Fate questo di N.Lisi

Nino Lisi
Cdb San Paolo – Roma

Ma questo che? Cos’è il “questo” che Gesù di Nazareth, a quel che riferiscono tre (Mc, Mt, Lc ) dei quattro evangelisti canonici, ci invita a compiere per fare memoria di lui? Fare memoria: non semplicemente ricordalo, ma rendere presente in qualche modo ciò che di lui vogliamo ricordare, il senso della sua vita per trarne uno per la nostra.

La scena è ben nota. E’ambientata in una sala da pranzo, appositamente preparata da Pietro e Giovanni al piano superiore di una casa privata, in una stanza già provvista di tappeti. I pittori (occidentali) l’hanno variamente rappresentata: con un tavolo rettangolare, o semicircolare, o a ferro di cavallo, e l’improbabile disposizione dei commensali tutti da un lato del tavolo o al massimo su tre, lasciando libero l’altro.

I tre evangelisti riferiscono che Gesù durante il pasto fece a pezzi un pane e invitò i commensali a mangiarne.

Un pane: alimento tanto essenziale che gli Ebrei lo portarono con loro, preparato alla bell’e meglio senza neppure lievitarlo per risparmio di tempo e di spazio, quando fuggirono dal faraone. Alimento che secondo le nostre culture non dovrebbe mancare su alcuna mensa e che se manca a qualcuno è segno che questi ormai è quasi fuori dalla vita e, perdurando quella condizione, è destinato a uscirne. Alimento prodotto dalla cooperazione di molte mani: di chi ha seminato il grano, di chi lo ha mietuto, di coloro che lo hanno trebbiato, dei mugnai, di chi impastata la farina gli ha dato forma, dei fornai. Tante mani, di maschi e di femmine. Rappresenta quindi due elementi senza dei quali   la vita degli umani ed in generale quella di tutti gli animali cesserebbe: il nutrimento e la cooperazione. Si può prenderlo a simbolo, dunque: a simbolo della vita.

A proposito di simboli, ci si sarebbe potuto attendere che Gesù dopo avere offerto del pane distribuisse dell’acqua, altro elemento essenziale perché la vita continui. Invece distribuì del vino. Il vino non è essenziale come l’acqua, ma è un segno di festa, di convivialità, di gioia. E queste sì, la festa, la convivialità, la gioia (almeno un briciolo, sia pure per un momento) sono importanti per vivere.

Se ne potrebbe concludere che, secondo quanto hanno riferito i tre evangelisti, il Nazzareno con quei gesti abbia voluto spiegare che chi vuole attualizzare la sua memoria, farne non un ricordo astratto e melanconico, ma qualcosa di reale, deve condividere la vita con gli altri e le altre, spartendone con loro sia la fatica sia la gioia. In altri termini deve porsi al servizio degli altri e delle altre, dar loro aiuto alla bisogna.

Questa interpretazione richiama il racconto dell’altro evangelista, Giovanni, che di quella sera fornisce una versione un po’ diversa: sempre di pranzo comune si tratta, ma invece che descriverci la condivisione del pane e del vino, il quarto evangelista ci descrive la lavanda dei piedi. Gesù, presi un catino e dei teli, lava i piedi ai commensali, dando loro sollievo. La condivisione raccontata da Matteo, Marco e Luca sembra coniugarsi perfettamente con il gesto riferito da Giovanni. Nell’un caso come nell’altro si tratta di non vivere per sé ma insieme e a servizio degli/delle altr@. E’ un’unica narrazione.

Giovanni rende poi noto un altro episodio di quella cena. Anche in questo c’è il pane. Gesù intintone un pezzo in un sugo lo offrì a Giuda, pur avendo capito che stava  per tradirlo. E questi lo mangiò. La narrazione si arricchisce così di un particolare importante: il pane, cioè la vita si condivide non solo con chi ti apprezza e ti ama ma con tutti/e, senza esclusione di alcuno/a. Neppure di chi ti tradisce e magari ti odia.

Giovanni spiega infine la logica di tutto ciò che avvenne in quella straordinaria cena. Ne conclude infatti il racconto riferendo del “comandamento nuovo” che Gesù pronunciò alla fine del banchetto: «Amatevi gli uni gli altri. Amatevi come io vi ho amato. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se vi amate».

Tutto sembra tornare.

Ci sono altre parole tramandate da Matteo, Marco e Luca come pronunciate da Gesù quella sera, di cui bisogna comprendere il senso. Offrendo pane e vino ai suoi commensali disse «questo è il mio corpo; questo è il mio sangue». E’ noto che nell’antichità, presso diversi popoli era diffuso il convincimento che cibandosi delle carni di un essere umano, in particolare di alcuni organi, ci si appropriasse di quanto di meglio avesse caratterizzato il defunto in vita: il coraggio, la forza, l’intelligenza, etc. In linea con il “comandamento nuovo” e ricollegandosi al significato simbolico del pane e del vino si potrebbe desumere che con queste parole Gesù abbia voluto dire che per far propria la sua capacità di amare, per assomigliargli, per porsi alla sua sequenza e rendere  presente il senso della sua vita nelle nostre, non si debba vivere per se stessi, ma condividere la propria vita con gli/le altr/e, mettersi a loro servizio. Non necessariamente facendo atti eclatanti di generosità ed altruismo, ma disponendosi all’accoglienza, all’ascolto e, ove serva, all’aiuto agli/alle altr@. Dunque non gesti e parole simboliche in circostanze particolari, magari nei giorni festivi,    ma un modo di essere, un modo di vivere, un atteggiamento esistenziale di tutti i giorni. Altri passi del vangelo sembrano convalidare questa possibile interpretazione, lì dove è scritto che l’unico metro di giudizio in base al quale Gesù riconoscerà i suoi sarà di aver dato da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, consolazione agli afflitti, etc.

