Caro Francesco, io donna e i tuoi poveri

Rita Giaretta
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E’ stato presentato l’11 maggio al Salone del libro di Torino “Caro Francesco. Venticinque donne scrivono al Papa”, un nuovo libro dell’editrice Il pozzo di Giacobbe. Un volume molto bello, il cui pregio sta nell’ampiezza dello sguardo femminile che emerge da queste pagine in cui ciascuna delle autrici scrive una lettera aperta al Papa su una delle parole chiave del suo magistero. Dal volume anticipiamo il capitolo sulla parola «Poveri» scritto da suor Rita Giaretta, anima a Caserta dell’esperienza di Casa Rut.

Caro papa Francesco,

confesso che vivo un certo timore nello scrivere questa lettera a te, caro Francesco, che sei venuto “da quasi la fine del mondo”, e l’emozione che provo dentro è forte. Ma viene da pensare che è davvero bello poter scrivere al papa ed è grande la gioia di poter comunicare nella semplicità, come tu ci stai sorprendentemente educando, perché è solo così che possiamo toccare in profondità le corde umane del nostro cuore.

Parlare dei poveri non è facile, chiederebbe silenzio, ascolto, riconoscimento e accoglienza del volto dell’altro, ma soprattutto l’umiltà e il coraggio di camminare, almeno un po’, con le loro scarpe, quando ce le hanno.

Fin dalla mia giovinezza ho sentito forte l’appello, il richiamo di stare dalla parte dei poveri; di spendere, di vivere la mia vita, con tutto quello che questi termini nell’età giovanile potevano significare in entusiasmo, in ricerca, in dubbi, in lotta e forse anche in pazzie, accanto a chi, per varie situazioni, faceva fatica a trovare il proprio posto nella società. Penso ad Antonia, donna sola che ha lottato per anni, fino alla fine, con una malattia devastante che l’ha inchiodata in una carrozzella, ma che sapeva dire grazie di cuore a noi giovani che a turno andavamo a fare assistenza notturna; penso a Renato, compagno di scuola, che non ce l’ha fatta a uscire dall’inferno della droga nonostante l’affetto e l’amicizia a lui donati; penso a Cristina, amica carissima, che a vent’anni si è trovata completamente paralizzata ma che sapeva parlare e anche lottare con il suo “Neno”-Gesù, da girare a testa in giù, con confidenza estrema, il crocifisso appeso alla parete di fronte al suo letto, ogni qual voltail dolore fisico o i momenti di sconforto le erano insopportabili. Credo di poter dire che sono stati loro, le amiche e gli amici del bisogno, i vicini al cuore di Dio, che mi hanno aiutata ad entrare nella vita.

Posso dire che l’amore per Cristo, che si è fatto a me vicino e presente nei volti dei poveri, dei sofferenti, degli esclusi, in particolare delle tante donne offese nei loro diritti e umiliate nella loro dignità, per il solo fatto di essere donne, mi ha spinta a vincere le mie paure, i miei dubbi, anche le mie inquietudini nei confronti di un certo cammino di Chiesa, per lasciarmi affascinare e afferrare da quella parola: “Chi manderò, chi andrà per me?” dai miei poveri, dalle mie figlie, osando rispondere, con tanto tremore: “Ecco Signore, manda me!” e… giocare tutto per Lui e con Lui.
Un mandato che, dopo quasi venticinque anni di vita religiosa, sento sempre vivo e bruciante nella mia vita. Una missione, quella che sto vivendo tra le Suore Orsoline del S. Cuore di Maria, che mi ha portata insieme ad altre consorelle, io donna del Nord, in una terra del Sud, in terra casertana, considerata non tanti anni fa Terra Felix ma che oggi, violata e piegata da tanti drammi – in particolare dal grave disastro ambientale – è da tutti ribattezzata “Terra Infelix”.

Ma è proprio abitando e amando questa mia e nostra terra, una delle tante “periferie esistenziali” alle quali con tanto vigore, tu caro papa Francesco, continui ad inviarci, che mi sento ogni giorno, personalmente e comunitariamente, interpellata dal Vangelo della vita e della speranza. È abitando questo territorio che ho imparato, insieme alle mie consorelle, a diventare compagnia accogliente di tante giovani donne migranti, anche minorenni, spesso incinte o con figli piccoli, trafficate, schiavizzate e ridotte a merce di scambio, qui sulle nostre strade. È vivendo tra questa mia gente che sono stata provocata a farmi ascolto della disperazione di tanti, troppi, giovani che in questi nostri territori non hanno la pur minima speranza di trovare un lavoro dignitoso al di fuori dei circuiti clientelari e delle raccomandazioni o ancora peggio dei circuiti criminali.

Quanti volti di umanità violata, soprattutto in questo tempo di crisi drammatica, ridotti a non sentirsi più persone ma unicamente “scarti” in una società dove impera il profitto, gli interessi di parte, l’egoismo, la corruzione e dove, spesso, anche questi scarti umani rischiano di diventare oggetto di attenzioni e di interessi per ottenere finanziamenti pubblici.

