Il no presuntuoso di alcune femministe alla maternità surrogata di C.Lalli

Chiara Lalli
www.internazionale.it

Le femministe condannano la maternità surrogata. Le femministe sono contro l’utero in affitto (è il titolo dell’articolo di oggi sulla Repubblica, Femministe contro l’utero in affitto: “Non è un diritto”).

Forse sarebbe meglio dire “alcune femministe”, perché la presunzione di incarnare l’universo femminista è la stessa di decidere al posto di qualcun altro senza nemmeno chiedergli il parere (nell’articolo sulla Repubblica, più o meno a metà, lo si scrive esplicitamente: “alcune femministe”). È per il nostro bene, ovviamente, come il più feroce e infido paternalismo. Siete troppo sciocche per decidere da sole. Ci siamo noi a difendervi. Non lo avete chiesto? Pazienza. Abbiamo già detto che è per il vostro bene?

Le donne di Se non ora quando (Snoq) promuovono un appello: “Diciamo no a chi vuole un figlio a tutti i costi”.

Ove a “tutti i costi” ha un’accezione negativa solo in questo caso, cioè nel dominio della riproduzione, un dominio sacro e inviolabile come lo è quello della maternità. È uno slogan usato durante le discussioni sulla legge sulla fecondazione assistita, per esempio, per condannare la possibilità di ricorrere a una tecnologia. Siete sterili? Rassegnatevi. Non riuscite a concepire naturalmente? Forse qualche divinità ha deciso così e non possiamo avere la tracotanza di opporci.

Se lo usiamo altrove ci accorgiamo che non ha una connotazione di per sé accusatoria: “Che bravo Mario, ha voluto laurearsi a tutti i costi!”. Ma con l’utero no, quello non lo puoi toccare nemmeno se è il tuo. Perché sei troppo sciocca e ci vuole Snoq per dirti cosa farne. Ecco perché bisogna essere per il divieto universale della surrogacy. Perché le donne sono troppo deboli per decidere da sole, hanno bisogno di una guida, di un mentore. Mi ricorda qualcosa.

Dice l’appello di Snoq: Noi rifiutiamo di considerare la ‘maternità surrogata’ un atto di libertà o di amore. In Italia è vietata, ma nel mondo in cui viviamo l’altrove è qui: ‘committenti’ italiani possono trovare in altri paesi una donna che ‘porti’ un figlio per loro. Non possiamo accettare, solo perché la tecnica lo rende possibile, e in nome di presunti diritti individuali, che le donne tornino a essere oggetti a disposizione”.

A parte l’altrove che è qui, essere oggetto non è il destino intrinseco di ogni donna che si offra per una surrogacy. Se scelgo liberamente, sarò ancora una vittima? Che poi sarebbe forse il caso di abbandonare questi termini ormai abusati, e i cui confini semantici sono così allentati da conferire un’ambiguità ineliminabile a quanto si sta cercando di dire.

“Il nodo è quello della differenza tra desiderio e diritto. I temi sono quelli del limite, della libertà e della modernità”.

Belle parole, ma pericolose se usate per rimpiazzare la possibilità di scegliere. Di comportarsi come noi non faremmo, di fare cose che non ci sogneremmo mai di fare, di rifiutare un modello unico di donna e la distinzione tra desideri legittimi e illegittimi fondata sul nostro gusto personale. È abbastanza deprimente assistere al decalogo a cui ogni vera femminista dovrebbe piegarsi, e alla lista di divieti moralistici fondati su premesse tanto fragili.

“Già alcune femministe italiane – dopo quelle francesi, che hanno stilato un manifesto simile qualche mese fa – hanno sostenuto queste tesi”, scrive la Repubblica, “e sono state, come scriveva ieri Avvenire, accusate di omofobia”.

‘Ma la questione riguarda per l’80 per cento coppie omosessuali [ndr, è un refuso, si intende eterosessuali] – dice Izzo – non c’entra con i diritti dei gay che abbiamo sempre difeso. Ad esempio sostenendo la possibilità, per tutti, di adottare’. Fabrizia Giuliani, docente di filosofia del linguaggio e deputata del Partito democratico, spiega: ‘Mi sono battuta per la legge contro l’omofobia, mi sto battendo per le unioni civili, penso che la politica debba lavorare seriamente sulla riforma delle adozioni. Tutte cose che non sono in contraddizione con il nostro appello. In quel testo noi diciamo una cosa fondamentale: nessun essere umano deve essere ridotto a mezzo. Questo vale per tutti. Su questo, sul concetto profondo di libertà, dobbiamo tutti essere in grado di mettere in campo un pensiero nuovo. Il tempo di gestazione non è un tempo meccanico, quel bambino non è un oggetto, quella donna non è solo un corpo, perché il nostro corpo siamo noi’.

