Un dialogo ateo-credente

Il testo seguente, tolti i nomi, è un breve scambio realmente avvenuto tra due corispondenti, tra giugno e luglio 2014, all’interno di un più ampio lavoro comune.
Enrico Peyretti

– A – ( … ) Forse una nostra parziale differenza è che, con Mazzini, con Gandhi, con Simone Weil, e con una ben più antica e alta tradizione universale (la “regola d’oro”, presente in tutte le etiche umane: ne ho raccolte quasi 30 formulazioni), vorrei vedere i diritti mai separati dai doveri. Certo, siamo nella “età dei diritti”, con la Rivoluzione Francese, e i doveri non sono quelli verso il sovrano e neppure verso Dio, ma sono i doveri reciproci tra esseri umani, senza i quali i diritti diventano rivendicazioni individualistiche, scissioniste, antisolidali, assoluti (“i miei sacrosanti diritti”: è vero e falso). Ed è ciò che in buona parte accade nella concezione oggi prevalente, fino al catastrofico dogma thatcheriano: “Ci sono gli individui, non c’è la società”. Non si tratta di sottomettere la persona ad un peso trascendente, ma proprio di diventare gli uni per gli altri garanzia e difesa e servizio alla realizzazione dei diritti-dignità di ciascuno, anzitutto dei più sfavoriti dalla sorte, i cui diritti sono, di fatto, nelle mani della altrui coscienza del dovere, prima che nelle istituzioni e nelle leggi (che non funzionano senza quella coscienza, come si vede a iosa).
Credo che possiamo dialogare su questo punto. In amicizia. A.

– B – Il fatto che io sia un laico della varietà atea e, come tale, lontano dalle Sue posizioni cristiane, non diminuisce il mio desiderio di esprimere apprezzamento per quanto scrive su diritti/doveri. Non posso che concordare sulla ricaduta immediata del Suo discorso: se ognuno si impegnasse nei propri doveri, il rispetto dei diritti altrui ne discenderebbe spesso automaticamente. Concordo che limitarsi a salvaguardare diritti è solo una posizione riposante. Cordialmente, B.

– A – Grazie del consenso.
Io credo poco (con Bobbio e col card. Martini) alla differenza atei-credenti. Penso che chi cerca valori di umanità – il vero, il giusto, il bello – cerca anche più di ciò che possiamo sapere. Il resto è teoria, interpretazione. Se un dio (nome comune personalizzato) vive, lo troveremo, ci verrà incontro, altrimenti vivremo una umanità più umana. Mi permetto, per spiegarmi, di allegare un vecchio appunto da Raimon Panikkar, e mi scuso se pare un po’ lungo.
Cordialmente, A.

Allegato – «La fede non ha oggetto, mentre lo ha il pensiero. In tutte le religioni la massima apostasia è l’idolatria. Perché, appunto, Dio non è un oggetto, e la fede non ha oggetto. La fede è un costitutivo dell’uomo. Ogni uomo ha la fede, come ha la ragione, il corpo, la sensibilità, per il solo fatto di essere uomo. La religiosità non può essere un monopolio, non può esservi nessuna apartheid, come se la fede avesse un suo oggetto così come lo ha una singola scienza speciale. Sarebbe una cristallizzazione concettuale. Nessuna religione ha il monopolio della religione. Invece, la fede è la costitutiva apertura dell’uomo verso la trascendenza (un Essere personale; una Realtà che ci comprende). È la consapevolezza di essere in/finito, non/già/finito, e dunque di poter crescere. Ogni uomo è aperto a questo “più”. È un’apertura esistenziale, di cui ogni uomo è capace. L’atto di fede, che salva, è l’atto con cui l’uomo si riconosce non/finito, non perfetto. Ogni uomo, poi, cerca di far cristallizzare questa visione in proposizioni, in formulazioni. Queste sono le credenze, diverse dalla fede, anche se la fede che non si esprime in credenze può restare vaga, inefficace» (miei appunti da una conferenza di Raimon Panikkar a St. Jacques d’Ayas, in Val d’Aosta, nell’ottobre 1992, ma questo suo pensiero è presente in tanti suoi scritti).

– B – Caro amico, grazie del messaggio e dell’allegato, ambedue ricchi di pensiero e di umanità. Atei contro credenti? Per me il credente è chi crede in una verità rivelata e in un Dio che ode la sua preghiera. A differenza dell’ateo. Se poi il “credente” non crede in una verità rivelata, né in un Dio che ode, allora per me è un ateo criptato. E a questo punto sono d’accordo con Lei, Bobbio e il Card. Martini: anche io “credo poco alla differenza”. Ma il Dio-che-non-ode è il Dio di Voltaire. E’ importante?
Grazie ancora per la Sua attenzione, e cordiali saluti. B

– A – Sì, anch’io la ringrazio, in amicizia (il discorso sarebbe lungo, aperto). Penso che “credere” sia un “fidare”, aver fiducia (con tutte le difficoltà e imperfezioni) che un Vivente comunica e ci ascolta (senza miracolismi). Non la teoria dell’Atto puro e distaccato di Aristotele, ma una esperienza e persuasione interiore, una relazione. Per lo più, questa consapevolezza viene in noi dal vederla vissuta in qualcuno: per i cristiani sommamente in Gesù di Nazareth. Nello stesso tempo, credo che chi non fa di se stesso l’assoluto (svincolato; imperativo) crede in valori ulteriori (storici, morali, umani) tra i quali può stare quel Vivente, la cui realtà il credente sente, in relazione alla quale si “affida” (come i “fidanzati”) non passivamente, e che balbettando cerca di esprimere, sempre in modo inadeguato. Bobbio e Martini eguagliavano chi si pone le grandi domande, quale che sia la risposta. Più che il pensare così o cosà l’esistenza (dell’umanità, del mondo) credo che conti il curarla, guarirla, compierla, in sostanza amarla, nonostante tutto. Che Dio ci sia o no, non è questo il bene da fare? A.

– B – Credo anch’io che “porsi le grandi domande” sia ciò che dà a un uomo di distinguersi da quelli che Eraclito chiamava “i dormienti”. Quanto alle risposte, chi ha gambe cammini. Le mie (gambe) non mi portano molto lontano. Sfortunatamente (o no? ecco una buona domanda. Scire nefas….). Con simpatia. B.