Forse, nel trarre questa narrazione dai racconti evangelici dell’ultima cena, sbaglierò, perché nei fatti è avvenuto tutt’altro.

In tutto il mondo, smentendo la predizione di Gesù secondo la quale «L’ora viene in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre», perché «I veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità», è stato costruito un incredibile numero di chiese di ogni dimensione, piccole, medie, grandi ed enormi, “ad maiorem Dei gloriam”, per celebrarvi la “Santa Messa”. Nella quale – come si leggeva anche nel catechismo che ho imparato a memoria da bambino – “si rinnova il sacrificio che Gesù fece di se stesso sulla croce”.

Si è avverata una narrazione assai diversa.

I vangeli attestano che Gesù si spiegava per metafore e così solitamente le sue parole sono state interpretate e lo vengono tuttora, ma quelle che accompagnarono l’offerta del pane e del vino sono state prese alla lettera. Così si è prodotto l’irruzione del sacro sulla normale mensa:   il “fate questo in memoria di me” è stato rinchiuso nelle chiese, le indicazioni cogenti per concretizzare il “comandamento nuovo” sono state declassate a “precetti della chiesa”, ad “opere di misericordia” e   sulle parole di quella sera si è costruito un rito

Un rito fatto di azioni programmate, di parole determinate, di gesti preordinati, di prescrizioni precise che, per i celebranti, sono minuziosamente descritte nelle rubriche dei messali e, per il popolo, (in piedi, seduti e magari in ginocchio) sono indicate dai cerimonieri o dagli stessi celebranti; un rito pieno di giaculatorie e formule, alcune delle quali con una sfumatura di magia. Per secoli si è infatti discettato della transustanziazione, assumendo che, pure esigendo la presenza attiva di un consacrato (rigorosamente maschio) al quale il potere fosse stato tramandato direttamente dagli apostoli a mezzo di una successione ininterrotta, essa avvenisse «ex opere operato». Cioè che la sostanza del pane e del vino, ferme restando le rispettive specie, si trasformasse nella carne e nel sangue del Nazzareno per le parole dette, per l’azione compiuta, indipendentemente dalle doti personali del celebrante, di cui bastava la presenza. L’irruzione del sacro sulla mensa comportò che venisse imposto il digiuno dalla mezzanotte precedente per comunicarsi al mattino e che le buone suorine insegnassero a bambini intimiditi, qualche volta impauriti, come inghiottire l’ostia senza masticarla e neppure toccarla con i denti.

Secondo quest’altra narrazione il senso della vita di Gesù si attualizza non in un atteggiamento esistenziale, non vivendo con e in mezzo alla “gente”, ma dentro le chiese, in un rito. La frequenza al quale diviene il cuore della vita cristiana. Più o meno così per secoli.

Poi venne il Concilio Vaticano II, a ridosso del quale la   teologia olandese cominciò a rompere l’incanto sostenendo che non di transustanziazione si trattasse, bensì di transignificazione; il digiuno eucaristico venne abolito, gli altari vennero girati verso il popolo ed il celebrante gli volse il volto invece di dargli le spalle e prese a parlare in volgare; le giaculatorie diminuirono senza però scomparire, i paramenti divennero più sobri e la liturgia più essenziale. Con meno candele ed incensi e una pompa ridotta, il “rito” però è rimasto ed il “fate questo” continua a svolgersi fuori dal mondo e dentro le chiese.

Alcuni, non molti per la verità, sospinti da contingenze si sono ricordati  che da qualche parte il popolo di Dio è menzionato come popolo regale e sacerdotale e ne hanno dedotto che si possa spezzare il pane senza che a farlo ci sia necessariamente un “consacrato”. In qualche caso perciò il rito è uscito dalla chiese ed è andato in piazze e in garage, senza paramenti e ancor meno giaculatorie. Però sempre rito è rimasto.

Pur così mutato, quanto risponde al “fate questo” che disse Gesù?

Ma, forse, la prima narrazione, quella che ho tentato io, non è del tutto sbagliata.

Il 12 settembre scorso, nella Trasmissione I dieci Comandamenti (Rai 3, in prima serata) è apparso un sacerdote di una parrocchia romana che sorge negli immediati pressi del Senato. Nella navata della sua chiesa viene offerto un pasto a più di cento persone ogni volta; poi, riordinata, la navata viene restituita alle abituali funzioni. All’intervistatore che gli chiedeva se quello fosse il luogo adatto a dare da mangiare alla gente, il sacerdote ha risposto, indicando l’altare, che quello che chiamiamo altare in realtà è una mensa e che quando si offre da mangiare e da bere a chi ne ha bisogno si fa esattamente quel che ha detto Gesù “mangiate e bevete”. Ha poi invitato l’intervistatore a non credere che quella navata quando la si usa per far mangiare i poveri sia meno chiesa di quando vi si dice messa.

Ascoltando quel prete mi è tornata in mente che nella mia comunità si è discusso, a volte, se ci sia un solo modo di dire messa ed ho pensato che mangiare insieme ad un centinaio di diseredati possa essere anche quello un modo di dir messa, forse più vicino a quello che intendeva Gesù quando disse «fate questo in memoria di me».