Finis Europae? La tragedia dei migranti e le colpe dell’Occidente di A.Orsi

Angelo d’Orsi
www.micromega.net

Un momento di distratto zapping serale, in epoca estiva, mi porta davanti a un programma di Rete 4: un conduttore in studio, con ospiti, un “giornalista” sul campo, circondato da un gruppetto di comparse, il “pubblico”, ossia “la gente della strada”. Si parla ovviamente di migranti, profughi, rifugiati. L’intervistatore sul campo – siamo a Roma, borgata periferica – lascia parlare per almeno dieci minuti consecutivi (un tempo assurdo in tv) un tizio, un giovanottone con braccia finemente intarsiate di disegni di draghi e simili, il quale racconta delle sue difficoltà economiche ed abitative. Forse avrà lo sfratto, e aspetta che “le autorità” gli risolvano il problema. Ed ecco l’affondo: “ …io, nun so’ razzista, ma forse tra poco me danno lo sfratto, e quelli se ne arrivano belli belli e glie danno casa, gli danno er medico, glie danno tutto, tutto glie danno… E a noi italiani chi ce penza?”. La linea torna in studio, dove un imbambolato conduttore viene immediatamente travolto dagli ospiti che si strappano la parola vicendevolmente, si sovrappongono, con urla e strepiti: il rumore di fondo rimanda le stesse cose del borgataro, con una esponente PD che loda intanto l’azione governativa, in tandem con un suo sodale in collegamento.

Il pezzo da novanta non poteva mancare: “sentiamo cosa ne pensa l’onorevole Salvini”. Il summenzionato, che evidentemente trascorre in tenda le sue giornate, passando da una sede di emittente ad un’altra, per non mancare mai un programma, parte subito con la sua giaculatoria: “Questa gente certo se scappano da guerre dobbiamo accoglierla, ma tutti gli altri via, a calci nel sedere”. Non spiega perché quelli che scappano dalle guerre siano degni di accoglienza (né spiega quale tipo di accoglienza), e coloro che fuggono la fame, semplicemente, debbano essere rispediti a patire la fame, e “a calci nel sedere”. Lascio la rete e il programma, e mi trovo un tg nazionale dove spunta in altra location, non meglio identificata, chi? Il Salvini, il quale, arringa mussolinianamente la (piccola) folla: “Cosa bisogna fare con questa gente?” “Rimandiamoli a casa loro!”. Il mantra è sempre quello.

È toccato a Massimo D’Alema, in questi stessi giorni, ricordare che gli immigrati producono reddito, come del resto tutte le statistiche dimostrano, e consentono alle scuole di non chiudere, o di assicurare lavori che gli italiani rifiutano, o di garantire servizi di assistenza e di cura alle persone… E come dimenticare quanto conviene alle aziende agricole o industriali europee la manodopera a basso costo, e spesso senza i “gravami” sindacali, fornita dai migranti? E intanto, però, proprio sui migranti, specie i “clandestini” (una mostruosità giuridica, per cui la colpa non discende da un atto, ma da una condizione), si fanno buoni affari: dagli affitti in nero nelle grandi città, al lavoro nei campi, sotto la ferula dei caporali.

Ma tutto ciò viene oscurato dai media, e dalla politica. Prevale, di gran lunga, il mood negativo, sul migrante. In vari quartieri delle grandi città, in numerosi borghi d’Italia sorgono comitati di onorevoli cittadini che predicano l’accoglienza va bene, ma non qui. E spesso si tratta di migranti, o di figli e nipoti di migranti, dal sud al nord, da est a ovest. Mentre il ceto politico è preoccupato di perdere voti fra questi elettori, salvo proclamare solidarietà, mentre si rivolge all’astratto soggetto “Europa” chiedendo di “affrontare la questione”. E l’Europa, al di là delle sguaiataggini, risponde come Salvini, che, peraltro, è persino deputato (super-assenteista) al Parlamento dell’Unione. Ovvero, sì ai “richiedenti asilo” (ossia, coloro che fuggono dai conflitti, in sintesi; quanto alla natura del sì, rimane assai diversificata da Paese a Paese), no ai “migranti economici”. Ma come si possa distinguere uno dall’altro nessuno ce lo ha spiegato. E in quale Paese, oggi, tra Medio Oriente e Nordafrica, e anche Centroafrica, non v’è una guerra in corso?

