Hormuz: venti di guerra o riposizionamento strategico?

Giuliana Sgrena
www.globalist.it, 1 gennaio 2012

Ahmadin Ejad, il presidente iraniano, è un pazzo che vuol provocare gli Usa chiudendo lo stretto di Hormuz al passaggio del petrolio? Quella che si sta giocando è dunque solo l’ennesima guerra per il petrolio? Evidentemente no, e non solo perché il presidente iraniano si è già rimangiato la minaccia. L’Iran, comunque, continua a giocare con il fuoco e gli Stati uniti sembrano cadere nel tranello. Ma si tratta veramente di un tranello e per chi? L’impressione è che dietro la partita di Hormuz si stia giocando una ridislocazione geostrategica di tutta la regione, effetto dell’internazionalizzazione del conflitto siriano.

Nessuno (in occidente) si è speso più di tanto contro il presidente siriano Assad o a favore dell’opposizione siriana, al contrario di quanto si è fatto in Libia. Quindi la Siria conta meno della Libia oppure, come io penso, ha in realtà un peso strategico maggiore?

La fuoriuscita di Assad – alauita, una fazione sciita – infatti rimetterebbe in discussione tutte le alleanze nella regione, salterebbe l’asse Iran – sciiti iracheni – potere siriano – Hezbollah libanesi. Se in Siria vincesse la maggioranza sunnita si produrrebbe un nuovo sconvolgimento del potere iracheno a favore dei sunniti e l’Iran perderebbe tutto quanto guadagnato dopo la caduta di Saddam con la conquista del potere da parte dei partiti religiosi sciiti fedeli alleati di Tehran. Oppure l’appoggio siriano ai sunniti iracheni potrebbe portare alla partizione dell’Iraq. Con la caduta degli Assad in Siria l’Iran perderebbe quella continuità territoriale con gli Hezbollah libanesi e da lì anche la possibilità di allungarsi verso la Palestina, sebbene sunnita.

Naturalmente gli Stati uniti non sono osservatori disinteressati, stanno giocando una partita doppia: da un lato il petrolio – vecchi e nuovi contratti soprattutto con l’Arabia saudita, l’Iraq, il Kurdistan iracheno – e dall’altro la fornitura di armi. L’Arabia saudita, da sempre nello schieramento Usa anche se negli ultimi anni un po’ meno affidabile, con il più potente esercito del Medioriente, dovrebbe sostituire la Turchia come alleato più solido nella regione.

All’Arabia saudita gli Stati uniti hanno appena fornito 84 F-15 per 30 miliardi di dollari. Ma l’accordo per la fornitura complessiva di armi Usa a Riyadh raggiunge i 60 miliardi di dollari e comporta l’addestramento negli Usa dei piloti sauditi (ma non erano stati proprio loro ad abbattere le torri?). Più azzardati sono i rifornimenti militari a Baghdad: 11 miliardi di dollari in cacciabombardieri e carri armati. Ma a chi andranno? Agli alleati di Tehran? Per ora il governo è in mano al leader sciita al Maliki che mantiene anche il ministero della difesa e dell’interno, quindi è difficile che il controllo delle forniture militari finisca in altre mani.

Lo scontro tra governo di Baghdad e Usa si gioca più esplicitamente anche sul recente accordo fatto dalla Exxon Mobil per lo sfruttamento di giacimenti petroliferi kurdi bypassando il governo centrale, che ha reagito ritardando i pagamenti alla Exxon. Al potere a Baghdad sono i partiti religiosi sciiti costretti finora a dividere il potere con al Iraqiya, partito laico che comprende soprattutto sunniti. Una coabitazione che ha finora paralizzato il governo per cui gli islamisti radicali sciiti di Muqtada al Sadr chiedono elezioni anticipate sperando di far fuori i sunniti e garantire un’alleanza più solida a Tehran.

Alla luce di questa situazione così complessa non sorprendono più di tanto le manovre nello stretto di Hormuz anche se il gioco potrebbe diventare pericoloso e lo scontro tra sunniti e sciiti nell’area potrebbe avere esiti imprevedibili e catastrofici.

Si tratta di uno scontro che ha radici religiose e storiche vecchie di secoli, ma che oggi assume una forma – potremmo definire – “moderna”: quella dell’egemonia, del potere e del controllo delle risorse.