I mandanti siamo noi di F.Scalia

Felice Scalia
Adista n. 17 del 09/05/2015

Quando queste righe saranno sotto gli occhi dei lettori, il cumulo delle parole sulla tragedia nel Canale di Sicilia del 19 aprile – quando oltre 800 migranti sono morti nell’ennesimo naufragio e affondamento di un barcone partito dall’Africa –avrà ottenuto una tale saturazione mediatica da renderci ancora più anestetizzati di fronte al dolore dei prossimi condannati all’annegamento. E tuttavia rimane il problema: era evitabile la tragedia? Siamo proprio decisi ad evitare quelle che già si annunziano?

«Bisogna fare di più», dice il nostro presidente della Repubblica. Segno che una colpa dell’Europa c’è; sta in quel “meno” di cui ci siamo contentati. Da oltre Oceano risponde Obama: niente cilici, cari europei, tutto è lotta tribale e guerra di religione. Noi non c’entriamo.

Tra questi due estremi si collocano i nostri politici, le cui fantasiose “soluzioni” sembrano riguardare solo il modo come tenere lontane queste persone importune dai nostri confini. La sola parola “soluzione” ci fa paura. Affiorano reminiscenze naziste. «Quando chi sta in alto parla di pace, la gente comune – scrive Bertolt Brecht – sa che ci sarà la guerra». E quando viene fuori la parola “soluzione” dai discorsi ufficiali, noi sappiamo che c’è la decisione di non risolvere niente. Si fa però di tutto per nascondere all’opinione pubblica una provata constatazione: a causare questi esodi, a provocare queste morti, fondamentalmente, è l’Occidente. Pur coscienti della complessità raggiunta oggi dalla immane sventura dei poveri, resa evidente da questo biblico flusso di popoli disperati, possiamo dire che dalla Libia salpano gli scafisti killer, ma i veri mandanti dei massacri in mare siamo noi.

È tempo di gridarla anche “nel deserto” questa verità, così come cerca di fare l’inascoltato papa Francesco. Il nemico del “profugo” africano o medio-orientale, è l’assetto economico e politico che l’Occidente si è dato. A rendere un inferno inabitabile la terra di intere popolazioni, siamo noi. Come siamo noi che spingiamo i disperati a scegliere tra morte sicura se restano in patria, e morte probabile partendo. Ad imporci come padroni del mondo siamo noi, bianchi, occidentali, cristiani. A suscitare guerre per gli interessi delle multinazionali minerarie, energetiche, agroalimentari, ecc., siamo noi. Ad assicurarci il monopolio dell’acqua, siamo noi. A fare delle decine di guerre dimenticate nel Pianeta il più grande affare economico, quindi a lucrare sulle “belle distruzioni” e sulla morte, siamo noi.

Fa male scrivere queste cose. Ma non si può per sempre sopportare questo fermarsi dei Potenti ai fatti giudicandoli “danni” dolorosi ma inevitabili, senza accorgersi che le tragedie sono la password per comprendere chi siamo e verso dove sta andando questa presunta civiltà nostrana. La verità orribile è che questi annegati, questi flussi migratori inarrestabili ci fanno capire che è tempo della resa dei conti, della nostra Apocalisse, dello “svelamento” di ciò che siamo. Siamo membri di una società sacrificale. Siamo, in vari modi, assassini.

Assassini impauriti, terrorizzati, ma assassini, perché decisi ad “infernalizzare” la Terra. Non si vede all’orizzonte un barlume di progetto di cambiare politiche. Non vogliamo renderci conto di avere sbagliato pretendendo che a decidere sul giusto e l’ingiusto, il disumano e l’umano, fosse il mercato con le sue leggi.

Abbiamo paura di perdere ciò che siamo abituati ad accumulare. Intuiamo che così non si può andare avanti, ma non riusciamo a vederci meno consumisti, meno pronti ad ostentare la nostra superiorità attraverso l’inutile, l’eccessivo che possediamo. Comprendiamo le paure dell’uomo della strada, gli sconforti, la ricerca di sicurezze. Ci rendiamo conto che non abbiamo politici in grado di affrontare l’immane fatica di pensare un mondo “altro”. Ma saremmo fuori dalla civiltà e dalla stessa fede, se stabilissimo che è “naturale” far pagare agli “ultimi” la nostra voglia di vivere e la smodata presunzione di essere “superiori” ai comuni mortali.

L’Occidente è ad un bivio. O smette di dirsi umano e cristiano, dato che si ritiene ineluttabile e “di natura” la supremazia dei forti sui deboli; oppure “condivide” ciò che è ed ha: cultura, tradizione umanistica, diritti umani, fino a questa terra che è di Dio, e dunque di tutti, questo pane che la terra ancora ci dona.

Nessuno pensa che sia cosa da poco, ovvia e di immediata attuazione. Ma non è follia, è l’unica saggezza possibile: scegliere una direzione di speranza oggi, scegliere subito è fondamentale non solo per una esistenza libera dalla paura, ma per il permanere della vita sul Pianeta.