In realtà, tutti, tutti coloro che cercano con ogni mezzo di raggiungere il Centro e il Nord dell’Europa, transitando, sia lungo la rotta mediterranea (ossia Italia), sia lungo quella balcanica (Grecia, Macedonia, Serbia, Ungheria…), sono null’altro che “scarti”, nel senso comune; o, per dirla con Bauman (la Repubblica, 29 agosto), “distopie che camminano”, walking dystopias. Sono visti come “messaggeri di cattive notizie” (Brecht), e vengono accusati ancor prima che compiano atti contro la legge, sono “potenziali” criminali, scippatori e stupratori, per dirla sempre con Salvini. E comunque vengono a “rubare” le nostre risorse, di qualsiasi genere. In questa narrazione, insomma, si sta trasformando lo straniero da hospes (ospite) in hostis (nemico): alla fine del Settecento Immanuel Kant teorizzava precisamente il contrario, ossia il diritto per ogni cittadino del mondo a non essere trattato da nemico in alcuna parte del pianeta: il diritto “all’universale ospitalità”. Ecco: secoli di civiltà europea gettati alle ortiche, come ribadisce, nell’articolo qui sotto, con appassionata amarezza, chi, come Eloisa d’Orsi, ha vissuto da fotoreporter queste giornate apocalittiche di agosto.

E intanto, come le autorità politiche europee si pronunciano? Come affrontano la questione migranti?

La “questione” sono migliaia, decine di migliaia di esseri umani allo sbando, un flusso ininterrotto di disperazione che fugge dal Medio Oriente, talora anche Estremo Oriente, e dall’Africa, verso l’Europa, che, ancora, per loro, rappresenta la civiltà dell’accoglienza, oltre che del benessere. E il flusso è destinato a crescere. V’è chi, come l’antropologo Michel Augier, ha conteggiato, in forma previsionale, un miliardo di esseri umani che si sposteranno nei prossimi quattro decenni. Muri e filo spinato, corrente elettrica, polizia, esercito, cani addestrati alla caccia all’uomo, norme restrittive sui passaggi di frontiera, sospensione di garanzie, annullamento di accordi…: nulla varrà a fermare questo tsunami. La Fortezza Europa è caduta, questa è la verità. Ciò che ne resta è un torrione semidiroccato, in un’isola, circondata da un mare sempre più tempestoso, le cui onde salgono, e si abbattono sull’isola, sgretolano le mura, mangiano la sabbia.

In una situazione siffatta, il “dibattito politico”, di casa nostra e dell’intera asserita “casa comune” europea si concentra sulle “quote” (quanti ne prendete voi, quanti ne prendiamo noi), o semplicemente sull’accogliere o sul suo opposto, il respingere, il lasciare transitare o il fermare. E dall’altra parte c’è la realtà: la realtà di questo gigantesco esodo, testimoniata dalla sequenza di notizie ogni giorno più agghiaccianti, di esseri umani asfissiati in camion o in navi, affogati in barconi che si rovesciano nelle acque di questo enorme lago di morte che è diventato il Mediterraneo, fermati da assurde barriere di filo spinato, aggravato da matasse di lame taglienti, braccati come criminali da uomini in divisa, rinchiusi in piccoli lager…: proprio quando la salvezza sembra raggiunta. Eloisa d’Orsi, che ha seguito le rotte della disperazione, dalla Turchia all’Ungheria, in altri suoi interventi ha raccontato la differenza tra questa ondata che definisce biblica e altri precedenti o concomitanti fenomeni chiamati impropriamente, in parte almeno, “migratori”.

Qui non sono soprattutto giovani maschi, a cercare rifugio nel Vecchio Continente. Qui sono famiglie, spesso famiglie di ceto medio, con donne, spesso incinte, anziani, e tanti, tanti bimbi. Non sono i disperati in cerca di lavoro, sono professionisti, insegnanti, talora studenti, impiegati, artigiani, che sono stati costretti al doloroso passo dell’abbandono della patria, non per “cercare un destino migliore”, come i nostri migranti – la realtà dimenticata dagli italiani, spaventati dal flusso dei profughi, ben pochi dei quali intenzionati a fermarsi da noi -, no; sono piuttosto in cerca semplicemente di sopravvivenza, dato che la sopravvivenza nei loro Paesi (in primo luogo, Iraq, Siria, Afghanistan, Palestina…),è divenuta quasi impossibile per la condizione di guerra permanente. Il punto è: quale l’origine di questa situazione? Chi ha provocato le guerre che incendiano tutto il Medio Oriente? La risposta è facile: l’Occidente, dagli Stati Uniti fino alle propaggini imperialistiche in zona, Israele e Arabia Saudita.

