Contratto unico sì, licenziamenti facili no

Luciano Gallino
Repubblica, 29 dicembre 2011

Nella discussione sullo stato del mercato del lavoro circolano da anni varie proposte di un contratto unico a tempo indeterminato per le nuove assunzioni di lavoratori alle dipendenze. Proverò a spiegare perché l’idea di un contratto unico, presa a sé, è una buona idea. Che però diventa pessima quando la proposta sia corredata da dispositivi i quali, in sintesi, rendono più facili i licenziamenti. La discussione tra le parti sociali e il governo potrebbe fare qualche passo avanti se si riuscisse a concentrare l’attenzione sul meglio delle proposte in parola, lasciando da parte il peggio.

1. In Italia il problema dell’occupazione è ormai drammatico. Si riassume in due cifre: 3,5 milioni di disoccupati, e 2,5 milioni di precari con contratti di breve durata dal rinnovo incerto, mal pagati anche perché di rado lavorano per dodici mesi filati, privi di effettive tutele sindacali, e un futuro previdenziale da fame. Inoltre stanno invecchiando: il 60 per cento supera i trent’anni e oltre il 20 ha passato i quaranta (dati Ires-Cgil). Sebbene siano due facce dello stesso problema occupazionale, le soluzioni prefigurabili per ciascuna sono differenti. La disoccupazione avrebbe bisogno di interventi diretti, i quali richiedono un discorso a parte. Qui toccherò solo i modi in cui si potrebbe dare un’occupazione stabile ai lavoratori precari.

2. L’introduzione di un contratto unico da lavoratore dipendente per i nuovi assunti potrebbe condurre a stabilizzare una grossa quota di precari in un tempo relativamente breve. I contratti atipici hanno in prevalenza una durata compresa tra i sei mesi e un anno. Giacché non si potrebbero rinnovare se non in forma di assunzione alle dipendenze, tolti i pochi di cui si possa dimostrare che il contratto di collaborazione o la partita Iva corrispondono davvero a un lavoro autonomo, nel volgere di un paio d’anni il loro numero sarebbe ridotto di molto: si può ipotizzare di almeno un milione. Il nuovo contratto avrebbe pure il vantaggio di non richiedere la cancellazione della legge 30/2003, che sarebbe per più motivi complicata, né del suo decreto attuativo numero 276 dello stesso anno, pur con i suoi devastanti dispositivi. Essi andrebbero gradualmente ad esaurimento.

3. C’è un’obiezione ovvia a un contratto unico non corredato da licenziamenti facili: se non possono fruire della prospettiva di questi le imprese non assumeranno nessun precario. La risposta non può che essere duplice. In primo luogo il contratto unico cum licenziamento facile avrebbe, in realtà, l’effetto di trasferire in blocco la precarietà dagli attuali lavori atipici ai titolari del nuovo contratto. In secondo luogo le proposte in oggetto prevedono che l’introduzione di quest’ultimo abbia comunque un costo, ad esempio in forma di assicurazione contro la disoccupazione. Invece di questa si potrebbe pensare a forme di incentivo, mirate e temporanee, per le imprese che assumono con il nuovo contratto, privato però della coda che agevola i licenziamenti. Vediamo i due punti nell’ordine.

4. I fautori del contratto unico con libertà di licenziamento incorporata guardano in genere al modello Danimarca. Il guaio è che dalla flessicurezza alla danese, il famoso “triangolo d’oro” costituito da massima libertà di licenziare, elevati sussidi di disoccupazione e politiche attive del lavoro, c’è poco da imparare. Il suo vanto principale, il più basso tasso di disoccupazione d’Europa, si fonda su un dato fittizio. Infatti le statistiche danesi non includono tra i disoccupati i pre-pensionati, che in quel paese sono eccezionalmente numerosi, né coloro che sono privi di occupazione ma stanno seguendo un programma che rientra nelle suddette politiche. Ove si tenesse conto di tale disoccupazione nascosta, i disoccupati in Danimarca non sarebbero il 4,2 per cento (al 2010), ma superebbero di parecchio il 10 per cento.
È vero che chi perde un lavoro laggiù ne trova presto un altro. Oltre il 40 per cento entro un mese. Ma qui s’incontra un altro inconveniente del modello danese. Una larga libertà di licenziare combinata con un rapido ritorno al lavoro fa sì che il 30 per cento dei lavoratori danesi cambi posto di lavoro ogni anno. Questa sorta di migrazione interna è facilitata dalle ridotte dimensioni del paese: il posto trovato è spesso a poca distanza da quello perso. Qualora in Italia prendesse piede il modello danese, i lavoratori in transito annuale da un’azienda all’altra, su e giù per il paese, sarebbero circa sei milioni, circa tre volte più di oggi. Sarebbe interessante conoscere al riguardo l’opinione di imprenditori e direttori del personale.

5. La domanda chiave è: perché mai le imprese dovrebbero avere una maggior libertà di licenziare quale premio di consolazione per assumere i nuovi entranti con un contratto unico a tempo indeterminato? In caso di difficoltà economiche non c’è bisogno di cambiare niente: valgono le norme circa i licenziamenti collettivi, di cui le imprese hanno fatto ampio uso negli ultimi anni, cui si aggiungono i pre-pensionamenti obbligatori, i piani di mobilità ecc. Restano i licenziamenti individuali. Per avallare la necessità di facilitarli in un primo (lungo) periodo viene affermato da un lato che un’impresa ha bisogno di anni per valutare le capacità professionali di un neo-assunto; dall’altro, che dopo anni di investimenti in formazione un’impresa non ha più interesse a licenziare un lavoratore perché perderebbe il capitale così investito. Ambedue le asserzioni sono prive di fondamento. Negli ultimi anni le professioni che hanno registrato il maggior aumento tra gli occupati riguardano il personale non qualificato, gli addetti alle vendite e ai servizi alle famiglie, e gli impiegati esecutivi: tutti lavori che si imparano in pochi giorni. Quanto all’investimento in formazione, le ricerche dicono che in settori dove esso avrebbe la massima importanza, vedi il metalmeccanico, esso si concreta, e solo in poche aziende, in dieci-venti ore l’anno: poco per rappresentare un investimento che un datore di lavoro non può perdere.

6. Alla fine, delle due l’una: o si introduce il contratto unico insieme con i licenziamenti facili, e si può star certi che la precarietà si diffonde anche nelle aziende dove prima non c’era o era marginale perché il datore di lavoro, privato della possibilità di ricorrere ai contratti a progetto, alle finte partite Iva ecc. sostituisce quei contratti di breve durata con il licenziamento. Prima che scatti, dopo anni, il vincolo dell’articolo 18. Oppure si trovano i modi per indurre le imprese ad assumere con il contratto unico lavoratori e lavoratrici mano a mano che scadono i loro contratti precari. È possibile che ciò comporti un costo. Ma il tentativo di imitare la non imitabile flessicurezza alla danese, fatti i conti, presumibilmente costerebbe di più. Quanto ad occupare i disoccupati di oggi e di domani, la via dovrebbe essere diversa rispetto a quella volta a disboscare la giungla della precarietà. Un tema su cui bisognerà ritornare.