Il terrorismo di ritorno

Michele Paris
www.altrenotizie.org

Gli scenari emersi subito dopo l’orrenda strage di mercoledì nella redazione del settimanale satirico francese Charlie Hebdo appaiono prevedibilmente simili a quelli registrati virtualmente ovunque nell’ultimo decennio dopo ogni singolo episodio classificato come atto di “terrorismo”. Non solo la rivelazione dell’identità e il modus operandi dei reponsabili dell’attacco hanno come sempre aggiunto più dubbi che certezze alla vicenda, ma anche le reazioni dei governi e dei media ufficiali hanno innescato nuovamente il consueto squallido tentativo di occultare le cause reali di simili episodi di violenza e le questioni cruciali che dovrebbero essere sollevate.

Quasi automaticamente, per cominciare, l’individuazione degli autori dell’attentato che ha provocato dodici vittime a Parigi si è accompagnata alla diffusione della notizia che i giovani e, in particolare, uno di essi, erano ben noti alle forze di sicurezza francesi.

Ciò era accaduto, solo per citare gli episodi più recenti, nel mese di ottobre anche a Ottawa, in Canada, e lo scorso dicembre a Sydney, in Australia. A differenza di questi ultimi due casi, tuttavia, il massacro parigino alimenta maggiori interrogativi, visto che la dinamica dei fatti ha messo in luce come i responsabili avessero pianificato in maniera dettagliata e professionale l’assalto, condotto con armi automatiche non sono esattamente facili da reperire.

Uno dei tre uomini, il 34enne di origine algerina, Chérif Kouachi, era poi passato attraverso il sistema giudiziario transalpino a partire almeno dal 2005, per avere dapprima tentato di unirsi alle forze anti-americane in Iraq e successivamente a causa dei suoi legami con un’organizzazione islamista che cercava di inviare fedeli musulmani a combattere nello stesso paese mediorientale occupato.

Chiedersi come individui conosciuti dai servizi di sicurezza di un paese come la Francia, teoricamente in primissima linea contro la minaccia “terroristica”, possano essere sfuggiti al controllo e mettere in atto un attentato così clamoroso e ben studiato appare oggi quasi un esercizio scontato, anche se scontate e fin troppo banali appaiono in realtà le spiegazioni solitamente offerte dalle autorità e che hanno quasi sempre a che fare con presunti “errori” o “falle” dei servizi di intelligence.

La storia proposta dai giornali dei sospettati delle morti nell’edificio che ospita il settimanale Charlie Hebdo consente in ogni caso di fare una riflessione sul processo di radicalizzazione attraverso il quale continuano a passare molti giovani musulmani.

L’attentato potrebbe essere stato commesso da individui disorientati dalle vicende politiche e belliche che hanno riguardato i paesi islamici in questi ultimi decenni, così come dall’alienazione vissuta dai musulmani in Europa, negli Stati Uniti, in Canada o in Australia in parallelo con l’adozione di misure discriminatorie nei loro confronti e con il ricorso da parte delle classi dirigenti a iniziative di natura xenofoba se non apertamente razzista.

Allo stesso tempo, la scrupolosa pianificazione dell’attentato nell’11esimo arrondissement di Parigi sembra non poter escludere nemmeno l’ipotesi che gli uomini armati siano stati appoggiati in qualche modo da entità organizzate che perseguono una precisa agenda destabilizzatoria.

Qualunque sia la verità, le operazioni portate a compimento dall’estremismo islamista come quella di mercoledì – se la matrice dell’attentato sarà effettivamente confermata – non possono essere comprese senza un’analisi delle conseguenze delle decisioni di politica estera prese dai governi occidentali.

Parigi, così come Washington e Londra, da tempo sono protagoniste di un gioco molto pericoloso in Medio Oriente e in Africa del nord, dove i rapporti ambigui, per non dire di aperta collaborazione, con organizzazioni jihadiste vengono sfruttati deliberatamente per avanzare i propri interessi.

