E la Chiesa cattolica in Italia? di M.Vigli

Marcello Vigli
www.italialaica.it

Nelle ultime settimane la legge sul “divorzio breve” è stata approvata dalla Camera, la Consulta ha cancellato di fatto la legge 40 sulla procreazione assistita, è stato presentato un progetto di legge che prevede la liceità dell’eutanasia a certe condizioni, all’assemblea nazionale del Pd del 14 giugno Renzi ha annunciato una proposta di legge in favore del riconoscimento delle unioni civili fra omosessuali. Per di più il progetto di legge sul “divorzio breve” è passato quasi all’unanimità, mentre solo qualche anno fa una legge quasi identica fu affossata!

Li penso segni di una riduzione dei condizionamenti che da sempre in Italia la presenza della Chiesa cattolica impone alla vita sociale e alle leggi in materia di diritti civili.

Può diventare un esercizio retorico stabilire una graduatoria fra le condizioni che hanno reso possibile tale riduzione, ma è innegabile che sono stati compiuti notevoli passi avanti.

E’ indubbio che ha influito l’irruzione di Renzi nella sfera di governo, ma non si può ignorare che è coincisa con l’indebolimento della dirigenza della Cei, con l’arrivo in Parlamento di una nuova generazione di politici, con la emarginazione degli integralisti cattolici della destra berlusconiana, ed è indiscutibile che la svolta di papa Francesco ha dato un notevole contribuito alla creazione del contesto che ha reso possibile tale riduzione.

Determinanti sono stati certo gli effetti mediatici del radicale mutamento da lui imposto allo stile di vita del papa, ma ancor più il riordino delle finanze vaticane, la nomina della Commissione per la riforma della Curia, la sistematica denuncia dell’attuale “disordine” economico mondiale che crea ingiustizie e sofferenze, la condanna senza appello dei corrotti economici, politici ecclesiastici, ed anche il nuovo presenzialismo a livello mondiale ispirato alla concezione della politica, secondo le parole di Paolo VI, come la più alta espressione della carità.

Decisivi però sono stati sia il mutato atteggiamento verso la ossessiva rivendicazione dei “valori non rinunciabili”, sia il rovesciamento nei rapporti con la classe politica.

Dal rifiuto di avere al suo fianco esponenti politici durante la visita a Lampedusa, divenuta emblematica perché è stata la prima uscita pubblica, ha continuato a incontrare i rappresentanti istituzionali prevalentemente nelle occorrenze protocollari. Quando sono andati a trovarlo in chiesa li ha duramente redarguiti, come abbiamo già rilevato più volte su Italialaica, all’interno della dura campagna che sta conducendo contro la corruzione senza confondersi con la retorica dell’antipolitica, oggi molto di moda in Italia.

In questa prospettiva si può leggere il salto di qualità nella condanna contro la mafia da lui compiuto con la trasformazione del comando perentorio, cambiate vita … per non finire all’inferno – lanciato agli uomini e alle donne mafiosi in occasione dell’incontro, procurato da don Ciotti, nella parrocchia romana di Gregorio VII con i parenti delle vittime di mafia – nella condanna senza appello, proclamata sulla piana di Sibari in occasione della sua visita in Calabria davanti a 250.000 fedeli raccolti per la messa: La Chiesa deve dire di no alla ‘ndrangheta. I mafiosi sono scomunicati.

Non c’è dubbio che, fuori della Chiesa, il passaggio ha scarso valore e che i mafiosi non si priveranno dei simboli religiosi ai quali spesso si mostrano affezionati, ma il papa parlava non tanto a loro quanto ai cattolici italiani per tracciare un solco fra la comunità ecclesiale e la mafia. Da un lato ha implicitamente riconosciuto che ci sono state e ci sono connivenze e vischiosità nei comportamenti di gerarchie e clero verso la mafia, dall’altro ha trasformato in perentorio divieto gli inviti e le raccomandazioni fin qui rivolte.

Non sono bastate le solenni condanne di diversi papi, le beatificazioni di preti impegnati contro le mafie, i contenziosi per escludere i mafiosi dalle processioni in occasione di feste patronali, papa Francesco per vincere ogni resistenza ha compiuto un atto definitivo: l’esclusione dei mafiosi dalla comunità dei fedeli.

Questa resistenza alle sue sollecitazioni papa Francesco la deve registrare anche nella Conferenza episcopale, l’organo di governo della Chiesa italiana, ostile al rinnovamento della sua struttura e della pastorale, da lui in diverse occasioni vivamente raccomandato.

Nel maggio scorso, per rompere tale inerzia, ha tenuto lui stesso la relazione introduttiva nella sessione annuale dell’Assemblea della Conferenza episcopale: è stata la prima volta dalla sua costituzione. Non ha detto parole di circostanza, ma ha presentato un programma articolato in tre punti: il ruolo dei vescovi, l’organizzazione della Cei e gli impegni principali per l’immediato futuro.

I vescovi devono essere impegnati più nella pastorale che nell’organizzazione: Semplici nello stile di vita, distaccati, poveri e misericordiosi per poter essere vicini alla gente, evitando gli «interessi mondani» e, il rodersi della gelosia, l’accecamento indotto dall’invidia, l’ambizione che genera correnti, consorterie e settarismi.

Non erano parole nuove, ma questa volta avevano un particolare significato perché dirette ad ottenere l’assunzione da parte dei vescovi della responsabilità di eleggere il proprio Presidente, modificando lo Statuto per eliminare l’anomalia che fa della Cei la sola Conferenza episcopale al mondo il cui Presidente è scelto e nominato dal papa!

L’Assemblea non ha accolto tale richiesta limitandosi a stabilire che in una sessione straordinaria, convocata per il prossimo settembre, approverà una modifica che lascia al papa la nomina del Presidente pur se da scegliere all’interno di una terna di nomi costituita dai vescovi più votati dai loro confratelli in una specifica consultazione elettorale.

Questa condizione di sorvegliata speciale rende molto più difficile per la Cei continuare da essere un soggetto autorevole nelle dinamiche politiche che può offrire un riferimento per i cattolici vecchio stampo abituati a trarre autorevolezza da una Chiesa potente fra i poteri forti.

Più in generale, sempre meno i “cattolici” si configurano come categoria politica tanto che c’è chi afferma la fine della “questione cattolica” una delle varianti più significative della politica italiana.

Se questa è certo una buona notizia, forse lo è meno la constatazione che di questo stallo della gerarchia non sappiano profittare quei cattolici che nei loro frequenti convegni professano la volontà di ispirarsi allo spirito innovatore del Concilio Vaticano II e si riconoscono nella iniziativa riformatrice di papa Francesco, ma non lo imitano facendo seguire alle parole i fatti.

Non si tratta di introdurre pratiche democratiche nella vita della Chiesa, ma di rivendicare il diritto/dovere di avviare collettivamente ed esplicitamente prassi più autenticamente evangeliche e ispirate alla povertà, quali, ad esempio, il rifiuto di accettare il finanziamento pubblico attraverso la devoluzione alla Cei dell’otto per mille del bilancio statale. Una campagna per promuoverne la destinazione allo Stato, restituendogli il compito di gestire il denaro di tutti i cittadini, sarebbe molto più efficace di tante parole sulla povertà della Chiesa specie in questi tempi in cui le curie locali, pur senza essere indagate, sono in vario modo chiamate in causa per gli scandali dell’Expo a Milano, del Mose a Venezia e della ricostruzione delle chiese a l’Aquila!