Lo ha notato anche Il Sole 24 ore, per la penna di Alberto Negri (il 28 agosto), in un articolo peraltro non del tutto condivisibile, che siamo noi occidentali ad aver alimentato le guerre da cui queste persone cercano scampo. Il ridicolo Hollande, il sussiegoso Cameron, il grottesco Renzi (la Merkel giganteggia, pur nel suo “andreottismo”), per non parlare del fascista Horbán, e gli altri, appaiono manifestamente spiazzati: nella loro disonestà, di responsabili primi, accodati all’Amministrazione Usa, della destabilizzazione del Nordafrica e del Medio Oriente, ora alle prese con gli effetti “non previsti” degli interventi “umanitari”, o di peace keeping, o di esportazione di democrazia.

Non previsti? E la loro risposta balbettante, palesemente imbarazzata, si concentra su scafisti e passatori, fingendo di dimenticare che se quelli sono “trafficanti di morte”, sono essi stessi, i “capi” del mondo, i responsabili veri, e unici, dell’inferno che la globalizzazione delle ricchezze (per pochi), dopo la globalizzazione della miseria (per tanti), è giunta la globalizzazione delle persone, della intera umanità. E cercare di fermarla con recinzioni e muri è “come cercare di schivare la bomba atomica in cantina”, dice ancora Bauman. E non dimentichiamo il business gigantesco, e macabro, favorito dai respingimenti; perché chi tenta di giungere in Europa, e viene preso e poi rinviato al luogo di origine (ove determinato), presto o tardi ci riprova. È stato calcolato (vedi Francesco Pacifico su Lettera 43, del 20 aprile 2015) un giro d’affari di 10 miliardi di euro l’anno, a beneficio, essenzialmente, di organizzazioni criminali, ossia l’ISIS e le varie mafie nazionali e transnazionali.

E allora che fare? Intanto, assumendo la responsabilità della situazione che noi abbiamo creato, assicurare diritto d’asilo a tutti, senza distinzione tra profughi, migranti, rifugiati, in tutti i Paesi dell’Unione. E altrove, nel mondo sviluppato. Questo nell’immediato. Ma occorre un pensiero lungo. Il quale ci dice che occorre che l’Europa abbandoni ogni politica imperialistica. Smetta di eseguire gli ordini di Washington. Rinunci a decidere di eliminare i leader scomodi, da Milosevič a Gheddafi, da Saddam Hussein ad Assad, senza preoccuparsi delle conseguenze. E non sostenga regimi colonialisti, come quello israeliano. Smetta di tacere davanti agli Stati Uniti che finanziano ora questa ora quella organizzazione “di liberazione”, dall’UCK ai Taliban, fino ai fanatici del sedicente Stato Islamico, salvo poi accorgersi, troppo tardi, che il serpente è pronto a mordere la mano, e che gli amici di ieri, giunti al potere, sono i nemici di domani. E soprattutto occorre che l’Europa e l’Occidente tutto diano una patria ai palestinesi, perché là, nel nodo Israele-Palestina risiede la prima scintilla pronta a incendiare la prateria.

Utopie? Può darsi. Ma intanto la realtà che è nel nostro presente, è una distopia. Una utopia al contrario. Vogliamo accontentarci di questa? E assistere inerti, o complici, alla tragedia d’Europa? O vogliamo batterci per rovesciare i tavoli e cambiare le cose?

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Cristo si è fermato a Gevgelija

Eloisa d’Orsi

Km e km e ancora km. Strade, ponti, caselli, dogane e valli. E ancora caselli, foreste, fiumi, ancora ponti e ancora frontiere.
In dieci giorni ho attraversato 7 paesi e percorso 2500 km, ma ne mancano più di 1500. Non si arriva mai. Come nel romanzo di Joseph Roth, questa è una “fuga senza fine”. In cui il protagonista è un essere ormai ovunque straniero. Ma nel romanzo di Roth, il giovane Tunda non è spinto dall’inquietudine, al contrario, da una assoluta quiete. Ogni tappa è solo un momento di apparente sospensione nel turbine dell’eterno fuggire.