La questione riguarda anche la libertà di una donna di decidere di portare avanti la gravidanza per qualcun altro. E definire questa scelta come necessariamente un abuso, una violazione, una forma di schiavitù è un errore grossolano. Passare da “io non lo farei” a “nessuno dovrebbe farlo” non è un ottimo argomento.

E se quella donna non è solo un corpo, sarà pure un cervello con la possibilità di decidere cosa fare del proprio corpo senza che nessuno si permetta di dare consigli non richiesti.

Sull’accusa di omofobia ci sarebbe da ridere. Il commento del presunto accusatore citato da Avvenire (Femministe contrarie agli uteri in affitto? “Sono tutte omofobe”) è talmente surreale da sembrare scritto da una sentinella in piedi mascherata da “omosessualista”: “Segnalerò l’articolo in questione all’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali così come i commenti omofobi dei lettori che avete appositamente scatenato con questa foto sulla vostra pagina di Facebook”, scriveva il 24 novembre l’utente 12034877 commentando il post Dalla Francia all’Italia le femministe contro la maternità surrogata: “La madre non si cancella”, pubblicato sul blog “la 27esima ora”. “L’articolo ha lo scopo di incitare all’odio sulle scelte personali di tantissimi omosessuali e lo fa con una terminologia completamente errata (lo sanno anche i sassi che il termine ‘utero in affitto’ è dispregiativo e poco rispettoso)”.

Non so se mi appassiona di più la denuncia delle intenzioni e i mezzi per dimostrarne i fini omofobi oppure la questione – gigantesca – degli eventuali reati d’opinione. Suggerire poi, come riportato nello stesso post, che l’adozione sarebbe un’alternativa è come dire a uno che vuole un gelato: “Ma non vuoi forse mangiare questa pizza con tonno e cipolle?”.

Le pessime argomentazioni non finiscono qui. Andando sul sito Che libertà ecco una intervista a Monica Toraldo di Francia, filosofa e membro del Comitato nazionale per la bioetica, che commenta così: “So che la mia può sembrare una posizione da veterofemminista dovuta anche alla mia età, ma considero questa maternità surrogata come una forma di sfruttamento del corpo femminile, un modo, conscio o inconscio, del maschio di appropriarsi di qualcosa che loro non hanno e che hanno sempre invidiato a noi donne: la capacità di generare. Dal momento in cui la sessualità è stata sganciata dalla procreazione si è creata una zona franca nella quale, a me pare, che il maschio abbia ricominciato a spadroneggiare. Ma non è solo questo che mi turba”.

È impressionante che si voglia difendere qualcuno che forse non l’ha chiesto. E non c’entra il veterofemminismo, c’entra l’incapacità di costruire un argomento privo di fallacie e di assunzioni illegittime e fantasiose. Per non parlare della confusione tra una delle possibili modalità di surrogacy (abuso di donne prive di mezzi) e la surrogacy in assoluto.

Continua Monica Toraldo di Francia:

Nella realtà questa tecnica viene praticata soprattutto da coppie provenienti da paesi ricchi a carico di donne di paesi poveri, spesso costrette dalle famiglie a prestare il loro utero per crescere un figlio che non sarà mai loro. È il caso soprattutto dell’India. Mi sembra un po’ come il mercato illegale degli organi: nel sud del mondo manca tutto ma abbondano i corpi e allora sono i corpi a essere messi in vendita. Non mi piace. Questo commercio di ovuli e spermatozoi dimentica il bambino, il nuovo essere che viene al mondo. E viene al mondo dopo una gestazione di nove mesi nella quale la donna e il bambino stabiliscono una relazione profonda. Non è per caso che il neonato, fin dal primo momento, riconosce la voce di chi l’ha messo al mondo.

Ciò che rimane fuori è: ma se io decidessi di portare avanti una gravidanza per qualcun altro, sarei abusata, povera, sfruttata e da difendere anche se non voglio essere difesa perché non c’è niente da cui difendermi?

Continua l’intervista: “Alcune donne, pochissime in verità, si sono offerte, però, volontariamente come madri surrogate per aiutare un’amica, una sorella o semplicemente per essere utili…”.

Risponde Monica Toraldo di Francia: “Neanche questo mi convince. È un contratto innaturale, questo. Dare un assenso consapevole senza scambio di denaro crea ancora di più quei conflitti e quei contenziosi di cui ogni tanto si legge sui giornali tra la madre che ha chiesto un figlio e quella che lo ha partorito. E lo capisco”.

E con il riferimento all’innaturalità (innaturale come un computer, come la medicina o come un contratto matrimoniale?) come dimostrazione del carattere moralmente ripugnante della surrogacy, si può celebrare la morte della filosofia e delle argomentazioni razionali.

