Il vescovo di Roma di G.Codrignani

Giancarla Codrignani

Avevo scritto questa riflessione qualche giorno fa. La mando in giro con “qualche problema in più” dopo l’attacco del card. Caffarra a Kasper

Il saggio (e le interviste) del card. Kasper oltre all’incontro di Papa Francesco con il direttore del Corriere della Sera sollecita ad esprimere dubbi e aspettative sul mutamento radicale del Papato, come istituzione, dopo un anno di nuovo pontificato.
Papa Francesco sembra il primo a sapere che un certo modo di intendere l’istituzione pontificale è finito.

Forse pensa ad un ritorno al significato originario, oggi solo etimologico, del “facitore di ponti”. Comunque non sarebbe implicito al suo costante nominarsi “Vescovo di Roma” e all’abbandono del fatidico “noi”, pronome d’uso per l’autorità suprema, nell’esortazione “apostolica” Evangeli Gaudium. Anche perché, in assenza di regole formali sull’istituto delle dimissioni, i papi sono due.

P. José Maria Castillo ritiene (cfr. il suo blog del 24 febbraio) che per il Papa sia fondamentale che “la Chiesa pensi come Gesù ha pensato. Parli come Gesù ha parlato. E viva come Gesù ha vissuto”, ma che contemporaneamente lo preoccupi sapere che “con il passare del tempo, nella Chiesa si sono andate elaborando ed affermando una serie di idee, di norme, di riti e di tradizioni, ai quali si dà più importanza che al Vangelo”.

Qualche problema, infatti, si pone. E non solo perché è uscito nelle edizioni Piemme il libro di Giuliamo Ferrara “Questo papa piace troppo”. La gente si è abituata a non percepire la valenza delle dverse interpretazioni del cattolicesimo che si sono venute storicamente affermando. E’ da questa inavvertenza che si sono originate l’incomprensione seguita agli entusiasmi e la mancata difesa del Vaticano II.

Di fatto il mondo cattolico mantiene ancora un’unità formalmente forte, ma comprende tendenze non solo esegetiche, ma anche dovute culture diverse in altre parti del mondo. Oggi non sarebbe possibile disciplinare le differenze con scomuniche e imposizione di ortodossie; tanto più che il rispetto dell’autonomia delle opinioni rende la censura ormai inapplicabile anche in un mondo gerarchico come quello ecclesiastico avvezzo al pensiero unico. Eppure non è pensabile come alternativa all’antica disciplina una tacita anarchia sostanziale.

Di fatto si può dire che, in linea di principio, per ora l’unità della Chiesa vive della rendita del Concilio di Trento. L’adeguamento difensivo di papa Benedetto XVI ai “principi non negoziabili” ne è il risultato totalmente astratto ed estraneo alla vita di un “popolo di Dio” che, anche se oggi è socialmente e culturalmente qualificato, sa ben poco delle ragioni della sua fede. E’ lontanissimo il medioevo, quando la chiesa era luogo di partecipazione effettiva e da troppe generazioni i “fedeli” si accontentano di quello che passa il convento (che, dagli inizi dell’età moderna, è davvero poco).

Dire che la Chiesa ha perduto via via gli intellettuali perché illuministi, i lavoratori perché socialisti e le donne perché femministe è cercare alibi autoassolutori a giustificazione della propria incapacità di controllare le sfide della storia e di andare oltre. Oggi papa Francesco tenta di superare i duecento anni di ritardi di cui parlava Carlo Maria Martini e incomincia rifacendo autentico il Vangelo, seguito dall’entusiasmo della gente.

Può bastare, se credenti e non credenti restano ancora amanti di Gesù ma non buoni testimoni della sua verità che conoscono poco anche perché mentalmente sensibili a consuetudini tradizionali di devozioni, precetti, pellegrinaggi, ricorrenze festive (e meno al valore della messa)? Chi frequenta la parrocchia non si domanda se la sua fede ne riceve senso e perché i figli, quando non sono più bambini, se ne allontanano.