Questa sorta di partnership si concretizza spesso nella fornitura diretta di armi a cellule integraliste che, in Libia come in Siria, hanno svolto o continuano a svolgere il ruolo di alleati nella lotta per il rovesciamento di regimi ostili.

Ancora più stretti sono addirittura i rapporti tra paesi come la Turchia o le monarchie assolute del Golfo Persico alleate dell’Occidente e questi gruppi fondamentalisti, utilizzati per il lavoro sporco contro i rivali regionali (Iran, Siria), salvo poi pagarne le conseguenze quando sfuggono al loro controllo.

Quali che siano i legami, i mandanti o le simpatie degli attentatori di Parigi, è indubbio che l’attentato contro Charlie Hebdo vada inserito in questo panorama inquietante, al cui delineamento lo stesso governo francese ha contribuito in maniera decisiva.

I governi sia di Sarkozy che di Hollande hanno d’altra parte promosso la fornitura di armi, denaro e addestramento ai “ribelli” prima libici poi siriani, inclusi quelli di tendenze ultra-fondamentaliste, alimentando di fatto una minaccia jihadista che ha finito per bussare alla porta dei loro stessi benefattori occidentali.

Piuttosto che cercare di fare chiarezza su questi aspetti, tuttavia, giornali e televisioni operano da casse di risonanza per governi che sfruttano ogni occasione per implementare, da un lato, misure sempre più anti-democratiche con la scusa di combattere la minaccia del terrorismo e per alimentare, dall’altro, tendenze di estrema destra già ampiamente riscontrabili in tutta Europa.

In questa prospettiva la strage di Parigi non è solo un atto feroce e spietato ma anche profondamente reazionario, in quanto consente ai leader dei paesi colpiti di promuovere politiche da stato di polizia sul suolo domestico e di aumentare l’impegno militare all’estero, vale a dire iniziative oggettivamente impopolari e, diversamente, difficili da adottare in una società democratica.

Per fare ciò è necessario proclamare, come viene fatto appunto in queste ore, una sorta di scontro culturale in atto tra un estremismo cieco e, come ha ad esempio spiegato pateticamente giovedì il New York Times, “la devozione dell’Occidente per la libertà di espressione”.

In realtà, la rivendicazione del ruolo di difensori dei valori democratici di fronte alla barbarie fondamentalista da parte di individui come il presidente francese Hollande appare rivoltante, poiché le vicende di questi anni indicano piuttosto uno scenario nel quale sono i popoli musulmani a essere le vittime della violenza prodotta dalla nuova fase di un imperialismo occidentale senza scrupoli.

La ferma condanna dell’attentato di Parigi e la più che giustificata espressione popolare di solidarietà con le vittime non devono però essere confuse con la difesa della libertà di espressione, ostentata dai politici, nel caso di Charlie Hebdo.

L’appello alla difesa dei valori democratici dell’Occidente da parte di media e politici di fronte alla brutalità del fondamentalismo islamista andrebbe dunque messo a confronto con una strategia consolidata in oltre dieci anni di “guerra al terrore”, per poi verificare se e quanto s’intersecano con le reali responsabilità e implicazioni per il clima tossico nel quale si verificano episodi cruenti come quello che ha sconvolto la capitale francese in questo scorcio di nuovo anno.

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Dietro la copertina insanguinata di Charlie

Alberto Capece Minutolo
ilsimplicissimus2.wordpress.com

Non voglio pensare al peggio, quindi tralascerò le testimonianze secondo le quali 21 minuti dopo la strage di Parigi, gruppi di persone politicamente organizzate, distribuivano nella capitale francese, matite, cartelloni con la scritta “Je suis Charlie” e prime pagine plastificate di Charlie Hebdo. Se dovessimo andare fino in fondo a questi reportage la verità sarebbe ancora più orribile di quella che è, facendo il paio con le scatolette con l’etichetta “euromaidan” spuntate fuori a Kiev poche ore dopo la rivolta “spontanea”. O con tutti quegli eventi tragici nei quali un minuto prima i terroristi agiscono con assoluta libertà e avvolti dal mistero, ma un minuto dopo la strage vengono identificati con certezza. O in qualche caso lasciano pure i documenti d’identità in auto.