E come Tunda, probabilmente anche io, con questo lavoro, cerco di fuggire la noia della vita della società oziosa e borghese europea e quest’estate, dopo una tappa nell’Egeo, ho seguito la nuova rotta dei migranti attraverso i Balcani. E dalla Grecia sono arrivata in Ungheria con ancora mezza Europa da attraversare per arrivare dove ormai sembra tutti vogliano arrivare: Germania, Inghilterra o Scandinavia.

Sono arrivata in Grecia alla frontiera con la Macedonia, il 20 agosto, il giorno della chiusura del confine da parte del governo macedone nella piccola citta di Gevgelija, dove in poche ore si sono accumulate migliaia di persone per lo più provenienti dalla Siria ma anche dall’Afghanistan, Iraq, Bangladesh, Sri Lanka, Sudan, Senegal, Iran, Pakistan e Palestina.

Dopo gli sbarchi continui di questi ultimi due mesi il governo greco per svuotare le isole dell’Egeo, ha avuto la brillante idea di portare gli ultimi arrivati non più ad Atene dove avrebbero continuato ad ammassarsi per poi trascinarsi mesi in città alimentando le file dei poveri di una capitale continuamente a rischio di default, bensì a Thessaloniki in nave, e da lì di farli arrivare in bus direttamente al confine macedone. Dove venivano scaricati in mezzo ai campi, passando quindi la palla al paese vicino.

Al di là del surrealismo governativo di un paese – la Grecia – che accompagna migliaia di profughi alla frontiera del paese vicino suggerendo di attraversare illegalmente la frontiera, e di un altro – la Macedonia – che ha pensato di risolvere il maggior flusso di rifugiati dopo la Seconda guerra mondiale chiudendo la frontiera, il biasimo va all’intera “comunità internazionale”, dalla Croce Rossa all’UNHCR fino alle organizzazioni umanitarie (fatta eccezione di Medici Senza Frontiere che con una Ong locale erano gli unici presenti sul campo), che non sono state in grado di fornire nessun tipo di assistenza lasciando migliaia di famiglie in mezzo al nulla senza alcun genere di prima necessità, né tende, né coperte, cibo, acqua, docce, o assistenza medica.

Grazie alle carenze di tutte queste organizzazioni che lautamente finanziate dovrebbero vegliare e risolvere ogni genere di emergenza, scene apocalittiche si sono ripetute per tre giorni consecutivi durante i quali i profughi ammassati in migliaia, di fronte a una cinquantina di soldati dell’esercito macedone schierato di fronte al doppio giro di filo spinato, cercavano di sfondare il confine. Il terzo giorno dopo una ennesima giornata di abbandono sotto le intemperie, si è concluso con momenti convulsi e sfondamenti della barriera da parte di migliaia di persone che si sono riversate nella piccola stazione macedone di Gevgelija per poi essere portati direttamente al confine con la Serbia. La Serbia ha messo in atto la stessa dinamica, portando i migranti in autobus fino a Belgrado e quindi alla frontiera con l’Ungheria. Che oggi è riuscita a terminare il suo muro che dovrebbe “proteggere” lo Spazio Schengen.

Forse avrei dovuto raccontare la storia di qualcuno in particolare, dei tanti profughi che ho seguito in questi giorni: giornalisticamente funziona meglio, ma non sono riuscita a scegliere nessuno, perché purtroppo questa è la storia di tutti. È la storia di una progressiva spoliazione, un processo per cui esseri umani – né migranti, né rifugiati per quanto mi riguarda nonostante tutta la polemica e la contropolemica sulla terminologia – che hanno abbandonato le loro vite, e si sono ritrovati, a poco a poco, senza nome, senza credito, senza rango, senza soldi e senza professione; senza una patria, né diritti. Trasformandosi in “immigrati”; stranieri, che non appartengono veramente a nulla e a cui tocca l’implacabile destino dei naufraghi nella nostra bella Europa.

Europa, quella bella fanciulla di cui si innamorò Zeus e alla quale tutti noi abbiamo prestato credito. Europa, patria della cultura, dei diritti umani e civili, della convivenza e della democrazia. Quell’Europa a cui abbiamo dedicato tutti i nostri sogni e che adesso ci ha lasciato senza identità. In questi giorni, proprio in Grecia, al confine con la Macedonia, lo spirito europeo e tutto ciò che ha sempre rappresentato si è definitivamente sgretolato. Andato in frantumi. Fatto a pezzi dalla crisi, dalla precarietà e dalla conseguente xenofobia, dalla confusione, dalla disinformazione, dalla più scriteriata propaganda e da feroci guerre tra poveri.