Difficile anche per i credenti immersi nella modernità interrogarsi sulla coerenza della loro vita religiosa: da generazioni accettano la doppia morale e la Chiesa, che non ignora come ben pochi osservino i precetti chiamati morali, per quello che è la sua responsabilità istituzionale, si affida, più che alle famiglie o alle parrocchie, all’ora concordataria di religione cattolica nelle scuole pubbliche.

Molto delle scelte di costume può confliggere con una Chiesa che intende rifarsi povera anche con la croce di ferro e le calzature comuni del Papa. E’ sicuramente prioritario riformare lo Ior, ma anche fare abituare alla coerenza le chiese preganti senza più ori, incensi, paramenti preziosi. Ma l’esteriorità è simbolica e, se certo non infastidisce la gerarchia, affascina quelli che baciano la mano al prete.

Non basta, dunque, che Francesco sia simpatico. Esistono – per i cristiani non “adulti” – finestre di vulnerabilità di cui si può giovare una dissidenza ormai nemmeno più tanto larvata. Troviamo su Internet i siti dissidenti dei veterotradizionalisti, dei gruppi fondamentalisti, dei conservatori seduti nei primi banchi parrocchiali e fedeli alla destra.

Francesco viene definito “marxista”: con un intervento che suona ironico il Papa ha chiamato a coordinare il Consiglio dell’Economia il cardinale di Monaco (uno che ha definito i gay “uomini falliti”) che si chiama Reinhard Marx e con un cognome così le accuse non saranno lontane dal vero. Ma se l’ironia è simpatica, non annulla le preoccupazioni. Le chiese asiatiche e africane non sono arrivate al cristianesimo senza pagare il tributo alla loro storia e alle tradizioni religiose che hanno preceduto la fede nuova.

Il principio di autorità, i conflitti etnici (ricordiamo le stragi agite da cristiani tutsi e hutu in Rwanda), le tradizioni tribali, il principio patriarcale e virilistico comportano difficoltà inedite. Non è difficile, anche per la concorrenza delle sette, ripescare lo spettro dell’anticristo e incrinare la solidità del nome cristiano.

Da quando è finito il potere temporale, tutte le volte che la storia si è mossa la Chiesa ha fatto argine, soprattutto – per quello che riguarda i fedeli – al proprio interno, censurando le posizioni più avanzate. Considerando retrospettivamente il modello è stato quello del processo a Galileo, dove Urbano VIII sapeva che la terra non era mai stata al centro dello sguardo di dio, ma temeva che la gente perdesse la fede. Sempre retrospettivamente la accuse al modernismo o al don Milani della nonviolenza o alla teologia della liberazione sono state operazioni di convenienza e di potere, assolutamente prive di contenuto teologico e di coerenza pastorale.

Oggi nessuno, allo stato, potrebbe dire qual’è la teologia ufficiale della Chiesa. Il “nuovo” Catechismo del 1992 è in vigore: Papa Bergoglio lo accetta integralmente come papa Ratzinger? Credo che non basti fare immagine, anche se tutto quello che ne promana mi sembra felicemente nuovo. Anche se non è mai stato un teologo, Francesco non è un uomo semplice (e non solo perché è un gesuita) e indubbiamente ha una sua strategia.

Non a caso è uscito (sul “Foglio”, non sappiamo se con scoop autorizzato) con una lunga disquisizione che ripropone, in relazione al Sinodo sulla famiglia, i principi della tradizione: “è il “diritto naturale” che “offre un criterio per valutare la poligamia, i matrimoni forzati, la violenza nel matrimonio, il machismo, la discriminazione della donna, la prostituzione, le condizioni economiche moderne ostili alla famiglia”.