Grazie, papa Francesco, perché tu non ti stanchi di desiderare, di annunciare e di manifestare “una Chiesa povera e per i poveri”. Grazie perché ci fai capire che è questo il compito primario della Chiesa, ed è questa la vocazione-missione di ogni cristiano. Nella tua breve, intensa e significativa visita a Lampedusa, incontrando donne e uomini affamati e assetati di vita e di speranze, arrivati dal di là del mare, tu stesso ci hai ricordato che in quei disperati, in ogni rifugiato e in ogni povero noi “tocchiamo la carne di Cristo”.

Parole forti quelle da te dette e gesti inequivocabili quelli da te compiuti che hanno toccato e scosso le coscienze, spesso tiepide, soprattutto di noi cristiani. La tiepidezza è una brutta malattia. «Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né caldo né freddo, sto per vomitarti dalla mia bocca» (Ap 3,15-16), sono queste le parole durissime e più che mai attuali del libro dell’Apocalisse.

Ma perché per tanti, troppi, cristiani scegliere e stare dalla parte dei poveri è così difficile? Perché tale scelta è diventata spesso una strada con divieto di accesso per tanti uomini di Chiesa? Forse perché è più facile, meno scomodante e, oserei dire redditizio, rifugiarsi nel recinto del sacro; un recinto, quello del sacro, che come tutti i recinti crea sicurezza, potere, conforto per chi è dentro ma per chi si trova fuori crea separazione, esclusione e marginalità, tutte condizioni queste che dicono il tradimento del Vangelo. E ancora, perché non c’è il coraggio di far sentire la nostra voce, preferendo restare chiusi o forse compromessi nei nostri assordanti silenzi, di fronte alle tante ingiustizie, spesso legalizzate – pensiamo al reato di clandestinità – che continuano a massacrare, a umiliare e a impoverire donne e uomini?

Sono domande queste che mi e ci disturbano e che abitano e inquietano il cuore di tanta gente lasciando in loro un senso di profondo smarrimento. A volte si ha l’impressione che ci si affanna e ci dibatte tanto nell’inventare vie, catechesi, piani pastorali che tentino di mettere in moto quella nuova evangelizzazione, tanto sospirata e proclamata, e poi vediamo che nelle sue forme e espressioni il volto dei poveri, gli amici prediletti di Dio, che sono oggi una moltitudine, fatica a trovare riconoscimento, voce, ascolto e accoglienza.

Forse è facile dirsi credenti ma assai più compromettente essere credibili. Eppure il Vangelo è tremendamente semplice e chiaro in questo senso. Come non sentire il brivido di verità nella risposta alla domanda: «Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti?» (Mt 25,37-39). Questa Parola è per me il fascino di tutto il Vangelo, ed è la bellezza e la grandezza di ogni donna e di ogni uomo che nella libertà scelgono, per amore e nella gioia, di servire la vita, di donare la vita.

Mi capita spesso, abbeverandomi al Vangelo di Gesù e lasciandomi condurre dalla forza di novità e di libertà sempre nuove, che sono e continuano ad essere nella storia e nell’oggi la vita e l’insegnamento di Gesù, di sentirmi abitata dal desiderio di vivere una Chiesa dal volto più femminile, più materno. Credo che questo nostro tempo sia il “tempo favorevole” per un autentico cammino evangelico che ha la forza di rendere presente e credibile “una Chiesa povera e per i poveri”, ma questo cammino potrà avanzare nella storia, e ne sono fermamente convinta, solo se le donne vi faranno parte con piena e pari dignità, non da “serve” ma da discepole o meglio ancora da amiche perché è a questo che Gesù ci chiama: «Non vi chiamo più servi […] ma amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15).

Caro papa Francesco, tu hai detto che vorresti una Chiesa che fosse oggi come “un ospedale da campo”. Un’immagine, questa, attraente, provocante e direi profetica che parla di presenza, di vicinanza e di prontezza nel saper piegarsi per curare le tante ferite sanguinanti che affliggono le donne e gli uomini del nostro tempo.
Ma con sensibilità femminile sento di osare anche un’altra immagine che sento complementare e necessaria. Come vorrei che la Chiesa nelle sue varie espressioni fosse come una “sala parto” dove l’accoglienza degli innumerevoli sepolcri che rinchiudono oggi le tante vite spezzate possano trasformarsi in grembi fecondi capaci di rigenerare vita e speranze sempre nuove. I poveri attendono di essere medicati e fasciati, di sentirsi curati, ma anche e soprattutto di essere liberati e rigenerati, di sentirsi salvati. I volti dei poveri, come i tanti volti delle giovani donne migranti in accoglienza nella nostra Casa Rut, attendono e chiedono di essere restituiti alla loro bellezza, alla loro dignità di figli e di figlie di Dio.

Caro papa Francesco, oggi è la festa liturgica di Tutti i Santi, e mentre concludo questa lettera guardo commossa il volto illuminato di mamma Mary, giovane donna nigeriana, chinarsi con amorevole tenerezza per stringere a sé i volti sorridenti delle sue piccole figlie, due gemelline; ripensando alla sua storia carica di dolore e di umiliazioni sento una voce che sale dal cuore: “beati i poveri, beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, beati i misericordiosi…” e vedo e vivo il sorriso di Dio che unisce il cielo alla terra.