Francesco, o la diplomazia degli impossibili

Sandro Magister
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Francesco ha rimesso alla testa della segreteria di Stato un diplomatico di razza, il cardinale Pietro Parolin. Ma con lui papa, la geopolitica vaticana ha cambiato volto.

La guerra dei mondi combattuta e vinta da un gigante come Giovanni Paolo II è oggi un ricordo lontano. In un’epoca di conflitti personalizzati, di despoti, di fazioni armate, di Stati frantumati e falliti, anche la diplomazia si personalizza, si fa “artigianale”, come ama dire lo stesso papa Francesco. La sua Argentina non è la Polonia, dove contro la dittatura si ergeva una Chiesa di popolo, compatta e fedele. Sotto il tallone dei militari la Chiesa argentina era confusa e divisa. Il giovane gesuita Jorge Mario Bergoglio agiva di testa sua, in solitudine segreta e sovrana.

Oggi fa tutto in pubblico. Ma sempre con gesti personalissimi, che ai diplomatici d’antica scuola appaiono alieni. Come l’invitare sotto la cupola di San Pietro, a pregare, i presidenti di Israele e Palestina.

“Qui in Vaticano il 99 per cento diceva che non ci saremmo riusciti”, ha rivelato poi con candore lo stesso papa Francesco. Ma a imporsi è stato alla fine proprio quell’uno per cento testardo impersonato da lui.

Anche nella complicata preparazione del summit il papa ha fatto da sé. Ai diplomatici di carriera ha lasciato le briciole. Ha preferito l’aiuto di un frate francescano, il custode di Terra Santa Pierbattista Pizzaballa, e di un giornalista israeliano corrispondente de “La Vanguardia ” di Barcellona, Henrique Cymerman.

Dove la diplomazia fallisce, papa Francesco entra in campo a modo suo.

Col silenzio, come nella sosta fuori programma davanti al muro di separazione di Betlemme.

Con la preghiera e il digiuno, come per la Siria lo scorso 7 settembre, quando recitò il rosario in piazza San Pietro in ginocchio davanti a un’icona della Madonna.

Con il dir messa su un altare fatto di legni di barche naufragate, come l’8 luglio sull’isola di Lampedusa, crocevia di rifugiati e migranti.

Francesco va a mani nude sui confini più dolenti del mondo, con le sole armi soprannaturali. Quello che gli uomini non possono, lo lascia fare a Dio. La Siria è oggi più devastata di prima. Il Mediterraneo è sempre più solcato da barche di fuggiaschi. Pochi giorni dopo le preghiere elevate da Shimon Peres e Abu Mazen una fazione palestinese ha rapito tre studenti israeliani. Ma la diplomazia di Francesco vive anche di queste sconfitte. È la diplomazia degli impossibili.

In campo cattolico questo stile ha dei precedenti. Nel 1969, due anni dopo la guerra dei sei giorni, il sindaco santo di Firenze, Giorgio La Pira, riunì a Hebron dirigenti arabi e israeliani a pregare per la pace sulla tomba di Abramo.

Anche Gandhi e Martin Luther King furono geniali utopisti, che però al sogno sapevano associare le arti della politica.

Papa Francesco ha la stessa ambizione. Non è un ingenuo. Dosa le parole e i silenzi con consumata accortezza, da vero gesuita.

Ha detto e ripetuto più volte che i cristiani martirizzati in odio alla fede sono oggi più numerosi che nei primi secoli cristiani. Ma si guarda bene dello sfidare apertamente qualcuno degli odierni persecutori, citando nomi e fatti. “So molte cose sulla persecuzione che non mi sembra prudente raccontare per non offendere nessuno”, ha detto nell’intervista di pochi giorni fa a “La Vanguardia”.

A metà maggio, lo stesso giorno nel quale divenne di dominio pubblico la condanna a morte nel Sudan musulmano della giovane sposa e madre Meriam Yahya Ibrahim per la sola colpa di essere cristiana, Bergoglio ricevette in Vaticano il nuovo ambasciatore sudanese. Non una parola gli sfuggì sulla questione. Né gli è sfuggita dopo. Silenzio assoluto, a dispetto della crescente campagna mondiale per la liberazione della donna.

“La Santa Sede cerca la maniera più efficace per intervenire, che non sempre è quella di gridare”, ha giustificato il cardinale Parolin, segretario di Stato.

Non sorprende che papa Francesco sia convinto difensore dei silenzi di Pio XII, “perché non uccidessero più ebrei”.