Per quanto mi riguarda io la mia scelta l’ho fatta. Sto con quel pescatore che, ammonito dalla Guardia costiera di non raccogliere naufraghi per non essere accusato di favoreggiamento di immigrazione clandestina, osò rispondere: «Nella mia vita non ho mai lasciato nessun uomo in mare!». Gente come lui è il solo “sale della terra”, la speranza che l’essere umano possa ancora prevalere sulla violenza, il cinismo e l’ottusità delle bestie sazie.

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Salpiamo per il Mediterraneo

Luciano Coluccia *
Adista n. 17 del 09/05/2015

Cari amici, chi vi scrive è un singolo, convinto – o meglio persuaso – che anche un singolo può fare la differenza. Un singolo che, di fronte alla tragedia continua che avviene lungo il nostro “confine europeo” che è il mar Mediterraneo, sente non solo il peso dell’impotenza, ma vive il disagio di una assenza: quello del volontariato, della cooperazione e del movimento per la pace. Quel popolo che ha riempito le piazze ad ogni minaccia di guerra, ad ogni levar di bombardieri dalle basi nel nostro Paese; che marcia per 20 km tra Perugia e Assisi; che lascia scolorire le poche bandiere sui balconi, testimoni di mobilitazioni passate e che oggi mi appare stordito dalle guerre che si combattono, così diverse da quelle cui ci si opponeva. Non più Stati occidentali che aggrediscono altri Paesi, ma nuovi eserciti che combattono, tra orrori e sofferenze, per nazioni che dovranno venire: totalitarie, violente, assurde.

Guerre che non si possono fermare con delle manifestazioni. Eppure in passato quel popolo di cui ho fatto parte è stato testimone nel concreto, portando la pace concretamente con aiuti e sostegno, durante la guerra nella ex-Jugoslavia, a rischio della propria vita, provando a fare interposizione e difesa nonviolenta.

E oggi? Oggi che migliaia muoiono da fuggitivi, che scappano da guerre per finire in mano ad altri o forse agli stessi aguzzini, noi dove siamo? Che cosa facciamo di concreto?

Non sono che uno, uno che non conta niente, che agisce nel piccolo e con le forze limitate di cui è capace. Uno come altri. Uno che prova rabbia verso l’indifferenza degli Stati europei. Ma mi rivolgo a voi che siete capaci, che siete organizzati benché deboli, a voi che fate, che siete stati e siete ancora presenza attiva, organizzata, competente. Non è forse arrivata l’ora di rendere concreto il nostro bisogno di pace? Non è forse arrivato il momento di dare voce alla nostra indignazione? Non è forse arrivato il momento di aggiungere il nostro contributo? Non è arrivato il momento di organizzare una flottiglia europea di liberi e solidali, capaci di affrontare il mare per salvare, lenire, limitare queste tragedie? Non è arrivato il momento di dare una mano concreta ai fuggiaschi (non sono migranti, fuggono da numerose guerre alle quali ci opponiamo)? Non è arrivato il momento di marciare, organizzare sit-in di fronte alle ambasciate degli altri governi europei che sono indifferenti al nostro sforzo? Non sentite la solitudine in cui ci hanno lasciato tutti i governi?

Abbiamo rivendicato per anni una “Europa dei Popoli”, forse è arrivato il momento per tutti i pacifisti e nonviolenti, i volontari, le persone di buona volontà che vivono in tutta Europa di organizzarci. Perché anche stavolta l’Europa “muore o rinasce”, non a Sarajevo, ma nel mar Mediterraneo.

E se non saranno i governi, per opportunità e cinico realismo, dovremmo essere noi cittadini europei a volerlo. «D’altra parte forse non si può chiedere ai governi quanto dai cittadini e dalla società civile non è ancora sufficientemente sentito e condiviso», scriveva Alexander Langer a proposito di «fratellanza euromediterranea». Non è il compito di noi pacifisti, nonviolenti, solidali rendere possibile la pace? Non è compito nostro agire nel concreto per lenire, curare, salvare? Non dovremmo essere noi i “costruttori di pace” senza aspettare che lo diventino i governi? Chi fugge dall’orrore e dalla disperazione non è interessato alle nostre polemiche di lotta politica, cerca di scappare per salvarsi e di essere difeso per questo. Vuole essere salvato.

Quando ragioniamo di difesa nonviolenta non intendiamo questo? Difendere un territorio, un confine salvando le vittime? Non siamo più di fronte a guerre convenzionali dove manifestare contro un aggressore era più semplice perché più chiaro. Non dovremmo dimostrare prima di tutto a noi stessi che la pratica nonviolenta funziona soprattutto quando la violenza e la sofferenza sono così evidenti?

Scriveva Langer nel 1985: «Ecco perché riteniamo che sia tempo di affrontare anche dal basso la costruzione di una nuova fratellanza euromediterranea, e di accompagnare criticamente ed attivamente il processo che si svolge al livello delle istituzioni e dei governi. Bisognerà sviluppare una nuova sensibilità, e cogliere le molte occasioni di azione ed interazione». Forse questo tempo è arrivato, le sue urgenze ci interpellano e non ci lasciano scampo: dobbiamo fare qualcosa. Iniziamo a mobilitarci. Iniziamo a sollecitare, pungolare, pretendere. Mettiamo il meglio a disposizione, aiutiamo e protestiamo.

* capo scout Agesci, è capo reparto con i ragazzi dai 12 ai 16 anni