Le scene bibliche di questo esodo di migliaia di persone in fuga che si sono susseguite in queste ultime settimane di agosto nei Balcani che ricordavano i profughi della seconda guerra mondiale, non si ripetevano dai tempi del Kosovo. Forse pensavamo di essere diventati migliori, ma lo sappiamo, la storia si ripete, indifferente ed implacabile. E non ci insegna nulla.

Cosa succederà e cosa faremo ora, proprio non lo so. Quello che so, è che il vaso di Pandora si è aperto e che noi, non siamo più quello che eravamo o pensavamo di essere.
Abbiamo perso la credibilità faticosamente costruita pezzo dopo pezzo, trattato dopo trattato, elezione dopo elezione e ora siamo senza identità

Io personalmente non mi inorgoglisco più di essere europea. Provo anzi vergogna e un tremendo senso di impotenza. Impotenza di fronte a quelle migliaia di creature abbandonate all’addiaccio senza uno straccio di tenda sotto cui ripararsi dalle intemperie a cui non ho potuto offrire nulla oltre la mia patetica e compiacente comprensione. Impotenza per quei bambini stanchi buttati per terra in mezzo ai rifiuti, per quelle donne incinte, stanche, senza una coperta sotto cui ripararsi, per quei vecchi senza una sedia dove riposare, per quelle famiglie intere senza cibo, per quei malati senza medicine, per quei giovani con un futuro oscuro, per quelle scene che sembravano di un tempo lontano e sorpassato.

“I’m sorry, I’m so sorry” ripetevo come un’idiota senza sosta. “Welcome, Benvenuti!”
Ma benvenuti dove?! Benvenuti all’inferno. Dove nessuno vi darà un riparo dove stare, un letto dove dormire, un pezzo di pane da mangiare. Nessuno avrà pietà di voi.

Dove tutti si approfitteranno di voi e vi estorceranno soldi per qualsiasi cosa. E pretenderanno tre euro per una patata, o una banana, o mezz’ora di corrente per caricare il vostro smartphone. Per quei campi improvvisati dove non c’era nessuna organizzazione umanitaria, dalla Croce rossa, alle Nazioni Unite, ma c’erano invece signorine della Cosmote a vendere SIM della loro compagnia telefonica.

Benvenuti in un paese dove cercheranno di estorcervi 100 Euro per un viaggio in taxi di pochi km. per portare vostra nonna di 90 anni o vostra madre che si è rotta una gamba nello sbarco sulle scoscese coste dell’isola di Lesvos. O 2000 per morire asfissiati come cani randagi in un camion per la carne da macello. E non importa se arrivate da Homs da Aleppo o da Damasco. Non importa se il vostro paese è stato invaso prima da questi o da quelli. Non importa se siete siriani iracheni o pakistani. Vi capiamo, capiamo ogni vostra disgrazia. Ma questa è la nostra terra e voi, mi dispiace, non possiamo accogliervi tutti, e non siete i benvenuti. Più muri scavalcherete, più barriere innalzeremo. Perché il mondo è o sembra essere ogni giorno più organizzato e ipertecnologico, ma la base di ogni società umana si costruisce su concetti come il senso di appartenenza a una comunità. La comunità si basa sull’identità. Una identità che si delinea sulle differenze. E la nostra identità in mezzo a tanta confusione è tra le cose più primitive al mondo, ma una delle poche che ci restano e a cui non siamo assolutamente disposti a rinunciare. NOI fino ad oggi abbiamo sbandierato in faccia a tutti la nostra civiltà, una civiltà che ci sembrava di avere rispetto agli ALTRI e ci siamo imposti come un modello da seguire. Ora non so più in nome di cosa dovremmo sentirci migliori. Perché abbiamo dimostrato di non esserlo e la Storia non ci assolverà.

Io non mi perdonerò di aver visto Raffiq, quell’insegnante di storia siriano andare a piedi lungo la ferrovia tra la Serbia e l’Ungheria, piangendo con le sue stampelle, né mi perdonerò quei genitori disperati di non poter rassicurare i propri figli, spaventati dai lampi e dalla pioggia di queste notti di fine estate, non mi perdonerò lo sguardo di Ramadi che arrivata da Kobane mi diceva: “la mia vita era così bella, quando finirà quest’incubo?”