistenza cristiana di oggi e, probabilmente, anche di domani. In questo senso è vero che “stiamo ancora rincorrendo Bonhoeffer” (Sperna Weiland)». Difficile dissentire. Anzi, due noti teologi – seppure parecchio distanti fra loro – riconoscono la piena validità del messaggio del giovane pastore luterano anche nel nuovo secolo: l’uno constatando che «le cose, rispetto al 1944, per la tradizionale mentalità religiosa sono rimaste esattamente le stesse, ancora si cercano buchi [o lacune, del mondo fisico e dell’anima umana] per dare legittimità e consistenza al discorso su Dio» (Vito Mancuso, L’anima e il suo destino); l’altro ammettendo che «nessuna Chiesa ha osato mettere in pratica questa indicazione di Bonhoeffer di una doppia ascesi, l’ascesi della parola, riservata alla preghiera, l’ascesi dell’azione, riservata esclusivamente alla pratica della giustizia in mezzo agli uomini» (Paolo Ricca), dopo aver schiettamente ricordato che «Bonhoeffer è uno dei pochi teologi martiri di tutta la storia cristiana.

Poiché i teologi sono intellettuali, come tutti gli intellettuali sono esperti nell’evitare le tempeste della storia e inclini al pensiero cortigiano, cioè quel pensiero che finisce per aderire o non contrastare il potere esistente. In Italia solo 13 docenti universitari rifiutarono di prestare giuramento al fascismo. Bonhoeffer è una di queste mosche bianche: è passato dalla cattedra all’università di Berlino, raggiunta da giovanissimo, alla forca di Flossenbürg. […] Proprio perché ha pensato esclusivamente ciò di cui si è reso responsabile attraverso l’azione, è vissuto solo 39 anni. E il suo pensiero manifesta una crescente giovinezza» (da Finesettimana.org). In un convegno svoltosi a Trento per il centenario della nascita (2006), sempre Paolo Ricca ebbe a dire: «In realtà Bonhoeffer è nato nel futuro. Non è nato cento anni fa, prima di noi, è nato cento anni dopo di noi, e noi, come ha detto un suo studioso, lo stiamo ancora rincorrendo» (dalla rivista “Il Margine”, n. 2/2006).

Ma questa rincorsa verso un cristianesimo adulto – l’unico adeguato alla nostra società secolarizzata, ovvero non più condizionata da una visione religiosa/mitica della realtà – implica un’ardua svolta di fede (e di pensiero!) che va ben oltre il superamento (peraltro tuttora solo in parte realizzato già a livello intracristiano) del dogmatismo e del confessionalismo. Afferma Bonhoeffer: «Le persone religiose parlano di Dio quando la conoscenza umana (qualche volta per pigrizia mentale) è arrivata alla fine o quando le forze umane vengono a mancare – e in effetti quello che chiamano in campo è sempre il deus ex machina, come soluzione fittizia a problemi insolubili, oppure come forza davanti al fallimento umano; sempre dunque sfruttando la debolezza umana o di fronte ai limiti umani […]; io vorrei parlare di Dio non ai limiti, ma al centro, non nelle debolezze, ma nella forza, non dunque in relazione alla morte e alla colpa, ma nella vita e nel bene dell’uomo».

Cosa significa allora emanciparsi dalla dipendenza (infantile) nei confronti di un’entità trascendente religiosamente caratterizzata? La risposta la facciamo dare a uno dei maggiori filosofi italiani, la cui “ri-cristianizzazione” (raccontata in un personalissimo libriccino del 1996) non poteva certo ignorare la teologia di Bonhoeffer: «[…] Ciò che mi sta a cuore è rifiutare quel cristianesimo che vuole affermare la religione come necessaria via di scampo da una realtà “intrattabile”; ancora una volta, insomma, l’idea bonhoefferiana del Dio “tappabuchi”, per la quale la via della ragione a Dio è la via dello scacco e del fallimento. È verosimile che, una volta scelto questo atteggiamento, si finisca per enfatizzare la realtà del male, l’insuperabilità dei limiti umani, l’idea della storia come luogo di sofferenza e di prova invece che come storia della salvezza. Su questa base, sarebbe fin troppo facile ritorcere l’accusa di insensibilità al male del mondo contro coloro che la formulano dal punto di vista del cristianesimo tragico: troppo spesso, infatti, l’enfasi sulla realtà del male insuperabile con mezzi umani si è risolta, anche nella storia della Chiesa, in accettazione dei mali del mondo, affidati alla sola azione della grazia divina.

