Scandalo e beatitudine della povertà di P.Cavallari e G. Manziega

editoriale dall’ ESODO 

(www.esodo.net)

In base alle considerazioni esposte prima, ci siamo accostati all’argomento considerando la povertà in quanto legata all’alterità. Il soggetto (uomo o donna)è infatti sempre in relazioni (sane o malate); il suo essere povero, o non povero, il suo vivere la povertà o la ricchezza materiale o relazionale, i suoi giudizi e atteggiamenti verso i poveri (o i ricchi) sono dipendenti dal contesto
in cui è situato. Ne consegue che l’attenzione alla qualità della nostra attitudine relazionale è decisiva: altro modo per riaffermare il comandamento che ha al proprio centro un «come te stesso».

Come afferma Aristotele, povertà si dice in molti modi, rivestendo essa molteplici sensi (Di Sante). Il soffrire/ospitare la povertà è qualcosa di molto complesso che, pur non prescindendo dal dato economico, tuttavia l’oltrepassa.
Povertà non è il contrario di ricchezza. È piuttosto l’essere mancante/bisognoso di relazioni sufficientemente buone.
Distinguere, abbiamo detto all’inizio, ma non è operazione facile.

Le domande si affastellano concitate: poveri di che cosa? Ricchi di che cosa?
E rispetto a chi? “Siamo tutti ricchi rispetto a un vero povero, siamo tutti poveri rispetto a un vero ricco” (Ricca). Tra i depauperamenti più strazianti sta la sete di possesso, che è la causa prima della schiavitù stessa; fenomeno che S. Weil
conosceva molto bene e chiamava «idolatria sociale». In molte comunità si lavora per risanare coloro che sono stati offesi e sradicati, dal proprio mondo e da sé, uomini e donne, italiani o stranieri. Si elabora insieme, senza pretese
gerarchiche, lo sforzo di “rimanere umani” nonostante tutto (Zanatta, Garatto).

Due letture squisitamente esegetiche ci accompagnano in questo solco;insieme ad altre che, nell’orizzonte della parola biblica, sviluppano suggestioni sul mistero della povertà degli uomini, di Dio (Ricca, Bodrato). La tradizione ebraica ha istituzionalizzato il comandamento del ridonare la libertà al povero e allo schiavo – l’anno sabbatico (Dt 15,1-11; cfr. Lv 25,1-7). L’orizzonte in cui si colloca il precetto è quello del rapporto Io-Tu: «Apri, apri la tua manoal tuo fratello, al tuo indigente (‘anaw), al tuo povero nella tua terra» – afferma
Dio (in Dt 15,11); dove «tuo» lo è “in virtù della relazione instaurata con lui, in caso contrario egli rimane irrimediabilmente un estraneo”.

Così ritorna il nesso povertà-alterità nell’analisi del celeberrimo passo della donna di Betania (Sebastiani), dove la sollecitudine verso i poveri si sbarazza di quei gusci vuoti che sono le elemosine di maniera, incrostazioni
che inquinano l’essenza della misericordia evangelica. La testimonianza spudorata
di una donna spalanca alla dismisura, al mistero. Smentisce così il vuoto della carità misurata e della miserabile assistenza di chi la rimprovera: “avrebbe dovuto devolvere ai poveri quel profumo”. Un’altra tessera di un mosaico
sconfinato: “non si può essere poveri, nel senso forte evangelico, né attenti
ai poveri, senza vivere la relazione con l’altro”.

Paola Cavallari, Gianni Manziega