Le bugie di Obama sulla Siria

Michele Paris
www.altrenotizie.org

Tra il silenzio quasi assoluto dei principali media in Occidente, qualche giorno fa l’autorevole giornalista investigativo americano Seymour Hersh ha pubblicato una nuova esplosiva rivelazione basata su fonti di intelligence statunitensi che contribuisce ulteriormente a smontare le tesi ufficiali sul conflitto in Siria sostenute dai governi che sponsorizzano l’opposizione al regime di Bashar al-Assad.

Uscita sul sito web della London Review of Books, l’indagine di Hersh si apre con una sorta di seguito di quanto egli stesso aveva già portato all’attenzione del pubblico lo scorso dicembre, mettendo nuovamente in evidenza come l’amministrazione Obama avesse mentito deliberatamente nell’agosto del 2013 in relazione alle presunte prove sull’attacco con armi chimiche condotto nella località di Ghouta, nei pressi di Damasco.

Hersh, in particolare, rivela in questa occasione le incertezze e le divisioni all’interno del governo americano in merito alla possibilità di aggredire militarmente la Siria, giustificando l’operazione bellica proprio con il superamento della cosiddetta “linea rossa” imposta da Obama da parte del regime, accusato senza fondamento di avere fatto ricorso al sarin contro i “ribelli”.

I campioni prelevati a Ghouta dopo l’attacco del 21 agosto erano stati analizzati da un laboratorio delle forze armate britanniche a Porton Down, nel Wiltshire, e i risultati avevano dimostrato che la sostanza utilizzata non corrispondeva a quelle facenti parte dell’arsenale di Assad.

Questa conclusione, spiega Hersh, fu riferita allo Stato Maggiore USA e accentuò ulteriormente i dubbi del Pentagono sull’opportunità di una nuova azione militare in Medio Oriente dalle conseguenze imprevedibili. Le perplessità dei militari vennero così riferite al presidente Obama che, poco dopo, fu costretto ad una clamorosa marcia indietro.

D’altra parte, il Pentagono e l’intelligence a stelle e strisce sapevano da mesi che, al contrario di quanto sostenuto pubblicamente dall’amministrazione Obama, il regime di Damasco non era l’unico attore in Siria a disporre del Sarin. Alcuni gruppi armati dell’opposizione erano infatti riusciti ad ottenere una certa quantità di questa sostanza letale, verosimilmente con l’assistenza di paesi come Arabia Saudita o Turchia, ed erano intenzionati a mettere in atto un’azione spettacolare per poi assegnarne la responsabilità ad Assad e provocare la reazione della comunità internazionale.

Già a partire dalla primavera del 2013 vi erano stati attacchi con armi chimiche in varie località siriane e, secondo Hersh, almeno un episodio registrato nei pressi di Aleppo il 19 marzo era da attribuire ai “ribelli”, come avrebbero poi confermato le indagini sul campo condotte dalle Nazioni Unite. I risultati, tuttavia, “non sono stati resi pubblici, perché nessuno [tra i governi occidentali e i media ufficiali impegnati nell’attività di propaganda a favore dell’opposzione] voleva che si sapesse” la verità.

Basandosi quindi su rapporti di intelligence manipolati, sull’occultamento dei fatti e sull’esempio dell’invasione dell’Iraq un decennio prima, l’amministrazione Obama all’indomani dell’attacco di Ghouta a fine agosto ordinò al Pentagono di preparare un piano di guerra.

I vertici militari presentarono una lista di 35 obiettivi da colpire in Siria ma venne respinta dalla Casa Bianca perché insufficiente, visto che includeva soltanto installazioni militari e nessuna infrastruttura civile. Al contrario delle dichiarazioni pubbliche, nelle quali veniva prospettata un’operazione mirata, quello che il governo USA aveva in previsione era in realtà “un attacco gigantesco” che, su basi totalmente illegali, sarebbe risultato in una nuova criminale strage di civili per abbattere il regime di Assad.

Quando l’operazione sembrava sul punto di scattare, però, la versione sostenuta pubblicamente dalla Casa Bianca era ormai finita nel completo discredito e ciò, assieme alla profonda contrarietà alla guerra dell’opinione pubblica occidentale, contribuì in maniera decisiva a far sospendere i preparativi di guerra.

Ufficialmente, tuttavia, il presidente fu costretto a fornire un’altra spiegazione, così che alla fine venne deciso di chiedere al Congresso l’autorizzazione all’uso della forza. Le divisioni nei due rami del Parlamento americano e, soprattutto, l’ostilità della popolazione a una nuova avventura bellica, fecero opportunamente arenare i progetti di guerra di Obama, il quale avrebbe inoltre trovato soccorso nella proposta russa di negoziare la consegna dell’arsenale chimico di Assad.

Un ex alto funzionario del Dipartimento della Difesa USA ha rivelato che la Casa Bianca diede una diversa spiegazione al Pentagono per l’improvvisa marcia indietro sulla Siria, poiché se i bombardamenti americani fossero stati lanciati, “l’intero Medio Oriente sarebbe andato in fiamme”.

