Il suicidio di Yassine

di Enzo Mazzi – cdb Isolotto

La “macchina carceraria” in Italia produce morte a ciclo continuo. Quest’anno 63 detenuti si sono uccisi e poco meno di 150 sono morti per altre cause, che vanno dall’assistenza sanitaria disastrata ad altre situazioni poco chiare. Circa 500 i tentativi di suicidio la maggior parte dei quali sventato dai compagni di cella. Come si fa a dire che da noi non c’è la pena di morte? Direi che invece la pena di morte è doppia: c’è la morte fisica prodotta dalle condizioni della carcerazione e la morte sociale dovuta al quasi totale silenzio che grava sul carcere e sui suoi ospiti. Salvo poche eccezioni come quella di Stefano Cucchi.

La morte di Yassine, il ragazzo marocchino morto pochi giorni fa per suicidio nel carcere minorile di Firenze è già archiviato per l’opinione pubblica. La volontà suicida del ragazzo e la constatazione impropria che il carcere era più un luogo di accoglienza che di detenzione dal momento che l’alternativa per lui era la strada e la solitudine sono elementi che attenuano la responsabilità ma non assolvono le istituzioni e la città intera. E soprattutto non ci devono impedire di riflettere e di prendere coscienza della situazione dei ragazzi e giovani tutt’ora reclusi nei carceri minorili dei quale pochi sanno perfino l’esistenza.

Oggi nel carcere fiorentino sono rimasti altri 21 ragazzi. Essi portano dentro di sé un dolore immenso per la morte del loro compagno, del quale hanno raccolto l’ultimo respiro e che hanno vegliato pregando Per alcuni di loro il suicidio di Yassine si somma ad altri già vissuti nonostante la giovane età.

“Chi è entrato costantemente nel carcere minorile in questi mesi, non può dimenticare il suo volto. Vogliamo però non limitarci a una espressione di cordoglio, perché siamo consapevoli del fatto che la storia di Yassine non rappresenta unپfeccezioneپh: lo dicono le volontarie e i volontari dellپf ‘Altro diritto onlus’, che frequentano da dieci anni il carcere minorile, in un documento/riflessione. Le stesse cose denuncia un importante coordinamento di associazioni che a Firenze, come accade in altre città, segue con passione e cura la situazione dei carcerati.

L’art. 37 della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, di cui proprio in questi giorni si celebra il ventennale, stabilisce chiaramente che: “L’arresto, la detenzione o l’imprigionamento di un minore devono costituire un provvedimento di ultima risorsa e avere la durata più breve possibile” perché non è uno strumento adatto alla risocializzazione. Nella stessa direzione va la normativa italiana sul processo penale minorile, considerata come una delle punte più avanzate del mondo occidentale in tema di tutela dei diritti dei minori.

Che la detenzione non sia uno strumento formativo lo dimostra il fatto che nello stesso carcere minorile fiorentino la scuola non è mai stata organizzata in modo stabile dal Provveditorato. La presenza degli insegnanti dipende dalla buona volontà di chi si fa assegnare una classe di scuola elementare in carcere. La scuola media quest’anno non è nemmeno partita per mancanza di fondi. Si dà per scontato che in un periodo come questo, dove la scuola è in sofferenza, l’ultimo problema sia quello della scolarizzazione dei minori detenuti.

Eppure, la scuola non è per loro solo un diritto, ma è anche una delle poche finestre che essi hanno sull’esterno, un modo per impiegare le mattinate altrimenti vuote, tutte passate entro la cinta con un solo squallido cortile.

Non basta piangere la morte di un ragazzo nella stanza accanto. Bisognerà premere perché quella stanza non sia la nostra discarica sociale ma un luogo dove possa filtrare almeno un po’ del calore umano che avvolge i nostri figli.