Fine del partito democratico? di R.LaValle

Raniero La Valle
Intervento al dibattito su Senato e legge elettorale promosso dalla Associazione per Rinnovamento della Sinistra alla Sala della Mercede della Camera dei Deputati l‘ 8 maggio 2014.

Sul Senato vorrei dire solo due cose. Anzitutto vorrei richiamare il monito che qualche giorno fa faceva il costituzionalista Mario Dogliani parlando a un incontro promosso dal Centro per la Riforma dello Stato: il monito al Partito Democratico perché dopo i deludenti dibattiti in direzione e in Parlamento sull’Italicum e sul passaggio dal governo Letta a Renzi, non abbandonasse ora senza combatterla la battaglia per il Senato.

In secondo luogo vorrei dire che in una democrazia ben fondata e seria non ci sono pregiudiziali di principio contro il monocameralismo. Alla Costituente ci fu una posizione monocameralista e anche Ingrao, come si legge nel suo libro uscito oggi, dopo l’esperienza di Presidente della Camera si pronunciò per un’opzione monocamerale; in questi giorni io stesso ho scritto che piuttosto che un Senato di notabili locali, con senatori magari di nomina quirinalizia, come quello a cui l’inviato piemontese in Sicilia voleva ascrivere il principe di Salina nella logica del Gattopardo, io preferirei che l’Italia offrisse di ospitare a Palazzo Madama un Senato dei popoli aprendosi al mondo.

Però io credo che qui vi sia di mezzo ben più che il Senato, c’è di mezzo la qualità della democrazia, perché nella cultura degli attuali riformatori non c’è un coerente disegno costituzionale, ma c’è, sulla scia del processo alla politica, l’idea di buttare a mare una zavorra e di cominciare con l’abrogare mezzo Parlamento.

Ma soprattutto mi pare che in questi giorni si stia consumando una tragedia politica, che è la fine del Partito Democratico, come già finirono la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista. Già nelle maratone televisive, nei giornali, nel dibattito politico il Partito Democratico, gli esponenti democratici non ci sono più, c’è solo il renzismo e ci sono i renziani e le renziane. E la questione si pone sul lato dei contenuti e sul lato dello stile, che è sostanza anch’esso.

Sul lato dei contenuti quella che appare è una destra finalmente pervenuta al potere. E’un evento che giunge in Italia con un ritardo di vent’anni, perché Berlusconi ha occupato il potere ma non è stato a misura di esercitarlo, impedendo nello stesso tempo a chiunque altro, compresa la destra, una destra presentabile, di esercitarlo. La chiave di questo paradosso del potere e dell’impotenza di Berlusconi sta nella frase che più di ogni altra nelle polemiche del tempo colpì il centro destra e provocò l’indignazione dei seguaci di Berlusconi: voi non siete presentabili.
Ora questo impedimento è caduto, la destra può governare e questo spiega il tripudio della Repubblica e di tutto il sistema dei media.

Ma oltre la questione dei contenuti – l’Italicum, il jobs act, gli 80 euro che nella loro incessante ripetizione propagandistica assomigliano ai treni in orario di Mussolini – c’è una questione di cultura politica e di stile. L’attuale ceto politico al potere si presenta e pretende il consenso in modo sguaiato. La pretesa di essere i primi finalmente a mettere a posto le cose, la tabula rasa di funzioni culturali sindacali e sociali esercitate da diversi soggetti storici per anni, l’idea di un carisma frutto non di un severo tirocinio e apprendimento alla scuola della politica e della vita, ma di una predestinazione al comando, sono devastanti e cambiano sì l’Italia, ma la cambiano in modo da renderla irriconoscibile nei suoi costumi relazionali e civili. La bonifica degli eccessi polemici e insolenti del vecchio centro-destra populista, che doveva essere una delle opere più meritorie dei suoi successori al potere, non c’è stata.

La democrazia in Italia ha avuto i suoi momenti di durezza, di scontro, di lotta perfino armata. Ma i grandi partiti che hanno interpretato i primi decenni della storia repubblicana, hanno esercitato una mitezza, una pratica della ragione, un rispetto per gli oppositori e per ogni altra componente della società politica, che hanno educato intere generazioni ad abiti di democrazia e di tolleranza.

Oggi la politica dei nuovi protagonisti è senza mitezza, non si sente in obbligo con la ragione, non nutre rispetto per avversari o amici, per interlocutori e analisti, per sindacalisti e professori, ma anzi, spesso, un sovrano disprezzo.

Questo però vuol dire che intere fasce popolari e di opinione, eredi di altri stili e di altre culture politiche, su cui trovavano naturale contrapporsi ai loro avversari politici, ora sono disorientate nel vedere le loro tavole di valori disertate dai propri referenti politici; e il passo successivo è di riconoscersi senza rappresentanza e senza partito.
Perciò la fine del Partito Democratico è una tragedia democratica, perciò o si riesce a impedire che questo vuoto si apra, o si deve altrimenti riempire il vuoto.