Le armi

Del tutto inediti sono invece altri due aspetti evidenziati dal lungo articolo di Seymour Hersh, il primo dei quali riguarda l’impegno statunitense per fornire armi ai “ribelli” anti-Assad. L’amministrazione democratica aveva cioè creato fin dall’inizio del 2012 una cosiddetta “rat line”, gestita dalla CIA, per trasferire armi dalla Libia all’opposizione siriana tramite la Turchia.

Al contrario di quanto affermato pubblicamente circa gli scrupoli nell’assistere solo i gruppi più moderati dell’opposizione, questo materiale è spesso finito nelle mani di formazioni integraliste, comprese quelle affiliate ad Al-Qaeda.

Questa operazione segreta era descritta in un allegato classificato del rapporto prodotto dalla commissione del Senato sui Servizi Segreti per fare chiarezza sui fatti che portarono all’assassinio a Bengasi dell’ambasciatore USA in Libia, Christopher Stevens, e di altri tre cittadini americani l’11 settembre del 2012.

Nell’allegato viene descritta l’attività della CIA in una struttura apposita che sorgeva non lontana dal consolato di Bengasi, da dove l’agenzia di intelligence conduceva le operazioni necessarie a rifornire i “ribelli” siriani con le armi appartenute a Gheddafi.

Le forniture erano scaturite da un accordo tra gli Stati Uniti e la Turchia, in base al quale il governo di Ankara, assieme alle monarchie assolute di Arabia Saudita e Qatar, si occupava dei finanziamenti e la CIA, in collaborazione con l’MI6 britannico, della logistica. Per evitare di mettere al corrente il Congresso dell’operazione, come avrebbe dovuto fare secondo la legge americana, la CIA si appellò a un cavillo, facendo passare la missione come un’iniziativa dei britannici a cui gli agenti americani fornivano la loro cooperazione.

Dopo l’assalto al consolato di Bengasi, in ogni caso, Washington terminò il coinvolgimento della CIA nel trasferimento di armi in Siria, anche se i rifornimenti non vennero interrotti. Poco più tardi, così, alcune decine di sistemi missilistici anti-aerei portabili (“manpads”) sarebbero stati identificati tra le dotazioni dei gruppi “ribelli”. A livello ufficiale però, gli Stati Uniti continuano tuttora a mostrarsi contrari, o quanto meno esitanti, a fornire queste armi, vista la concreta possibilità che esse possano finire in mano a formazioni jihadiste ed essere usate per abbattere velivoli commerciali.

La collaborazione tra Washington e Ankara conduce infine alla rivelazione più eclatante dell’indagine di Hersh in relazione al comportamento di un governo turco già profondamente scosso e infastidito dai rovesci patiti dai “ribelli” per mano delle forze del regime di Assad.

Dalla primavera del 2013, così, l’intelligence americana ha iniziato a raccogliere informazioni sulla collaborazione della polizia militare (“Jandarma”) e del servizio segreto turco (MIT) con il Fronte al-Nusra – l’organizzazione integralista sunnita attiva in Siria apertamente riconosciuta da Al-Qaeda – per sviluppare le capacità necessarie ad ottenere armi chimiche.

La Turchia, d’altra parte, ha investito tutto sul successo dell’opposizione anti-Assad in Siria e un eventuale successo del regime getterebbe ancor più nel panico il governo islamista di Ankara. Erdogan, perciò, prese la decisione di provocare un intervento militare americano per ribaltare gli equilibri del conflitto.

I vertici turchi provarono verosilimente a convincere Obama già nella primavera del 2013 che Assad aveva superato la “linea rossa” fissata dallo stesso presidente americano con alcuni attacchi condotti invece dai “ribelli” utilizzando armi chimiche. Washington, però, continuò a mostrare cautela, anche dopo l’incontro tra i due leader alla Casa Bianca nel mese di maggio.

Il resoconto di una cena tra Obama e Erdogan in occasione della trasferta americana di quest’ultimo fornisce un quadro sufficientemente dettagliato dell’impazienza e del nervosismo del leader turco per le sorti del conflitto in Siria. In quell’occasione, Erdogan era affiancato dal suo ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu, e dal numero uno dell’MIT, Hakan Fidan, primo responsabile dei rapporti con l’opposizione siriana.

La cena era stata dominata dai tentativi quasi disperati del primo ministro turco di dimostrare che la “linea rossa” circa l’uso di armi chimiche in Siria era stata oltrepassata. Secondo quanto riferito successivamente dall’allora consigliere per la sicurezza nazionale di Obama, Tom Donilon, Erdogan esprimeva in maniera molto accesa le sue tesi, puntando ripetutamente il dito contro il presidente americano.

Obama, da parte sua, impedì più volte al capo dei servizi segreti turchi di prendere la parola, per poi affrontare direttamente quest’ultimo, dicendogli che la sua amministrazione era a conoscenza di “ciò che state facendo con gli integralisti in Siria”. Il governo americano, dunque, non si lasciò convincere dai leader della Turchia, anche se Erdogan non uscì a mani vuote dal vertice di Washington, visto che ottenne il permesso di continuare a intrattenere relazioni commerciali con l’Iran sotto sanzioni, pagando le importazioni provenienti da Teheran in oro.