“L’amore tra un uomo e una donna e la trasmissione della vita sono inscindibili”, anche se è possibile “decidere responsabilmente sul numero e sui tempi della nascita dei figli”. L’indissolubilità “continua a sussistere anche laddove, umanamente, il matrimonio si spezza…

L’indissolubilità di un matrimonio sacramentale e l’impossibilità di nuovo matrimonio durante la vita dell’altro partner fa parte della tradizione di fede vincolante della Chiesa che non può essere abbandonata o sciolta richiamandosi a una comprensione superficiale della misericordia a basso prezzo”. Il matrimonio e il celibato (si dice: “liberamente scelto”) “si valorizzano e si sostengono a vicenda”.

“La famiglia come chiesa domestica” può diventare “lievito nel mondo”, anche se di fronte alla sua attuale disgregazione “abbiamo bisogno di un cambiamento di paradigma”. Quanto alla comunione sacramentale ai risposati, che metterebbe in discussione la struttura fondamentale dei sacramenti, il professor (sic) Ratzinger ha indicato una via di soluzione penitenziale come nei primi secoli si faceva con i lapsi, quelli che avevano rinnegato il battesimo per paura delle torture.

Ovvio per Kasper che il potere del vescovo rispetti la misericordia con discenimento: i matrimoni civili “vanno distinti da altre forme di convivenza irregolare come i matrimoni clandestini, le coppie di fatto, soprattutto la fornicazione e i cosiddetti matrimoni selvaggi (espressione a me ignota)”.

In un’intervista ad Avvenire (2 marzo) Kasper auspicava la presenza di donne al Sinodo come di ogni altro livello e, alla domanda delle ragioni della loro assenza, rispondeva che “nella Chiesa l’autorità dei ministri consacrati e dei vescovi non è dominio ma è sempre servizio al popolo di Dio, e deriva dalla potestà di amministrare il sacramento dell’Eucaristia.

Intendere quindi l’esercizio dell’autorità legata al ministero ordinato in termini di potere è clericalismo. Questo si vede anche nella scarsa disponibilità di tanti presbiteri – sacerdoti e vescovi – a lasciare ai laici il controllo di ruoli di responsabilità che non richiedono il ministero ordinato”.
Sono tutte dichiarazioni che potrebbero essere state sottoscritte da Benedetto XVI (un dubbio per il celibato come “scelta”) o da Giovanni Paolo II.

E confermano quello che Francesco ha risposto al giornalista che, nel viaggio in Brasile, gli aveva chiesto quale fosse la sua posizione dottrinale: “quella della Chiesa”. Cioè la tradizione, cioè i duecento anni di immobilismo. Eppure non è pensabile che non si affrontino definizioni teologiche oggi quantomeno dubbie, a partire dal concetto di “diritto naturale”, che trae con sé quello di “creazione” e di compatibilità con la storia evolutiva della terra e di un universo che forse è un multiverso. Non si dovrebbe temere nemmeno un rinnovamento degli stessi sacramenti, canonicamente sette e tridentini, di cui solo due, battesimo ed eucaristia, fondanti.

L’indissolubilità e il celibato non possono essere risotti al costume e al valore intrinseco al concetto di tradizione. Il “potere” di amministrare l’eucaristia è rigorosamente maschile senza una ragione né scritturale né teologica che lo vieti alle donne, per restare decisione di papi inevitabilmente patriarcali deve essere dottrinalmente (e seriamente) definito.

Non basta dire “chi sono io per giudicare” per definire i criteri in base ai quali la Chiesa non solo può giudicare o non giudicare, ma deve definire se stessa, il signficato delle Scritture, i sacramenti, la liturgia, il senso della successione apostolica, la funzione del papato in relazione alla collegialità. Il Vangelo non basta? non basta. Gesù non ha scritto nulla, gli evangelisti sono quattro e in disaccordo e le interpretazioni hanno vietato il “libero esame” e la libera ricerca teologica.

Il primo di ottobre sarà indicativo. Ma dovrà sciogliere le perplessità che non vertono solo sulla famiglia.