Incarnandosi, in tutti i sensi della kenosis, Dio rende invece possibile un impegno storico concepito come effettiva realizzazione della salvezza, e non solo come accettazione di una prova o ricerca di meriti in vista dell’al di là. […] È vero che la posizione “tragica” sembra corrispondere di più alle esperienze in tanti sensi apocalittiche che vive l’umanità del XX secolo: effetti perversi del “progresso” tecnico e scientifico, incombere di problemi esistenziali apparentemente irresolubili… Ma il “salto” nella trascendenza, in queste condizioni, può avere al massimo un significato consolatorio; se spinto oltre questo significato, diventa fonte di una interpretazione superstiziosa, magica, naturalistica, del divino. […] Il cristianesimo tragico corrisponde fin troppo bene a una certa Stimmung diffusa in questa fine millennio, che io credo vada contrastata perché i suoi esiti sono i fondamentalismi, la chiusura nell’orizzonte ristretto della comunità, la violenza implicita nel concepire la Chiesa sul modello di un esercito pronto alla battaglia, la tendenziale inimicizia verso la facilitazione dell’esistenza promessa, e in parte realizzata, dalla scienza e dalla tecnica» (Gianni Vattimo, Credere di credere).

Maria Mantello ha osservato che «il dio di Bonhoeffer non vuole troni nel mondo, e così libera la fede individuale dalla Religione»; che «mettere Dio tra parentesi (etsi Deus non daretur, come sosteneva il teologo luterano) resta ancora la strada per la libertà e l’autodeterminazione individuale nella civile convivenza democratica – è la strada della laicità»; che «il credente emancipato non ha bisogno delle fughe escatologiche ma dice sì alla vita “così com’è”, nella responsabilità di esserne artefice nell’umana interrelazione» (cfr. “Libero Pensiero” di settembre 2013). Posizione, questa, a mio avviso ben compatibile con quella espressa da uno stimato biblista e teologo protestante che, proprio rifacendosi a Bonhoeffer, ha scritto: «È la croce di Cristo che esprime statutariamente per noi cristiani lo “spazio” di Dio nel mondo. Sulla croce, Dio, in Cristo, si espone senza tutele, su uno spazio pubblico per eccellenza […]. Per questo, io credo, è un’esigenza innanzitutto cristiana quella che Dio non sia posto come a-priori necessario o come fondamento di valori di per sé non universalmente condivisi. Tanto più nociva per il cuore dell’annuncio cristiano è la pretesa di presentare i valori cristiani come fondamento naturale, aprioristico e indiscutibile di quelle attività (come la scienza e il dominium terrae) che il creatore ha affidato all’autonomia di quella umanità cui ha attribuito il ruolo di agire “a immagine di Dio”» (Daniele Garrone, “Protestantesimo” 61 – 2006).

Quando la fede non è ridotta a psicofarmaco comunitario né strumentalizzata per schiacciare gli “altri” (guardati sempre dall’alto come eterni minori bisognosi di “luce” e di redenzione): ecco l’orizzonte in cui finalmente credenti e non credenti possono incontrarsi, contaminarsi a vicenda e persino affratellarsi. Ebbene, sperimentò anche questo nella sua breve vita (ma dinamica esistenza!) quello “spregiudicato” teologo antinazista il quale, lungi dal disdegnare la compagnia di persone non religiose, osò confessare: «Spesso mi chiedo perché un “istinto cristiano” mi spinga frequentemente piuttosto verso i non religiosi che verso i religiosi, e ciò non certo nella prospettiva di un’azione missionaria, ma in uno stato direi quasi “fraterno” [sic!]».

Di più: l’incontro di Bonhoeffer con persone non credenti ha pesato sulla sua ricerca di un cristianesimo areligioso in un mondo diventato adulto. Lo ha evidenziato Beatrice Iacopini nella sua relazione al summenzionato convegno di Koinonia: «In carcere, Bonhoeffer tocca con mano un mondo che fa a meno di Dio: nessuno dei suoi compagni di prigionia, né le guardie sembrano vivere alcun riferimento religioso. In particolare è colpito dal fatto che neppure durante i bombardamenti – e quindi mentre sperimentano il terrore – coloro che lo circondano si rivolgono a Dio. Tale osservazione conferma la sua convinzione che presentare Dio come soluzione ai problemi dell’uomo, oltre ad essere teologicamente sbagliato, è anche del tutto inutile: in un mondo ormai adulto, gli uomini vogliono camminare sulle proprie gambe».

Un augurio: che di fronte alle sfide etiche nella comune avventura di quaggiù, credenti e non credenti possano presto riscoprirsi almeno compagni, se non fratelli.