Il rifiuto americano scosse comunque seriamente il governo di Ankara, visto che “senza il supporto militare degli Stati Uniti ai ribelli, il sogno di Erdogan di instaurare un regime amico in Siria stava svanendo”. Inoltre, come racconta un anonimo ex agente dell’intelligence USA, “se la Siria vince la guerra, [Erdogan] sa che i ribelli gli si rivolteranno contro”, così che si ritroverà con “migliaia di fondamentalisti nel suo giardino”.

In questo scenario si inserisce la descrizione di un briefing segreto preparato dall’intelligence americana per il capo di Stato Maggiore americano, generale Martin Dempsey, e il Segretario alla Difesa, Chuck Hagel, circolato qualche settimana prima dell’attacco del 21 agosto 2013 a Ghouta. Il documento parlava della “forte ansia” del governo Erdogan viste le prospettive di un conflitto in Siria sempre più favorevole al regime.

L’analisi metteva anche in guardia dal fatto che la leadership turca aveva espresso “la necessità di fare qualcosa per provocare una risposta militare degli Stati Uniti”. Così, nell’autunno successivo, quando i servizi segreti USA ebbero tutti i pezzi del mosaico per confermare che il regime di Assad non era responsabile dell’attacco con il sarin, i sospetti si spostarono inevitabilmente sui turchi.

In maniera inequivocabile, la fonte di intelligence di Hersh afferma che intercettazioni e altre informazioni raccolte sui fatti del 21 agosto hanno confermato i sospetti su Ankara, così che gli USA hanno potuto confermare che l’attacco “fu un’azione sotto copertura, pianificata dalla cerchia di Erdogan per convincere Obama che la linea rossa era stata oltrepassata”.

I turchi, prosegue l’ex agente segreto americano, “dovevano provocare un’escalation con un attacco con gas chimici a Damasco o nelle vicinanze quando gli ispettori delle Nazioni Unite erano in territorio siriano”. Infatti, questi ultimi erano giunti nel paese mediorientale il 18 agosto per indagare su precedenti episodi nei quali erano state usate armi chimiche.

Ancora, l’intelligence militare degli Stati Uniti e altre agenzie “confermarono che il sarin era giunto [ai ribelli] grazie alla Turchia”. I servizi segreti e i militari turchi, inoltre, si erano occupati anche “dell’addestramento per produrre il sarin e delle modalità per maneggiarlo”.

A queste conclusioni, gli USA sarebbero giunti principalmente tramite intercettazioni di conversazioni telefoniche dopo il 21 agosto. Se andato a buon fine, il piano di Erdogan avrebbe potuto risolvere i problemi della Turchia in Siria: “una volta usato il gas, Obama avrebbe affermato che la linea rossa era stata superata e gli Stati Uniti avrebbero attaccato la Siria”.

La mancanza di scrupoli del governo turco nel provocare una guerra rovinosa su premesse simili è stata confermata anche dalla recente apparizione su YouTube di un filmato nel quale Erdogan e i suoi uomini discutono di un’operazione creata ad arte sempre per provocare un intervento militare contro la Siria.

In questo caso, allo studio c’era un attacco condotto dalla stessa Turchia contro la tomba in Siria di Suleyman Shah, il nonno del fondatore dell’impero Ottomano, Osman I, il cui controllo era stato assegnato ad Ankara nel 1921 durante il periodo coloniale francese. La provocazione, come descritto nel filmato dal capo dei servizi segreti turchi, prevedeva l’invio di alcuni propri soldati oltre il confine meridionale, i quali avrebbero dovuto lanciare “otto missili” nei pressi della tomba e il pretesto per una guerra sarebbe stato facilmente creato.

L’indagine di Seymour Hersh mette a nudo ancora una volta le vere ragioni del coinvolgimento degli Stati Uniti e dei loro alleati mediorientali in Siria, nonché le manovre segrete che vengono condotte da governi che hanno ben poco interesse per la sorte e le aspirazioni democratiche della popolazione di questo paese.

Stati Uniti e Turchia continuano infatti ad operare senza alcun rispetto per il diritto internazionale e sono pronti ad appoggiare organizzazioni terroristiche per rovesciare un regime che rappresenta un intralcio ai loro interessi strategici in Asia sud-occidentale.

L’ennesima rivelazione del veterano giornalista americano evidenzia anche come i media “mainstream” occidentali siano poco più che organi di propaganda dei rispettivi governi, dal momento che essi sono stati praticamente unanimi nel condannare Bashar al-Assad per gli attacchi con armi chimiche registrati nel 2013 nonostante le perplessità da subito emerse e riportate spesso in maniera convincente dalla stampa alternativa.

Non a caso, d’altra parte, come l’indagine dello scorso dicembre, anche il più recente lavoro di Hersh non solo non è stato pubblicato da nessuno dei principali giornali americani, ma questi ultimi, così come quelli europei, hanno ritenuto in gran parte di ignorare il nuovo atto d’accusa contro la condotta criminale del governo americano e dei suoi più stretti alleati.