In ogni caso è del tutto evidente che l’assalto alla rivista satirica è stato preso come l’occasione che ci voleva per ripristinare la guerra di civiltà proprio nel momento in cui i prodotti mefitici della “civilisation” liberista cominciano ad essere contestati, a trovare sponde politiche e anche temuti successi elettorali. La stupidità messa in campo da tutti i media e da politici di livello emetico, è davvero uno spettacolo deprimente e avvilente: tutti si sono prestamente impadroniti dell’occasionale gergo anglosassone e parlano di foreign fitghers fingendo di sapere ciò di cui parlano e si riempiono la bocca di libertà d’espressione proprio mentre si preparano a reprimerla con leggi di regime.

Nessuno sembra domandarsi se ciò che è accaduto nella capitale francese trovi nello sfottò a Maometto solo il suo pretesto, ma non derivi dal fatto che ormai da 30 anni e passa l’Occidente abbia creato e armato gruppi integralisti a ripetizione per i suoi interessi, abbia appoggiato ogni anacronistica petro monarchia, fatto una guerra spietata ai pochi regimi laici e abbia persino reintrodotto la tortura. Se conti niente il fatto che l’80% dei conflitti in corso coinvolga il mondo islamico. Se l’innocente Francia dei vignettisti sia presente in Afganistan e in Irak al seguito degli Usa, abbia un forte zampino nella guerra in Siria contro Assad, abbia 2800 uomini in Mali, 1000 in Ciad, 1600 in Centroafrica, 950 in Gabon, altri 650 tra Costa d’Avorio e golfo di Aden, senza contare le guarnigioni fisse sparse da Gibuti al Senegal.

Ma di tutto questo, dell’immensa strage, è vietato parlare, a nessuno viene in mente l’idea che l’Isis non sia solo un fenomeno di potere terrorista, ma un tentativo di organizzazione autonoma del mondo arabo che non si fermerà certo al califfato di Al Baghdadi e che l’Occidente di marca americana cerca di contenere in fasce, preferendo, com’è ovvio, stati deboli, emiri del petrolio con i loro poteri medioevali, regimi fantoccio. Tutto questo, compresa la strage di Parigi, fa parte della geopolitica che rende comprensibili anche se non sopportabili, le lacrime di coccodrillo dalle quali siamo avvolti come in una doccia. Ma c’è molto di più in questa sequenza ipnotica e drammatica di 11 settembri: c’è lo sfruttamento del nemico a fini interni. Anzi la cinica creazione di un nemico, quale che sia, per evitare e deviare la reazione di popolazioni impoverite e date in pasto a un’oligarchia di ricchi. Meglio se si tratta di un nemico che sembri minacciare l’identità europea e occidentale, perché non solo questo sortirà effetti migliori, ma nasconderà il fatto che proprio il pensiero unico sta tagliando le radici dei valori faticosamente affermatisi in due secoli di lotte. Questi caratteri, progetti, idee, speranze sono stati svenduti al mercato, all’omologazione, resi un ricordo e un feticcio e dunque si ha bisogno di un nemico esterno che impedisca di riconoscere l’assenza pneumatica di una cultura che non sia l’ipocrisia stessa.

Quale civiltà vogliamo difendere coi referendum anti moschea, con gli strepiti contro Schengen, con i droni da far volare in medio oriente o con servi del padrone che scoprono la libertà di espressione? Può anche darsi che nonostante la melassa mediatica e complice l’impoverimento reale qualcuno si cominci a fare questa domanda e scopra che ci sono più cose in terra e in cielo dell’ultimo telefonino fabbricato da schiavi e comprato da aspiranti schiavi a prezzi spesso cento volte superiori al costo effettivo, ovvero la parte del ricco. Così, inventando e creando la guerra di civiltà, si può dare l’idea che una civiltà esista ancora. Che gli altri sono quelli che attentano a una libertà che stiamo perdendo.