Invece di firmare appelli e invitare a moratorie universali, forse si potrebbe dedicare un po’ di tempo a studiare un manualetto di argomentazioni.

Siamo tornate all’istituto della maternità nella versione peggiore possibile. Ovvero, mascherato da femminismo e da attenzione verso le parti più fragili. A cui ovviamente nessuno pensa di chiedere il parere. Che siamo troppo cretine per scegliere lo abbiamo già detto?

Sul perché questo attacco sia emerso ora non si possono che fare ipotesi. Ma qualunque sia l’intento, il mezzo è davvero insoddisfacente.

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Le donne e 9 mesi di vita trasformati in merce. Non tutto è disponibile

Luisa Muraro
http://27esimaora.corriere.it

Non esiste il diritto ad avere figli a tutti i costi. Chi lo cerca con l’utero in affitto entra in un mercato in cui la donna è messa sotto contratto con clausole varie dettate dal compratore. Definire schiave queste donne è retorica che copre il mercimonio. Viviamo in una situazione in cui il mercato ammette che si possa trasformare nove mesi della vita di una donna in merce. La cultura neo liberista si impadronisce delle conquiste femminili facendo passare il profitto per libertà di scelta. Quarant’anni di lotte hanno sganciato le donne dalla subordinazione, trasformando i rapporti tra i sessi. L’utero in affitto non è un diritto e non è libertà. È come dire che la prostituzione è sempre una libera scelta. È menzogna. Chi si sente libera lo fa e non chiede diritti, legalizzare la prostituzione serve solo a dare garanzie agli sfruttatori. Ci sono cose sgradevoli e contrarie alla civiltà e altre che la favoriscono. La relazione materna è una di queste ultime. Va custodita come un bene. Non sappiamo cosà può produrre nelle creature future quel «passaggio». Probabilmente man mano che la libertà femminile si rafforza si vedranno situazioni speciali che consentiranno di trasformare la relazione materna in qualcosa di nuovo. Se necessario. Occorrono, però, garanzie di gesti fatti per amore e liberamente. Finché ci sarà l’utero in affitto è inutile farsi illusioni: passerà per donazione quella che è una compravendita. Io sostengo che abbia a che fare con l’invidia maschile della fertilità femminile. In passato hanno anche tentato grotteschi esperimenti per impiantare uteri nei loro corpi. Oggi alcuni direbbero che questa invidia può essere gratificata. Basta il denaro. Eh no. L’utero in affitto contrasta con lo spirito della civiltà europea. Di una civiltà che non vuole la vendita di organi né di altro materiale del vivente. Ma la donazione. Quello è lo spirito della legge. Adesso ci chiediamo se questa etica possa essere trasferita anche alla maternità, in forma di utero di una donna che lo mette liberamente a disposizione di altre. I punti su cui dobbiamo interrogarci sono diversi. Deve essere un dono, e la gratuità deve essere certa, come per il sangue e gli organi, certificata da un’autorità affidabile.

Non basta: va prevista la possibilità che la donante possa cambiare idea. Portare in grembo una creatura, è risaputo, sviluppa nella donna una relazione così profonda che perfino il distacco del parto può metterla in difficoltà. Dove stanno andando ora i compratori di uteri? Nei Paesi dove il contratto è una finta perché lei non potrà tirarsi indietro, garantiscono per lei mariti, fratelli, padri e anche madri, solitamente poveri.

I sacrosanti desideri di maternità e paternità di donne e uomini non fertili possono essere appagati, ma a certe condizioni. Ci sono limiti anche alla scelta di donne che si sentono onnipotenti nell’atto di mettere a disposizione il loro utero. Una donna che vuole offrirlo, lo offra gratis e si rivolga a un’autorità morale informandosi sulle persone a cui donerà questa creatura. Questa è anche la posizione di Arci lesbica. Non venga, però, sventagliato come un diritto. È una possibilità e tale deve rimanere. C’è chi dice se non c’è un diritto ad avere figli allora come si giustifica il diritto a “non” avere figli? La legge 140 dà alle donne la possibilità di rinunciare alla maternità, a certe condizioni tra cui quella di abortire in ospedali pubblici. Non sancisce un diritto.

La questione resta morale e di civiltà. E qui incontriamo un altro punto su cui dobbiamo interrogarci: ed è l’idea di «non disponibile», che non vuol dire proibito. Non tutto è disponibile all’essere umano. Non è questione di tecnologia e non deve diventare questione di soldi, è una questione di misura interiore, è fondamentale che si accetti la corporeità vivente, il nostro essere corpo con le sue determinazioni.

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